Tradizioni. In Basilicata, tra i paesi del pane

Lo scrittore Raffaele Nigro rievoca i sapori dell’infanzia: «Quel pane raffermo di mamma io lo trovavo squisito come base di un piatto povero quanto la camicia di Gesù, il pancotto con rape e patate»

Fornai che portano la massa nel forno

Fornai che portano la massa nel forno

Avvenire

Uno stralcio del racconto scritto da Raffaele Nigro per “Pantagruel”, la nuova rivista quadrimestrale della Nave di Teseo, fondata da Elisabetta Sgarbi ed Enrico Ghezzi, che ospiterà testi inediti di autori italiani e internaziona-li, in numeri monografici dedicati a temi che intrecciano arti, discipline, saperi, e che sarà distribuita in libreria dal 17 ottobre (pagine 270, euro 19). Il numero zero, a cura di Elisabetta Sgarbi e Vincenzo Santochirico e in collaborazione con la Fondazione Sassi di Matera, è dedicato al pane e alla cultura materiale, a partire dal grano e dal pane, radici della cultura mediterranea.

Il pane dalle mie parti, pur continuando ad avere un sapore speciale non è più il pane dei tempi passati. Perché la materia prima non è più la stessa. Traccerò una storia di questo pane in poche battute, sperando che le mie parole non facciano desistere dal venire a visitare lo sprofondo di Matera, le alture rocciose delle Dolomiti Lucane, l’acqua cristallina di Maratea e del Cilento e la bellezza architettonica del rinascimento normanno- svevo, intorno a Melfi e al Vulture e nelle straordinarie cattedrali romaniche della costiera adriatica. Ricordo che nel 1948, quando da poco mio padre era tornato dalla guerra, dopo sette anni di prigionia tra Bombay, Madras e Liverpool, ci furono scioperi a catena e occupazioni di terre al grido di “Pane e lavoro!”. Da noi si occuparono i latifondi dei Doria e, se papà finì alla sbarra con molti altri braccianti, altrove ci furono morti, tra cui i giornalieri Rocco Girasole e Nunzia Suglia. Tra i ribelli nelle terre dei Berlingieri e dei Sanseverino, c’erano a vario titolo anche Rocco Scotellaro, Carlo Levi, Eugenio Colorni e Manlio Rossi Doria. Questi ultimi erano stati confinati quaggiù dal fascismo ed erano rimasti affascinati dalla cultura del nostro mondo e colpiti dal ritardo, dalla miseria e dalla distanza del Governo centrale. Perciò tornarono al sud, per aiutarlo a farsi economicamente un po’ più nord. Ricordo quando mio padre Antonio preparava nel magazzino con nonno Raffaele montagne di grano lavandolo col verderame. Poi lo si caricava sul traino e lo si trasportava nelle quote di Facciarsa, di Vaccareccia e di Camarda per la semina. 

Erano pianure che circondavano l’Ofanto, nel tempo della Magna Grecia e della colonizzazione romana avevano ospitato delle ville imponenti, abitate da Quinto Orazio Flac- co e attraversate da Annibale e nell’XI secolo dai Bizantini di Basilio Bojoannes. Non cresceva molto frumento, perché per secoli erano diventati latifondi delle ricche famiglie principesche, tuttavia la Riforma fondiaria, che aveva realizzato tanti poderi e divise le terre tra i reduci della guerra, aveva portato almeno la possibilità di sconfiggere la fame. Mio padre vendeva il grano che coltivava, lui piantava soprattutto il Senatore Cappelli, ma una parte lo portava al mulino e faceva farina per noi e per i nonni. Sentivo di notte mia madre, Teresina del Bambino Gesù, scavare nel sacco della farina e impastare nella madia. Mi restano nella memoria i verbi urlati nottetempo in strada dal fornaio: «Teresì alzati ch’è giorno, spiana, impasta, prepara le pagnotte». Gino il fornaio passava con un lungo asse in spalla sul quale mia madre collocava due forme gigantesche di pane, le chiamavamo vuciulatedd. Sulla parte convessa scriveva una n o una t con un cingolo di farina, Nigro o Teresina, tracciava una croce col coltello, per riconoscerlo tra tanti. Era un pane profumatissimo, che durava mezzo mese, ma che diventava duro negli ultimi giorni. 

Confesso che io preferivo il pane bianco che vendevano le salumerie, sempre morbido e croccante perché fatto col fiore della farina e, quando me ne andai a studiare all’università ed ebbi il primo lavoro, il pane di Roma e di Bari rispose pienamente a quel mio gusto di morbido e aristocratico. Un pane metropolitano. Mia madre sapeva come fosse soggetto quel suo pane a farsi compatto, nonostante il lievito naturale e allora per far sentire in casa la festa della panificazione faceva una focaccia speciale, arrotolata, il cuclos, oppure una sfogliata ricca di pomodoro, acciughe, origano e olio. Una leccornia che non ho trovato mai da nessuna parte del mondo, neppure a Napoli o in Puglia, dove i fornai sono maestri nel preparare focacce con farina di grano, di patate e pomodori. Tuttavia quel pane raffermo di mamma io lo trovavo squisito come base di un piatto povero quanto la camicia di Gesù, il pancotto con rape e patate, un filo d’olio, due peperoni cruschi. Devo anche dire che noi quel pane non lo mettevamo mai a faccia in giù, per rispetto a Cristo, e se eravamo costretti a buttarne qualche pezzo diventato legnoso, lo si baciava e si chiedeva perdono al cielo con un segno di croce.