Urbanesimo e globalizzazione. Le città, senza legami culturali, non hanno più un’anima

Milano vista dal grattacielo più alto d'Italia, la Torre dell'Unicredit

Milano vista dal grattacielo più alto d’Italia, la Torre dell’Unicredit

La città non è soltanto il luogo in cui si è, ma anche quello in cui si vorrebbe essere. Attraversando le strade della città in cui viviamo non possiamo fare a meno di pensare a come vorremmo che fossero. Abitiamo e immaginiamo contestualmente la stessa città, le apparteniamo e allo stesso tempo ci allontaniamo da essa per attribuirle un volto diverso. È questa la tensione vitale e costitutiva dell’urbanesimo. Abitare significa progettare e trasformare i luoghi della vita. Per questa ragione l’habitat urbano non si esaurisce nella somma dei suoi spazi; l’ambiente della città è inappropriabile dal momento che non coincide mai con la realtà abitata o percepita. Esso sfugge a ogni tentativo di contenimento poiché la città non si accontenta di essere rappresentata, ma chiede insistentemente di essere immaginata e cambiata. Anche per questo motivo le comunità cristiane dovrebbero prestare particolare cura e attenzione alla città in trasformazione. La riflessione comune sul “nuovo umanesimo” non può essere oggi disgiunta da quella sul “nuovo urbanesimo”. La città non è mai esclusivamente quella reale, né soltanto quella ideale, è invece qualcosa che eccede le singole parti, senza tuttavia ignorarle o sminuirle. Intere civiltà hanno trovato nella dimensione urbana il proprio ancoramento fondativo non solo perché la città mette ciascuno nelle condizioni di avere un posto all’interno di un insieme composito, ma perché essa educa a pensare l’insieme come una realtà diversa dalla somma delle parti. È oggi possibile oltreché necessario parlare di cristianesimo urbano muovendo dall’idea che «il tutto è superiore alla parte» (Francesco, Evangelii gaudium, n. 234).

Il saggio di Richard Sennett, Costruire e abitare. Etica per la città (Feltrinelli, pagine 364, euro 25), è uno strumento indispensabile per comprendere le trasformazioni dell’urbano contemporaneo. Il libro completa la trilogia che il sociologo statunitense ha dedicato all’Homo faber: dopo aver riflettuto sulla collocazione dell’uomo artigiano nel mondo delle imprese e dei manufatti, dopo aver scandagliato la mente e il cuore dell’uomo collaboratore, Sennett indirizza lo sguardo verso l’uomo urbanizzato. Questo saggio è un invito ad attraversare la complessità dell’urbanizzazione contemporanea con un atteggiamento coinvolto e appassionato.
La città ha perso il suo retroterra. A causa della globalizzazione ogni agglomerato urbano non può essere naturalmente incastonato in un preciso ambiente regionale o nazionale: è la nascita della città globale o meglio della rete delle città globali, metropoli accomunate da traffici economici e da interessi finanziari più che da legami culturali e politici con i rispettivi contesti territoriali. «Come conseguenza della globalizzazione, il vecchio modo di pensare a una struttura politica è diventato obsoleto. Era una concezione simile alla costruzione di matrioske russe, che inserivano l’una dentro l’altra bamboline di dimensioni diverse; i quartieri sono inseriti nelle città, le città nelle regioni, le regioni nelle nazioni. Le città globali non sono più luoghi protetti inseriti in aree più grandi; si sono staccate dagli stati-nazione che le contengono. I più grandi partner dei mercati finanziari di Londra sono Francoforte e New York, non il resto della nazione britannica» (p. 121).

Le conseguenze di queste macroscopiche trasformazioni si riverberano nelle città che quotidianamente frequentiamo o abitiamo. Spezzati i legami e anestetizzati i rapporti con le comunità di vita, compromessi i tentativi di una pianificazione condivisa e partecipata, una città globale rischia di trasformarsi in una città-piovra: «Nuove strade si irradiano come tentacoli, collegando zone urbane in cui viene versato sempre nuovo denaro, unendo per esempio un centro commerciale a un grattacielo di uffici o a un nuovo quartiere residenziale; questi collegamenti attraversano un susseguirsi di quartieri disagiati e trascurati della città, oppure aggirano bidonville, barrios, favelas e insediamenti di squatter […] La piovra urbana è una bestia in cui prima crescono le teste e che poi sviluppa tentacoli per collegarsi a teste, nodi o centri di sviluppo» (p. 123).
La logica dell’urbanizzazione contemporanea ignora la preminenza dell’abitare sul costruire. La pianificazione dei luoghi sminuisce e sovente calpesta le pratiche feriali e fedeli del quotidiano, quelle in cui è ancora possibile “sentirsi a casa” senza rimuovere la fatica di costruire ogni giorno, daccapo, un luogo ospitale. La socialità sobria e coerente dell’urbanesimo di prossimità non si nutre di omogeneità culturale e sociale. La vita urbana è densa prima ancora di essere densamente abitata. Occorre riconoscere nella città il luogo mentale oltreché fisico della complessità e della corposità. Il quotidiano urbano è densamente ricco di simboli e frizioni, si compone di slanci e contraccolpi, non si lascia facilmente striare come vorrebbe l’ossessione globale per i flussi e i facili raccordi. Bisogna imparare a riconoscere l’attrito urbano senza temerlo o demonizzarlo. La vita quotidiana di chi abita e non solo attraversa una città è fatta di incontri mancati o spezzati, di visite inattese e spiazzanti. È questa la materia involontaria e allo stesso tempo vitale dell’attrito urbano. Sono questi i segni di un avamposto di alterità e di una riserva di trascendenza che ancora freme nelle pieghe dei tessuti urbani. Le smart cities, supportate dalla tecnologia user friendly, realizzano paesaggi urbani in cui l’attrito è assente, dove non si pretende nulla dal cittadino o dall’utente. L’abitante della città contemporanea deve essere prima di tutto sgravato, facilitato, alleggerito. In questo modo «il clamore della complessità è messo a tacere dalla comodità» (p. 176).

Occorre che le comunità e le associazioni ecclesiali siano in grado di formulare un’ermeneutica dell’attrito urbano. L’urbanità evangelica si riscontra nella frizione dialogica, non tanto nella contrapposizione dottrinale. Lo stile relazionale e urbano di Gesù si riconosce dal tono e dalla gestualità del contrappunto. Chi da esso si lascia plasmare non può limitarsi a facilitare o esonerare gli individui. Bisogna riconoscere la densità della vita urbana non rimuovendo ma valorizzando gli attriti del tempo feriale, senza farne detriti per il tempo produttivo. «Come può la città aprirsi in modo che l’esperienza diventi più densa?» (p. 191).

da Avvenire