Tra il 1948 e il 1996. La sterilizzazione dei disabili agita ancora il Giappone

In virtù della legge eugenetica 26mila persone subirono trattamenti per impedire che generassero. E ancora oggi si ostacolano i risarcimenti

Una vittima di sterilizzazione (secondo da sinistra), manifesta con i suoi avvocatiAvvenire

Un tribunale giapponese la scorsa estate ha respinto la richiesta di indennizzo equivalente a 250mila euro di una vittima di sterilizzazione coatta. Un intervento medico che sicuramente, come dichiarato dal presidente della Corte, «ha violato la libertà di procreare garantita dalla Costituzione» ma che, ancora una volta, non ha portato autorità e giudici a dichiarare apertamente l’incostituzionalità di una legge, quella eugenetica, profondamente modificata negli obiettivi nel 1996, che impegnava autorità e medici a impedire una discendenza a individui con disabilità fisiche o mentali. “Ancora una volta”, perché il Giappone non riesce a chiudere con un passato in cui a disabili fisici o mentali la legge impediva la procreazione, ma ancor più fatica a cancellare una discriminazione persistente e strisciante che rappresenta il volto oscuro di una civiltà antica che conformismo, educazione e scelte politiche hanno tramandato nel presente con le sue contraddizioni.

Questa volta a riaccendere la memoria di una realtà che molti vorrebbero ignorare e tanti dimenticare è stato il giudizio della Corte distrettuale di Tokyo chiamata a pronunciarsi sulla richiesta di danni avanzata da un uomo che nel 1957, all’età di 14 anni, fu costretto a un intervento che senza alcun preavviso né consenso lo privò della capacità di procreare. Nel maggio 2018 aveva intentato causa allo Stato per violazione del dettato costituzionale che stabilisce la ricerca della felicità e dell’eguaglianza davanti alla Legge. Durante il procedimento, lo Stato non ha mai risposto riguardo il contrasto tra legge eugenetica e Costituzione, ma ha negato ogni responsabilità del Parlamento in quanto «non viene considerato essenziale applicare una legislazione che garantisca ulteriori benefici oltre l’indennizzo ufficiale». L’appello, già annunciato dai legali, punterà ancora una volta sull’incostituzionalità della pratica e cercherà di ribaltare la sentenza di primo grado che ha respinto le richieste del querelante e degli avvocati per scadenza del termine di prescrizione di 20 anni per le richieste di danni. Una lettura parziale, che gli avvocati hanno respinto sulla base del fatto che l’uomo non venne informato della sterilizzazione e che quindi la legge sarebbe stata applicata in modo arbitrario, ma anche che il Parlamento sarebbe responsabile di avere ritardato l’approvazione della legge, rendendo nulle le richieste di indennizzo.

I giapponesi sterilizzati tra il 1948 e il 1996 in base a quanto previsto dalla legge eugenetica per prevenire nascite indicate esplicitamente come «di qualità inferiore» sarebbero oltre 26mila. Circa 16.500 individui furono trattati senza avere fornito alcun consenso, gli altri probabilmente hanno accettato la sterilizzazione per le pressioni subite o per timore di ostracismo sociale. Davanti a questi dati forniti dallo stesso ministero della Sanità e alla pressione della Federazione delle Camere penali del Giappone, alcuni legislatori si sono attivati per garantire indennizzi adeguati, ma né la Dieta (il parlamento bicamerale), né l’ex primo ministro Shinzo Abe, che pure aveva apertamente espresso il suo disagio per quanto successo, si sono pronunciati apertamente su una responsabilità dello Stato. Non tutte le vittime hanno però accolto gli indennizzi promessi e le scuse a denti stretti emerse finora. Una ventina di donne e quattro uomini hanno preferito adire le vie legali perché senza la richiesta di un equo compenso non ci potrà essere quella che uno dei loro avvocati ha definito «una soluzione soddisfacente della questione» che alcuni individuano come una richiesta di scuse espresse con chiarezza dal primo ministro davanti alle vittime.

Lo scorso anno, la Corte distrettuale di Sendai aveva rigettato con le stesse motivazioni una richiesta di indennizzo di 71,5 milioni di yen (circa 585mila euro) avanzata da alcune anziane donne della prefettura di Miyagi. Questo e quello di Tokyo sono i soli due casi arrivati al giudizio tra i 24 presentati a otto tribunali distrettuali. Un’offensiva mirata a ottenere giustizia e visibilità che non si è fermata nemmeno dopo la decisione del Parlamento di Tokyo che ad aprile 2019 ha legiferato il diritto a un risarcimento di 3,2 milioni di yen (26.200 euro) per ciascun individuo sottoposto a sterilizzazione, indipendentemente se fosse o meno consenziente. Sono state 900 le richieste di indennizzo avanzate finora (solo il 15% dei sopravvissuti, ma gli unici a cui è stato riconosciuto formalmente il diritto al risarcimento), ma solo 529 sono state accolte.

Ci vorrà probabilmente tempo perché la giustizia faccia il suo corso, ma comunque le azioni legali hanno riaperto un dibattito che nell’ultimo ventennio ha conosciuto fasi alterne. Così, lo scorso giugno, le due Camere del Parlamento hanno deciso di avviare un’indagine congiunta sulle ragioni storiche della questione senza però – ancora una volta – segnalare la volontà di individuare precise responsabilità politiche. Con un’altra mossa importante, quasi contemporaneamente la Federazione giapponese della Scienza medica ha deciso di ammettere la responsabilità di associazioni di categoria e accademici riguardo gli interventi e gli studi condotti nel periodo in cui la legge ora abrogata fu in vigore e potrebbe spingersi fino a scuse formali alle vittime. Una presa di posizione tardiva ma significativa, anche per il ruolo che hanno le 136 associazioni parte della Federazione, fondata nel 1902 e che oggi coordina oltre un milione di medici, operatori sanitari e ricercatori.

Dopo avere raccolto interviste a numerose vittime di sterilizzazione forzata e di associati alla Federazione stessa, la commissione è arrivata alla conclusione che medici e sanitari giocarono un ruolo non secondario nell’applicazione della legge e nella cappa di silenzio scesa per lungo tempo su queste pratiche nonostante molti professionisti della salute abbiano nel tempo preso apertamente atto della necessità di tutelare i diritti umani. Per questo nel rapporto si indica come «profondamente ingiusto che medici e professionisti della sanità siano stati coinvolti nell’istituzione dell’ex legge eugenetica, che abbiano avuto un ruolo nel suo funzionamento e che abbiano ignorato i problemi emergenti dalla legge nonostante la prevalenza dell’etica medica e dell’ideologia rispettosa dei diritti umani». A evidenziare che restano zone d’ombra nella pratica medica, il rapporto segnala alcune problematiche connesse oggi al genome editing potenzialmente associabili al concetto di eugenetica e sottolinea come «sia importante esaminarle da diverse prospettive affinché non possano procedere in direzioni contrarie all’etica».