Uscire verso dove. Cattolici in diaspora

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Dal libro «Non è una parentesi» (a cura di Derio Olivero, Effatà Editrice, 2020) pubblichiamo uno stralcio dell’intervento del teologo docente presso la Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale di Milano.

Spesso, quando si presentano nuove sfide, addirittura difficili da comprendere, la reazione istintiva è di chiudersi, difendersi, alzare muri e stabilire confini invalicabili. È una reazione umana, troppo umana. Tuttavia i cristiani hanno la possibilità di sottrarsi a questo rischio, nella misura in cui diventano davvero consapevoli che lo Spirito di Dio è attivo e opera nel mondo: non solo nella Chiesa, ma proprio nel mondo, proprio dentro e attraverso quel cambiamento e quelle sfide. Da “sentinelle” a “esploratori”.

Un cambiamento di stile

I discepoli del Signore sanno che non si esce soltanto per dare un’occhiata curiosa senza coinvolgimento, e neppure si esce per riportare tutti dentro tramite strategie di proselitismo. Piuttosto, si esce per rimanere fuori, o meglio per rimanere in diaspora, appunto. L’ambiente vitale della Chiesa è il “fuori”: sono le periferie esistenziali e sociali, dove si incontrano gli uomini e le donne in carne ed ossa. Si incontrano insomma le persone così come sono e non invece come vorremmo che fossero, in base alle nostre precomprensioni dottrinali e morali. Allora si trova il coraggio di percorrere le strade di tutti; si sprigiona la forza per costruire piazze di incontro e per offrire la compagnia della cura e della misericordia a chi è rimasto ai bordi. Questo, come ha affermato egli stesso, è il «sogno» di Papa Francesco per gli uomini e le donne che testimoniano Gesù Cristo oggi in Italia. Tale sogno, però, non si attua per magia: dipende da ogni credente metterci cuore, mani e testa affinché possa diventare realtà.

Allora ciò di cui c’è bisogno, in primo luogo, è un cambiamento di stile. Non si tratta di «fare» per forza cose nuove, di avviare chissà quali iniziative stravaganti. Si tratta piuttosto di “convertire”, ossia di trasformare in profondità il modo di agire di ogni battezzato e della Chiesa nel suo insieme, per diventare maggiormente capaci di mettersi a servizio dell’incontro di ciascuno con Gesù Cristo e con la sua potenza di autentica umanizzazione.

Possiamo riscontrare una controprova di ciò che sto dicendo nell’ambito significativo della liturgia. È sotto gli occhi di tutti la tendenziale riduzione della pratica liturgica alla celebrazione dei sacramenti, in particolare la messa. Da molto tempo il “sola Eucharistia” funziona come una sorta di equivalente cattolico del “sola Scriptura” protestante. La messa è diventata il sacramento pronto all’uso per tutte le occasioni: dalla sagra di paese alle solennità del calendario. Tanto che, quando l’emergenza pandemica ne ha di fatto reso impossibile la celebrazione nella sua modalità pubblica, è cascato giù l’intero impianto ed è sembrato che non rimanesse in piedi più nulla. La soluzione ovvia è parsa subito quella di continuare a riproporre l’eucaristia, concentrandone però l’azione nel solo ministro ordinato, rendendo la presenza dell’assemblea una variabile indifferente, magari rimpiazzabile senza troppo imbarazzo dal suo simulacro virtuale. Quando poi si è affacciata timidamente la fase di un progressivo allentamento delle restrizioni, con altrettanta facilità si è proceduto a far rientrare l’assemblea dei fedeli dalla finestra, dopo averla lasciata fuori dalla porta o relegata nell’infosfera. Tuttavia, l’operazione non è priva di ambiguità, perché non basta un raggruppamento purchessia per essere nelle condizioni di attestare che lì è proprio il Popolo di Dio a trovarsi radunato. La questione è niente affatto accademica o marginale. Il rischio serio è quello di retrocedere — dopo cinquant’anni di riforma conciliare — ad una concezione del sacramento come rito che funziona comunque, in quanto dotato di un automatismo soprannaturalistico. I liturgisti ci insegnano al contrario che la forma è sostanza. Le modalità effettive con cui il rito è praticato non sono affatto indifferenti affinché si realizzi autenticamente la mediazione simbolica della realtà celebrata. Nella liturgia eucaristica ciò emerge con tutta evidenza. Per sua natura, essa non è una rappresentazione intellettuale, bensì mette in contatto in molti modi i corpi proprio nell’orizzonte della comunione sacramentale con il corpo di Cristo. Se si sottrae all’eucaristia questa dinamica del “corpo a corpo”, la si svuota del suo nucleo insostituibile, e ciò che ne rimane è solo un pallido ectoplasma. Eppure, è proprio questo nucleo insostituibile a costituire un problema, nella situazione epidemica in cui ci troviamo: il virus sta infettando non solo i nostri corpi, ma pure — di conseguenza — i nostri rapporti, l’esperienza di quel “volto a volto” che ci fa essere e ci fa rimanere autenticamente umani. È vero che l’eucaristia fa la Chiesa, ma non bisogna dimenticare la verità reciproca, ossia che è la Chiesa a fare l’eucaristia. La Chiesa, d’alto canto, non è un’entità astratta, bensì è la convocazione di uomini e donne in carne ed ossa. I cattolici non abitano in un mondo a parte, bensì condividono il mondo di tutti. E il mondo qui e ora è alle prese con un’emergenza sanitaria senza paragoni da un secolo ad oggi. Sarebbe davvero il culmine del paradosso se i cattolici, radunandosi con l’intento di celebrare la Vita, finissero in effetti per comunicarsi la morte e diffonderla nel contesto in cui abitano. A fronte dei tempi forti che stiamo attraversando, ritengo sarebbe perciò preferibile rimarcare che, secondo la prospettiva del Vangelo di Gesù, «fonte e culmine» non è immediatamente il rito, bensì è la vita. Se il rito — per cause di forza maggiore — può essere sospeso, tuttavia la vita deve continuare. Il «culto adatto» alla vita del cristiano, per richiamare l’espressione di Paolo (Rm 12, 1), è quello che assume la forma concreta del «corpo donato» nei gesti della cura, della tenerezza, della solidarietà, della misericordia, della riconciliazione. Non c’è pandemia che abbia la capacità di interdire questo tipo di culto: anzi, ne sottolinea con ancora più vigore l’essenzialità, in vista di quell’invisibilità feconda evocata all’inizio.

