Un risveglio di comunione e di missione esige coraggio, accompagnato da norme esplicite che, in attesa della conversione del cuore, obblighino l’inizio del cambiamento

di: Vinicio Albanesi

sinodalita

Dopo la notizia del 7 marzo 2020 che papa Francesco aveva indetto la XVI assemblea generale ordinaria del sinodo dei vescovi per il mese di ottobre del 2022 sul tema Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione, le attese hanno iniziato ad essere intense con scritti riflessioni, studi e commenti.

Già nel 2015, in occasione della commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del sinodo (17 ottobre 2015) da parte di Paolo VI, papa Francesco aveva insistito sul tema della sinodalità come occasione di riforma della vita della Chiesa. Un passaggio significativo di quel discorso affermava: «Il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie in tutti gli ambiti della sua missione. Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio».

I capitoli della sinodalità

Il card. Baldisseri, segretario del sinodo, commentando l’istruzione Episcopalis communio (15 settembre 2018), indicava quattro chiavi di lettura della sinodalità, riportando le parole del papa.

La prima chiave è il riferimento al capitolo III della Lumen gentium: «Il sinodo, dunque, è deputato in certo modo a prolungare nella vita ordinaria della Chiesa il dinamismo benefico del Concilio ecumenico, che nella storia si è costantemente dimostrato un potente fattore di riforma ecclesiale, ma che, per sua stessa natura, è un avvenimento assolutamente eccezionale».

La seconda chiave di lettura è l’invito a rendere «il sinodo più “dinamico”, e per questo più incisivo nella vita della Chiesa. […] Il sinodo “parte” dalle Chiese locali, cioè dal basso, dal popolo di Dio diffuso su tutta la terra, per mezzo di una consultazione condotta a tutto campo e, dopo il raduno assembleare dei Padri sinodali, “ritorna” nelle Chiese particolari, dove le conclusioni recepite dal papa dovranno essere tradotte tenendo conto dei bisogni concreti del popolo di Dio, in un processo necessariamente creativo di inculturazione. […] Ad animare quest’opera di rinnovamento dev’essere la ferma convinzione che tutti i pastori sono costituiti per il servizio al popolo santo di Dio, al quale essi stessi appartengono in virtù del sacramento del battesimo».

La terza chiave di lettura è la dimensione del popolo dei battezzati: «Benché nella sua composizione si configuri come un organismo essenzialmente episcopale, il sinodo non vive pertanto separato dal resto dei fedeli. Esso, al contrario, è uno strumento adatto a dare voce all’intero popolo di Dio proprio per mezzo dei vescovi, costituiti da Dio “autentici custodi, interpreti e testimoni della fede di tutta la Chiesa”, mostrandosi di Assemblea in Assemblea un’espressione eloquente della sinodalità come “dimensione costitutiva della Chiesa”».

L’ultima chiave di lettura è la dimensione ecumenica: «L’impegno a edificare una Chiesa sinodale […] è gravido di implicazioni ecumeniche. […] Sono persuaso che, in una Chiesa sinodale, anche l’esercizio del primato petrino potrà ricevere maggiore luce. Il papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come battezzato tra i battezzati e dentro il Collegio episcopale come vescovo tra i vescovi, chiamato al contempo – come successore dell’apostolo Pietro – a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese».

Le sfide per il futuro sinodo

Sintetizzando molto, gli assi portanti del futuro sinodo sono quattro: la collegialità episcopale, la funzione del sinodo, il rapporto tra vescovi e battezzati e, infine, l’ecumenismo.

Una riforma alla quale si agganciano molti problemi legati a una diversa visione che va oltre l’organizzazione ecclesiastica, ma che richiede la rilettura dell’ecclesiologia in termini teologici.

Il sinodo non ha – se si guarda alla Chiesa latina del secondo millennio – una grande tradizione di collegialità.

Nel concilio Vaticano II è stata molto elaborata la dottrina riguardante la collegialità episcopale (Lumen gentium n. 22 e 23). È stato fatto notare che, nonostante le mediazioni, sembrano sovrapposte due dottrine ecclesiologiche: la prima risalente al Vaticano I sul primariato papale e la seconda sulla collegialità, con la conseguenza che non si riesce a comprendere se siano due soggetti portatori della “potestà suprema”.

