La storia Don Dino Torreggiani: ho incontrato Gesù negli zingari

«Calici di legno-preti d’oro; tempi di miseria-tempi di fede… Il gran bene al mondo l’hanno fatto i santi. Sì, anche i teologi, ma di più i santi con la povertà, amata sino all’esagerazione». È con questo ideale di santità che si è svolta la vicenda terrena del servo di Dio don Dino Torreggiani, missionario e fondatore dell’Istituto secolare dei Servi della Chiesa, l’amico dei carcerati e l’apostolo delle carovane degli spettacoli viaggianti, di cui dal 2006 è aperta la causa di beatificazione.

Proprio Il calice di legno. Dino Torreggiani e la sua Chiesa è il titolo del volume, frutto di quindici anni di ricerca, pubblicato per i tipi del Mulino dallo storico reggiano Sandro Spreafico (780 pagine, 55 euro). Non una biografia e tanto meno un testo agiografico, ma la rilettura della vita complicata e meravigliosa, sorretta dalla Provvidenza, di un uomo agostinianamente inquieto e molto autocritico che ha considerato la santità come la condizione normale per la vita della Chiesa.

L’architrave del sacerdozio di don Torreggiani è stato la pratica «generosa, sincera e libera» dei consigli evangelici, che egli ha tentato a più riprese di proporre a vescovi e a presbiteri, per una Chiesa dei carismi, ma anche dell’obbedienza, della comunione, della condivisione e della corresponsabilità, fedele al «sacramento dei poveri».
Le pagine del libro ci restituiscono un sacerdote che alterna giornate frenetiche accompagnate da don Bosco, dal Cottolengo e dallo Chevrier, a pensose veglie notturne con santa Teresa di Lisieux, Grignon De Montfort e il curato d’Ars. Un suscitatore di vocazioni, anche e doverosamente laicali, che dosa temerarietà e pazienza, pragmatismo e misticismo, propugnatore (anticipando l’immagine cara a papa Bergoglio) di una Chiesa povera per i poveri, avendo speso il suo ministero nelle periferie esistenziali del Novecento, tra nomadi e carcerati.

In una lettera del gennaio 1971 all’arcivescovo Giovanni Colombo, così scriveva: «Non si perpetua forse nella Chiesa quell’assurdo sociale di gente che, votata a servire la Chiesa dei poveri, non vive del carisma della povertà consacrata?». E un anno dopo annotava: «Non saremmo affascinati da questo amore bruciante per Cristo povero, se non l’avessimo incontrato e perdutamente amato nei più poveri, negli zingari, nei carcerati… Non sentiremmo tutta la gioia dell’eroica testimonianza della carità se Dio non ci avesse chiamato alla professione, come carisma, del voto di castità… non saremmo radicati nella “roccia di Pietro”, se la grazia dello Spirito Santo non ci avesse fondato nel cuore della Chiesa: il vescovo».

Alle origini della sua storia vocazionale, due episodi accidentali. Il primo è un fatto di sangue, l’11 giugno 1914: a San Bartolomeo alcuni parenti materni, coltivatori del beneficio parrocchiale, uccisero il parroco in un alterco. La madre impose la mano sul capo del piccolo Dino e gli disse: «Tu prenderai il suo posto, sarai sacerdote!». L’altro, quando il nostro era già prete da tre anni, è la chiamata ad assistere spiritualmente una zingara moribonda, fatto che dette inizio alla battaglia pastorale di don Dino a favore di nomadi e giostrai. Tanto da dar vita nel 1958 all’Opera per l’assistenza spirituale ai nomadi in Italia. Da allora in poi segue le vicende degli zingari nel nostro Paese, riscoprendone e valorizzandone la cultura e la religiosità.

Fascismo e comunismo restarono per lui accidenti storici transeunti e non partecipò, a differenza di altri confratelli, alla Resistenza militante del 1944-45. Gli premeva piuttosto raggiungere le anime, soprattutto dei figli del proletariato e del sottoproletariato, perché credeva a una sola rivoluzione: quella innescata da una testimonianza radicale del Vangelo.

Negli anni 50 e 60 i Servi della Chiesa varcarono i confini reggiani in direzione del Veneto, della Toscana, del Lazio, dell’Umbria, dell’Italia meridionale e insulare. Ex detenuti, nomadi, anziani, lavoratori dello spettacolo viaggiante, e ancor prima i vescovi di numerose diocesi in difficoltà impararono a conoscere la loro carità non episodica.
Don Torreggiani contribuì anche al ripristino del diaconato permanente in Italia, con uno studio pubblicato nel 1964 su Settimana del Clero e con un documento, stilato insieme a don Giuseppe Dossetti senior (di cui Torreggiani può considerarsi padre spirituale) e a don Alberto Altana, che troverà recezione al numero 29 della Lumen gentium.