A questo riguardo, dentro l’attuale condizione di diaspora si ripropone un interrogativo, che potremmo formulare così: la missione della Chiesa è anzitutto evangelizzazione o è anzitutto promozione umana? È un dibattito presente nel cattolicesimo italiano già da molto tempo, almeno a partire dal primo Convegno ecclesiale nazionale celebrato a Roma nel 1976. Ora come allora, le posizioni in campo sono divergenti. C’è chi pensa che il compito della comunità cristiana sia quello di annunciare il Vangelo rimanendo su un piano strettamente religioso, e che perciò l’impegno sociale sia secondario, da assumersi al massimo per supplire ritardi o inadempienze da parte di altre istituzioni. Al contrario, c’è chi pensa che l’evangelizzazione debba essere preparata e accompagnata dalla promozione umana, in quanto il Vangelo può venire compreso e accolto solo dove siano garantite preventivamente la vita, la dignità, la giustizia, insomma le esigenze fondamentali dell’esistenza. Ora, impostato così il problema, è davvero difficile stabilire da che parte stia la ragione e da che parte stia il torto: anzi, verrebbe da pensare che siano perfettamente legittime entrambe le posizioni. In effetti sia l’una che l’altra hanno alla base delle buone motivazioni, ma a guardar bene condividono un grosso limite, che alla fin fine le rende tutt’e due poco convincenti. Il limite è quello di presupporre che l’evangelizzazione e la promozione umana costituiscano di per sé due realtà destinate a nascere e a rimanere distinte. Quasi che appunto l’impegno religioso e l’impegno sociale camminino per forza su binari differenti e paralleli, che si incontrano solo su determinati punti e in determinati momenti, per poi riprendere a viaggiare l’uno di fianco all’altro.

