Uteri in affitto, la mia scelta per la vita

Caro direttore,
è trascorso poco più di un anno da quando Avvenire raccontò «Il calvario di Vincenza a Caivano». Quell’articolo di Pino Ciociola, era l’8 luglio 2012, parlava soprattutto di me. Stava prendendo le mosse l’inchiesta attenta, documentata e serrata che in questi mesi lei e suoi collaboratori avete sviluppato, dando voce a una «strage silenziosa» (quella di cui io le avevo scritto e che lei ha citato di recente). Per noi che viviamo da “condannati” nel «Triangolo della morte», tra le province di Napoli Nord e di Caserta Sud, di fronte all’incapacità di chi ci ha governato, davvero è difficile tenere viva la speranza.

Tuttavia, da un anno a questa parte molto è stato fatto, per lo più da parte di semplici volontari, di padre Maurizio Patriciello e di alcuni professionisti, mentre il nostro dramma si sta confermando gravemente subdolo e difficoltoso nella risoluzione. Il grande merito di Avvenire, portavoce limpido e intellettualmente corretto, è proprio quello di aver portato all’attenzione pubblica una realtà che si è tentato, per anni, di nascondere e di camuffare. E a volte purtroppo ancora accade che personaggi autorevoli non ne comprendano la portata.

Oggi desidero condividere con lei delle riflessioni sul dossier che sta portando avanti dal 6 agosto. Mi riferisco alla pratica tanto diffusa e agghiacciante dell’«utero in affitto». Come lei e i suoi lettori ricordano, ho scoperto di avere un tumore poco prima di sposarmi, a 29 anni, perché ho sempre vissuto nella «Terra dei fuochi» e sono stata contaminata come moltissimi altri giovani. Dopo un anno ho finito le cure e adesso sono guarita. Ma dopo quel primo anno è accaduta anche un’altra cosa. Io e mio marito eravamo felici per il buon esito delle cure e per il fatto che credevamo di aspettare un bambino. Ovviamente avrei sospeso le eventuali cure successive, pur di averlo. Eravamo felici. Poi il medico mi spiegò che probabilmente ero andata in menopausa precoce per le chemioterapie, come quasi tutte le altre ammalate di cancro.

Avevo 30 anni. Al nostro sconcerto per un nuovo e così grande dolore, dopo aver affrontato tanta sofferenza, il ginecologo assieme ad alcuni suoi colleghi mi propose di fare altri esami. Il risultato fu che ero in menopausa, ma con «un utero perfettamente candidabile per un’ovodonazione». Non potrò mai dimenticare l’amabilità con cui mi dissero che nel loro centro potevo fare tutta la preparazione ormonale, mentre l’impianto in un altro grembo di donna sarebbe avvenuto in dei centri spagnoli di loro conoscenza, all’avanguardia e affidabilissimi. Così io e mio marito scoprimmo come anche in Italia sia ancora facile fare della vita umana un commercio, aggirando le poche leggi che tutelano davvero la vita e i bambini.
Quei medici rimasero sconvolti dalla nostra ferma decisione di rispettare l’uomo sin dal concepimento, pur con la morte nel cuore e una grande ferita nell’anima. Per convincermi, uno di loro mi disse addirittura che qui, in Italia, nessuno avrebbe saputo nulla, perché «tante le donne sterili fanno così»: partono per una vacanza e ritornano con un bambino in braccio che somiglia al papà, donatore del seme…  Ma la realtà è un’altra, caro direttore: si vuole fare della vita altrui e nella vita altrui un sopruso, ridurla a qualcosa di commerciabile e di plasmabile a proprio gusto e piacimento. Scriveva bene padre Giorgio Maria Carbone, chiedendoci di deciderci semplicemente a riflettere se l’embrione umano fosse un «qualcosa» o un «qualcuno». Ebbene qualche medico ci ha deriso, ma altri hanno apprezzato il nostro rispetto per la vita. Rispetto per la vita del nascituro, per la coppia che vuole un figlio e per chi si vende per sfuggire ai morsi della fame.

Troppo poco si pensa a queste ragazze che per pochi soldi vengono imbottite di ormoni per avere continue ovulazioni; troppo poco si pensa che molte di loro si ammaleranno di tumore per i farmaci che sono costrette ad assumere. Troppo poco si pensa che ogni bambino, lui sì, ha diritto. Diritto di nascere naturalmente da una mamma e da un papà, da una donna e da un uomo. La vita innanzitutto va amata e difesa. Non si può essere genitori pensando di costruirsi figli in provetta, mentre gli embrioni in soprannumero diventano giocattoli per esperimenti bizzarri o da brividi! Io e mio marito Luca abbiamo detto “no” a questo abuso. Nessun desiderio umano, benché sofferto e lecito, può diventare un diritto a discapito di chi è più debole, a discapito della vita. La saluto con stima, affetto e riconoscenza.

Stima, affetto e riconoscenza sono i sentimenti, cara Vincenza, che i miei colleghi e io (all’unisono, ne sono sicuro, con i nostri lettori) abbiamo per lei, per suo marito e per tutti coloro che vi sono accanto e assieme in una battaglia di vita che non si rassegna a roghi maligni e ad accecanti manipolazioni della verità e dell’umanità. Le mando un abbraccio. (mt)
avvenire.it