Il sinodo è stato indetto, per la prima volta, da Paolo VI nel 1963; è definito come strumento «per favorire una stretta unione fra il romano pontefice e i vescovi stessi e per prestare aiuto con il loro consiglio al romano pontefice nella salvaguardia e nell’incremento della fede e dei costumi» (can. 342 Codice diritto canonico).

Nel tempo sono stati introdotte modifiche sul regolamento, ma le fondamenta giuridiche del sinodo sono rimaste le stesse. Si attendono novità dalla riforma della curia romana, anche se non si hanno notizie se e come andranno a interferire con il tema della collegialità.

Il secondo asse di discussione del prossimo sinodo riguarda la sua stabilità e la sua funzione nell’ambito della Chiesa universale. A questo proposito, è da evidenziare il rapporto tra la Santa Sede e le conferenze episcopali nazionali. Queste ultime sono costituite per nazioni, per continenti, per parti di continenti. La loro funzione è più “pastorale” che giuridica. Un sintomo è la quasi scomparsa delle “province ecclesiastiche” e delle “regioni ecclesiastiche”, con i relativi concili “particolari” che avevano, anche se limitatamente, funzioni legislative. Addirittura il metropolita è diventato di fatto un titolo di onore (cann. 435-438).

La partecipazione con spirito sinodale è riservata ai vescovi, con il limite che i temi riguardanti l’organizzazione ecclesiastica, i religiosi, la liturgia, le aggregazioni sono sottoposte alle congregazioni pontificie. Se questa impostazione garantisce unità di intenti, impedisce anche esperienze, tentativi, assetti diversi da quelli esistenti. Sarà interessante comprendere che cosa il sinodo suggerirà a proposito della “dinamicità” del sinodo.

La discussione dovrà vertere anche sul rapporto tra il vescovo e i battezzati della propria diocesi. L’assetto odierno è strettamente gerarchico non solo per il potere di ordine, ma anche di giurisdizione. Il canone 369 del Codice addirittura affida la Diocesi, porzione del popolo di Dio, al vescovo, con la «cooperazione del presbiterio»(!).

Nemmeno il sacramento dell’ordine riesce a creare sinodalità tra i ministri sacri, figurarsi con i battezzati. Da qui l’opzione, riservata al vescovo, di indire il sinodo diocesano, di nominare gli addetti alla curia diocesana, i vicari generali ed episcopali, il cancelliere… Sono obbligatori il Consiglio per gli affari economici, l’economo diocesano, il Consiglio presbiterale e il collegio dei consultori. Il Consiglio pastorale è opzionale; ne fanno parte rappresentanti di fedeli che hanno il compito «studiare, valutare e proporre conclusioni operative…» (can. 511)

Con un simile assetto è molto difficile parlare di sinodalità.

L’ultimo capitolo della sinodalità riguarda l’ecumenismo. Purtroppo per la cultura occidentale le disparità tra le religioni cristiane riguardano “la dottrina”, con tutti i dettagli che, non sempre, il popolo dei cristiani comprende. La differenza tra una sacra icona e la statua di santa Rita è molto labile per un pio fedele dell’est Europa. Si sta ponendo invece un problema molto serio con le grandi religioni, fuori dal cristianesimo e non soltanto con l’islam. La globalizzazione è in atto non solo per le merci, ma anche per i popoli, in continuo movimento.

La sinodalità implica una nuova concezione delle relazioni nella Chiesa santa di Dio. Tali relazioni vanno ad impattare sull’organizzazione e sulla gestione, a partire da fondamenti teologici e giuridici solidi. Ad oggi l’impostazione è decisamente clerico-gerarchica, in forme difficilmente gestibili in clima di intelligenze e di partecipazione. Il programma di conversione è un processo lungo. Importante è comprendere prima e volere poi un reale cambiamento della complessa istituzione che è la Chiesa.

Un errore da evitare – segnale spesso di non volontà – è adoperare la matrice dell’esortazione. La formula quantum fieri potest (se è possibile) permette la pigrizia, con il risultato che il sistema vigente continuerà a rimanere non sinodale.

Un risveglio di comunione e di missione esige coraggio, accompagnato da norme esplicite che, in attesa della conversione del cuore, obblighino l’inizio del cambiamento. È l’auspicio e la preghiera che ciascuno di noi rivolge a Dio per il bene delle anime.

Settimananews