Tavolo ecclesiale. Il servizio civile: ecco la nuova obiezione culturale

Uno dei ragazzi che hanno partecipato all’incontro di lunedì 12 marzo a Sotto il Monte (Bergamo)

Uno dei ragazzi che hanno partecipato all’incontro di lunedì 12 marzo a Sotto il Monte (Bergamo)

Obiezione di coscienza culturale al clima di violenza e odio di questo tempo. Cominciando a costruire la pace con il servizio a migranti e rifugiati. L’appello ai 58 mila giovani in servizio civile universale nel 2018 è stato lanciato ieri, giorno di San Massimiliano di Tebessa – martire per essersi rifiutato di prestare servizio militare in nome della fede – dal paese natale di San Giovanni XXIII, icona della pace. Presenti 500 ragazzi da tutta Italia, riuniti a Sotto il Monte per l’incontro nazionale dei volontari del Tavolo ecclesiale sul servizio civile, ovvero 18 organismi, organizzazioni e associazioni cattoliche tra cui Caritas italiana, Acli e Focsiv. Il tema, particolarmente sensibile, era quello scelto da Papa Francesco per la Giornata mondiale della Pace, ‘Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace’.

Un invito a raccogliere la sifda e a «lottare per ciò in cui si crede » è arrivato dal cardinale Francesco Montenegro, presidente di Caritas Italiana. Per il quale «il servizio civile è attenzione all’uomo, ma è anche forza di cambiare una società sempre più povera di valori e che non sa da che parte guardare. Non servono le armi per cambiare la realtà. Semmai, se armi bisogna usare, ci sono quelle della nonviolenza. Il pacifismo è chiedersi: che cosa posso fare». L’arcivescovo di Agrigento ha ribadito le quattro azioni raccomandate per i migranti del Papa come pilastri sui quali costruire la pace: «Accogliere, proteggere, promuovere, integrare. In altri termini costruire un mondo migliore dove uno possa sentirsi fratello dell’altro». Anche il vescovo di Bergamo Francesco Beschi ha ribadito la necessità di un’obiezione di coscienza, «che oggi va sempre tenuta pronta davanti a quello che alimenta disumanità. Ci siamo ritrovati a Sotto il Monte a Capodanno per la Marcia della Pace. Ci si sta abituando alla pace, se ne sottovaluta l’impegno e qualcuno non ci crede più, tanto da preparare la guerra. Ci è cara la pace, tanto da giocarci qualcosa di noi stessi? Perché se non la ricostruiamo continuamente perde il suo fascino. Non vogliamo alimentare paure, ma una attenzione davanti a forme di nazionalismi identitari sempre più virulenti. Abbiamo marciato per la pace nel segno del messaggio di Papa Francesco sui migranti, che sono un segno dei tempi, che hanno a che fare con un appello che il Signore rivolge al mondo, in particolare a chi crede al Vangelo».

Anche don Virginio Colmegna parla esplicitamente del bisogno «di un’obiezione di coscienza culturale, capace di riportare il linguaggio della nonviolenza». Per il presidente della Casa della Carità di Milano, anche la parola bontà «sembra un valore lontano». Invece bisogna «essere responsabili di diritti di fronte a tanti egoismi corporativistici. Rilanciamo l’obiezione di coscienza culturale contro le armi e la violenza che ci dia anche voglia di custodire sentimenti belli. Ascoltiamo le parole del Papa, il nemico è l’indifferenza, non diventiamo indifferenti».

Ai discorsi si alternano le testimonianze. Come quella di Fatima, 23 enne pachistana, in Italia da 10 anni, che lavora con i bambini in difficoltà in una comunità della Papa Giovanni. «Non è stato facile, ma sono riuscita a diplomarmi e ho trovato il bando del servizio civile presso l’Informagiovani. Sono musulmana, in comunità mi lasciano il tempo di pregare, mi sento accettata e ho imparato che nei rapporti anche con i più piccoli si ottiene di più con la nonviolenza, che richiede pazienza ma porta a risultati duraturi».

«Dobbiamo fare una scelta chiara di educazione alla pace e alla nonviolenza, come ci chiede il Papa – le fa eco il responsabile della comunità fondata da don Benzi Giovanni Ramonda raccontando un impegno instancabile – e impegnarci, tra l’altro, per chiedere la conversione delle ‘fabbriche di armi in chiave di benessere sociale». Ramonda ha spiegato l’esperienza dell’associazione a fianco dei migranti, delle ragazze «prostituite dalla domanda dei clienti, quindi con enorme responsabilità da parte di chi le cerca, anche perché molte di loro vengono da famiglie poverissime».

E a chi desidera dedicare la propria vita alla difesa dei diritti umani, indica una strada la straordinaria esperienza di Alganesh Fessaha, italiana di origine eritrea, fondatrice della Ong Gandhi, che sta aiutando Caritas e Sant’Egidio nell’operazione dei corridoi umanitari dall’Etiopia e che ha più volte rischiato la vita per salvare i migranti.

«I giovani eritrei provano ad attraversare il deserto e il mare verso l’Europa, perché per loro rimanere in Eritrea è la morte sicura, altrove hanno almeno una possibilità. Nel deserto del Sinai sono state vendute persone o uccise per prelevare organi, sono state violentate donne. Si stimano almeno 8mila persone morte, ma nessuno ne parla». L’attivista è appena tornata da Israele dove circa 38mila eritrei scampati al Sinai rischiano la deportazione in Uganda e Rwanda. Gandhi lavora anche in Etiopia, che ospita un milione di rifugiati. «Lì costruiamo scuole per l’integrazione perché i giovani non vadano via e l’Africa non si dissangui».

da Avvenire