Un Dio senza dimostrazioni. Per quanto ci sforziamo di accumulare «certezze», restiamo viandanti di un percorso infinito di cui non ci è dato vedere l’esito

di Roberto Beretta | in vinonuovo.it
Per quanto ci sforziamo di accumulare «certezze», restiamo viandanti di un percorso infinito di cui non ci è dato vedere l’esito

Io alle dimostrazioni razionali dell’esistenza di Dio non ci credo. Che siano le famose «cinque vie» di san Tommaso, l’argomento ontologico di Anselmo d’Aosta o altre prove esistenziali derivate da esperienze pratiche o sistemi di pensiero, credo che – come ha detto Pascal – Dio (se c’è) ha voluto «lasciarci abbastanza luce per credere e abbastanza ombra per rifiutarlo» (peraltro, tanto per far pari e patta tra filosofi, non mi convincono nemmeno la teoria della «scommessa» di Pascal, o Kierkegaard quando afferma che «la fede comincia dove la ragione finisce»…).

Anzi, capovolgendo il pensatore danese, ritengo semmai che «la fede finisce dove la ragione comincia» o quasi: ovvero non c’è alcun bisogno di «credere» qualcosa che è evidente, dimostrato o dimostrabile, palpabile… E il Padreterno (sempre se esiste, e se è quello che mi piacerebbe che fosse) è talmente rispettoso della nostra libertà da impedirsi di dare una clamorosa e irrefutabile prova della sua esistenza; come un vero buon padre sa che deve lasciare ai figli la soddisfazione di conquistarsi da sé le proprie convinzioni, senza imporle.

Anzi, pur rispettando gli ammirevoli e persino doverosi sforzi di chi s’ingegna a trovare soluzioni al mistero, vado ancora più in là: le presunte dimostrazioni dell’esistenza di Dio (così come quelle – ad esempio – della resurrezione di Cristo, delle apparizioni mariane, dell’efficacia della preghiera, del fatto che credere sia meglio che non credere, eccetera eccetera) alla fine sono destinate a rivelarsi sempre inutili, quando non dannose.

Inutili: infatti al massimo servono ad esercitare il pensiero e a dimostrare la «non irrazionalità» del fatto che un Dio esista, ma comunque restano del tutto impotenti sia – come sopra postulavo – a darcene sicurezza definitiva, sia a dirci qualcosa sulla natura di tale Essere; cosa che è forse la più importante (qualora Dio fosse cattivo, sarebbe forse meglio non sapere che c’è…).

Dannose: un’architettura di stretta razionalità falsa inevitabilmente il rapporto col divino. Non dobbiamo credere perché se non lo facessimo saremmo degli ignoranti che negano l’evidenza, oppure perché con la fede si vive senz’altro meglio, o ancora perché le probabilità che Dio ci sia superano quelle che non esista, o perché la maggioranza delle persone che stimiamo ci crede, e così via. Sono tutte ragioni che possono avere, nelle storie personali di ciascuno, qualche peso; ma in sé non sono decisive e anzi sminuiscono la nostra visione della divinità immaginandola non per sé stessa bensì come qualcosa di «utile» o di «necessario», cui ci sottomettiamo per bisogno.

Molto più accattivante – almeno per me – poter percorrere con curiosità tutte le strade, quelle della ragione così come della storia o dell’esperienza, sapendo già fin d’ora che un approdo sicuro e definitivo non si troverà mai: com’è logico e caratteristico per l’umana condizione. Nelle convinzioni di fede e nelle vicende della vita avviene infatti lo stesso: per quanto ci sforziamo di accumulare «certezze», restiamo viandanti di un percorso infinito di cui non ci è dato vedere l’esito. Aver fede è semplicemente continuare a camminare.