Un riflessione “poliedrica” sul tema dell’abbandono

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Osservatore

Il più antico sentimento che accompagna l’avventura umana non è la paura, ma il senso dell’abbandono, il sentirsi non amati, rifiutati, scartati.

È questo il tema che sta sullo sfondo del “poliedrico” Primo Piano che il lettore troverà nelle pagine 2 e 3 di questo giornale ma che, proprio per l’ampiezza di questo argomento, non si esaurirà ma continuerà nei prossimi giorni con altri approfondimenti. Da quando «L’Osservatore Romano» il 5 ottobre scorso, ha cambiato formato, quelle due pagine ospitano un approfondimento, un focus che a volte assume la forma di poliedro, concetto caro a Papa Francesco, perché nasce dalla collaborazione dei diversi settori della redazione del quotidiano, in una modalità per cui tutti contribuiscono con la rispettiva peculiarità in un’armonia che non omologa ma crea connessione e trae forza proprio dalla diversità.

Nei “poliedri” di oggi e dei prossimi giorni vediamo che a costruire insieme una riflessione articolata sul tema dell’abbandono contribuiscono la teologia, con la riflessione portante di don Cesare Pagazzi, ma anche la letteratura, la poesia, la musica. Sono le arti infatti che, in particolare, hanno spesso incrociato la strada di questo sentimento radicale, anzi in qualche modo le arti rappresentano quasi un antidoto, una risposta, alla terribile sfida che il senso dell’abbandono porta con sé. L’artista già nel gesto creativo non fa altro che comunicare, creare cioè un ponte tra sé, il mondo e gli altri, in modo da vincere quel gelo della solitudine proveniente dalla percezione di essere stati abbandonati.

L’elenco delle opere che narrano di questa ferita (e della cura della stessa) è praticamente infinita. Mi viene in mente in particolare uno dei romanzi più potenti degli ultimi anni, La strada di Cormac McCarthy del 2006. In uno scenario apocalittico, probabilmente post-atomico, gli uomini ridotti ad uno stato ferino, molti di loro dediti al cannibalismo, ci sono un padre e un figlio che camminano lungo una strada cercando la via del mare e provando a sopravvivere al folle azzeramento di tutto. In questo mondo gelido i due si ripetono a vicenda la frase “noi portiamo il fuoco”.

Dotato di una forza d’impatto devastante, questo romanzo è un inno alla paternità intesa proprio come tenace volontà dell’uomo di non abbandonare il proprio simile, di combattere questa rassegnazione che nasce dal sentirsi soli, abbandonati, una tenacia struggente che porta il protagonista a dire frasi come questa: «Sapeva solo che il bambino era la sua garanzia. Disse: “Se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato”». Una lettura imprenscindibile in un momento storico come questo (e come tutti) in cui il rischio dell’annichilimento dell’umano è sempre sull’orlo di realizzarsi.

Perché ci hai abbandonato?
di Giovanni Cesare Pagazzi

Uomini di “nessun dove”
di Lucio Brunelli

Qualunque cosa accada
di Andrea Ciucci

La solitudine e il viaggio
di Daniele Mencarelli