Una «mistica della fraternità» per un cristianesimo degli occhi aperti

Non a caso ritroviamo questa problematica nel capitolo quarto di Evangelii gaudium, dove Papa Francesco prende posizione circa il dibattito di cui parlavo, proprio cercando di superare il limite che ho appena ricordato. Infatti, subito all’inizio del capitolo, al n. 177, si dice chiaramente: «Il kerygma possiede un contenuto ineludibilmente sociale: nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri». Dunque per Papa Francesco la missione evangelizzatrice non solo fa spazio alla dimensione sociale, ma la implica in modo costitutivo: da questo punto di vista, si potrebbe affermare che l’evangelizzazione integrale è promozione umana, nel senso più pieno di questa espressione. Penso non sia per nulla una semplice coincidenza che la preoccupazione di restituire concretezza e forza di umanizzazione alla presenza della fede cristiana sia ciò che caratterizza in maniera più evidente lo stile e il messaggio di Papa Francesco. In effetti in Eg si rimarca con insistenza che la professione della fede stringe un vincolo indissolubile con l’impegno a livello della vita personale e della società: «La proposta è il Regno di Dio (Lc 4, 43); si tratta di amare Dio che regna nel mondo. Nella misura in cui Egli riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti. Dunque, tanto l’annuncio quanto l’esperienza cristiana tendono a provocare conseguenze sociali» (n. 180). La persuasione fondamentale di Papa Francesco è che la relazione con Dio in Cristo dona all’uomo che si affida la capacità di «rimanere in uscita» e porsi con coraggio sulla scena del mondo; precisamente il coraggio che viene dalla fede dovrebbe costituire il tratto distintivo più chiaro del cristiano. Si tratta di una capacità di iniziativa, che spinge a prendere le distanze dal comodo adattamento al dato di fatto, per assumersi invece la responsabilità impegnativa di intervenire attivamente. È bene chiarire subito che «rimanere in uscita» non ha niente a che vedere con l’arroganza, con la ricerca di autoaffermazione o con la prepotenza di chi ritiene che rendere buona testimonianza all’Evangelo significhi impugnare la verità come fosse una spada. Al contrario, la verità evangelica non sopporta di essere gridata, di venire trasformata alternativamente in arma di offesa o di difesa, da brandire in faccia all’altro. Si potrebbe affermare che, secondo la prospettiva di Papa Francesco, l’atteggiamento opposto al relativismo non è mai l’assolutismo, cioè l’intransigenza, bensì è il dialogo come forma essenziale di incontro e come espressione privilegiata dell’«uscire». Merita citare al proposito ancora un passaggio del discorso tenuto da Papa Francesco a Firenze: «Vi raccomando, in maniera speciale, la capacità di dialogo e incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti. […] Dobbiamo sempre ricordare che non esiste umanesimo autentico che non contempli l’amore come vincolo tra gli esseri umani, sia esso di natura interpersonale, intima, sociale, politica o intellettuale. Su questo si fonda la necessità del dialogo e dell’incontro per costruire insieme con gli altri la società civile. […] Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà. E senza paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti non è possibile comprendere le ragioni dell’altro, né capire fino in fondo che il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze. È fratello».

Senza dubbio, una costante attorno alla quale raccogliere sinteticamente il senso del magistero di Papa Francesco è individuabile nel rimando ricorrente ad una «mistica della fraternità» (cfr. Eg 87). Si tratta appunto di comprendere che, davanti alle crisi che segnano le nostre società e che la pandemia ha amplificato a dismisura, la fede si propone come una «risorsa spirituale» che può fare la differenza, sia sul piano individuale, sia sul piano collettivo. Intendo una fede che consenta di continuare o ricominciare a dare credito alla vita, prima ancora che a Dio. Se preferiamo, intendo una fede che può giungere a dare credito a Dio solo a condizione che emerga come questo consenta di dare incondizionatamente credito alla vita. Al proposito, vorrei soffermarmi su ciò che la psicoanalista Julia Kristeva ha definito con un intrigante gioco di parole l’«incredibile bisogno di credere». Si tratta di una dimensione fondamentale di fiducia, che connota strutturalmente il soggetto umano, in quanto soggetto che parla e che agisce. Kristeva la qualifica come «una necessità antropologica, prereligiosa e prepolitica», che diventa il segno che la ricerca di senso ha un carattere sempre eccedente, perché il suo oggetto per essere colto e accolto domanda un credito, un affidamento. Julia Kristeva non manca di avvertire che questo bisogno di credere è tanto «filo portatore di vita quanto nodo di strangolamento». Infatti, per un verso esprime un desiderio di senso che non è appagato da un’esistenza del tutto imprigio-nata nella cornice dell’immanenza, in quanto un’esistenza così viene percepita come esposta al rischio di risultare inconsistente, banale. Tuttavia, per altro verso, se il bisogno di credere non trova un’adeguata canalizzazione può anche sfociare nel fanatismo violento oppure all’opposto nel disincanto pessimistico. Quindi si tratta di un fenomeno che non permette di essere né idealizzato o strumentalizzato, né ignorato o rimosso, poiché richiede piuttosto di essere riconosciuto e accompagnato, nella misura in cui rappresenta una chance ma anche una prova per le nostre società e per le stesse religioni. Da qui mi sembra sorgere l’esigenza di mettere in piena luce che la fede cristiana, ossia quel bisogno di credere che si affida alla novità dell’Evangelo e se ne lascia plasmare, trova il criterio di verifica decisivo proprio nella sua forza di auten-tica umanizzazione: se tale forza venisse meno o comunque non fosse più percepita, ne risulterebbe pregiudicato il carattere promettente di quello stesso affidamento. In effetti, la vicenda di Gesù, dall’inizio fino alla risurrezione, mostra che una vita autentica, una vita realizzata secondo il suo giusto senso, è quella che si basa su due aspetti fondamentali: l’affidamento e la dedizione. Dunque, chi crede in Gesù diventa consapevole che un’esistenza promettente — poiché «salvata» sia dal delirio di onnipotenza sia dal complesso di impotenza — scaturisce dall’intreccio di due dimensioni immancabili: la fiducia in Dio e negli altri, che rende possibile l’amore per Dio e per gli altri. Tale consapevolezza, che sgorga dalla fede, dovrebbe portare il credente a non preoccuparsi subito e soltanto di come cambiare le cose, ma di come valutarle e gestirle in maniera che, dentro qualunque situazione o circostanza — anche la più negativa, come il dramma attuale del contagio — si possano sempre scorgere le buone occasioni, che sono offerte, per realizzare il giusto senso della vita. In questo modo, la presenza cristiana diventa “feconda”, ovvero diviene capace di generare e condividere nello spazio sociale una maniera di abitare il mondo davvero innovativa, forse addirittura rivoluzionaria per il nostro tempo disincantato e piuttosto cinico.

Non una conclusione

La diaspora come occasione favorevole? La transizione dalla “cristianità” alla “diaspora” — accelerata esponenzialmente dall’emergenza pandemica — ci provoca a passare dall’attesa che le persone accostino i nostri ambienti ecclesiali, all’iniziativa di incontrarle dove esse effettivamente vivono: non solo negli spazi fisici, ma anche online, nella sfera della rete. Da questo punto di vista, il dramma della pandemia è stato a suo modo una revelatio, un toglimento del velo, che ha messo allo scoperto un limite strutturale della nostra realtà ecclesiale. Voglio dire: la comunità cristiana continua ad essere maggiormente attrezzata per aiutare a crescere una fede già esistente, anziché più in radice per consentire di nascere ad una fede ancora in gestazione. Se si intende superare tale limite, è necessario investire risorse di intelligenza e di impegno per attivare una testimonianza che interpella, inquieta, suscita domande e alimenta speranze. Non è più sufficiente una pastorale di conservazione, c’è bisogno di un cammino che conduca ad una pastorale “generativa”, espressione di una Chiesa consapevole di non essere già tutta costituita, ma di rimanere sempre in via di costituzione. Percorrere questo cammino verso una pastorale generativa significa appunto convertire l’immagine della Chiesa, lasciando finalmente alle spalle l’“ecclesio-centrismo” per andare verso una comunità ecclesiale che si riconosca decentrata nella storia. Quindi una comunità ecclesiale che sia cosciente di trovarsi non in una condizione di staticità, di immobilità, bensì immersa dentro un continuo cambiamento, e di conseguenza si senta chiamata ad essere presente proprio là dove si genera la fede. È niente meno che uno stile complessivo di Chiesa che si scopre posto in questione. Potrebbe essere una crisi di rinascita, ma nulla garantisce che l’occasione favorevole sarà effettivamente colta.

Una cosa però è certa: l’imperativo dell’“uscire” ci indica un compito, che può davvero diventare un’opportunità formidabile. Si tratta dell’opportunità di discernere ciò che oggi, nella condizione della diaspora, “lo Spirito dice alle Chiese”, affinché non ci limitiamo ad adorare le ceneri di una “cristianità” ormai in rovina, bensì ci adoperiamo per tenere vivo il fuoco dell’Evangelo. Quel fuoco che accende la passione per un “cristianesimo degli occhi aperti”, capace di illuminare la strada verso l’autentica umanizzazione. Una strada che passa in particolare attraverso l’impresa davvero epocale di riannodare i fili che legano la libertà con la responsabilità e la fraternità. È soltanto così che le vie dell’evangelizzazione si incroceranno sino a fondersi con le vie della promozione umana: nello spazio comune di un mondo pienamente a misura d’uomo, proprio perché incessantemente proteso verso la dismisura di Dio.

di Duilio Albarello

Osservatore Romano