Nella prima, esaltante stagione postconciliare maturò l’abbraccio ideale con Dossetti e con don Mario Prandi, il fondatore delle Case della Carità. E si intensificò l’afflato missionario dei Servi della Chiesa. Non a caso don Dino morì nel 1983 in Spagna, a Palencia, dove si era recato per rilanciare il suo Istituto verso nuovi orizzonti in America latina. Così aveva scritto di ritorno dal Madagascar: «Ci sono certe cose che si fanno con la testa e, allora, si ragiona; altre che si fanno con le mani e, allora, si lavora; altre che si fanno con il denaro e, allora, si dona e si spende; altre, infine, e sono le opere di Dio, che si fanno con un solo mezzo: la generosità e allora ci si butta, senza calcolo, senza misura».

avvenire.it

GLI ZINGARI FRA I GRUPPI PIÙ DEBOLI CHE PIÙ FACILMENTE DIVENTANO VITTIME DELLE NUOVE FORME DI SCHIAVITÙ

Città del Vaticano, 5 giugno 2014 (VIS). Nel corso dell’udienza di questa mattina ai partecipanti all’Incontro promosso dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, sul tema: “La Chiesa e gli Zingari: annunciare il Vangelo nelle periferie”, il Papa ha auspicato nuove prospettive in ambito civile, culturale e sociale e nella strategia pastorale della Chiesa per contrastare le nuove forme di persecuzione, oppressione e schiavitù di cui sono vittime gli zingari in tutto il mondo…

rom

Nel tema dell’incontro, ha detto Papa Francesco, “c?è anzitutto la memoria di un rapporto, quello tra la comunità ecclesiale e il popolo zingaro, la storia di un cammino per conoscersi, per incontrarsi; e poi c?è la sfida per l?oggi, una sfida che riguarda sia la pastorale ordinaria, sia la nuova evangelizzazione”.

“Spesso gli zingari si trovano ai margini della società – ha ricordato il Pontefice – e a volte sono visti con ostilità e sospetto; sono scarsamente coinvolti nelle dinamiche politiche, economiche e sociali del territorio. Sappiamo che è una realtà complessa, ma certo anche il popolo zingaro è chiamato a contribuire al bene comune, e questo è possibile con adeguati itinerari di corresponsabilità, nell?osservanza dei doveri e nella promozione dei diritti di ciascuno”.

“Tra le cause che nell?odierna società provocano situazioni di miseria in una parte della popolazione – ha proseguito il Pontefice – possiamo individuare la mancanza di strutture educative per la formazione culturale e professionale, il difficile accesso all?assistenza sanitaria, la discriminazione nel mercato del lavoro e la carenza di alloggi dignitosi. Se queste piaghe del tessuto sociale colpiscono tutti indistintamente, i gruppi più deboli sono quelli che più facilmente diventano vittime delle nuove forme di schiavitù. Sono infatti le persone meno tutelate che cadono nella trappola dello sfruttamento, dell?accattonaggio forzato e di diverse forme di abuso. Gli zingari sono tra i più vulnerabili, soprattutto quando mancano gli aiuti per l?integrazione e la promozione della persona nelle varie dimensioni del vivere civile”.

“Qui si innesta la sollecitudine della Chiesa e il vostro specifico contributo. Il Vangelo, infatti, è annuncio di gioia per tutti e in modo speciale per i più deboli e gli emarginati. Ad essi siamo chiamati ad assicurare la nostra vicinanza e la nostra solidarietà, sull?esempio di Gesù Cristo che ha testimoniato loro la predilezione del Padre. È necessario che, accanto a questa azione solidale in favore del popolo zingaro, vi sia l?impegno delle istituzioni locali e nazionali e il supporto della comunità internazionale, per individuare progetti e interventi volti al miglioramento della qualità della vita”.

Il Papa ha concluso il suo discorso incoraggiando il Pontificio Consiglio a proseguire con generosità la sua importante opera. “Gli zingari – ha detto – possano trovare in voi dei fratelli e delle sorelle che li amano con lo stesso amore con cui Cristo ha amato i più emarginati. Siate per essi il volto accogliente e gioioso della Chiesa”.

Mai più rifiuto e disprezzo nei confronti degli zingari

Zingari non devono essere discriminati

"Mai più il vostro popolo sia oggetto di vessazioni, di rifiuto e di disprezzo. Da parte vostra, ricercate sempre la giustizia, la legalità, la riconciliazione e sforzatevi di non essere mai causa della sofferenza altrui". Lo ha auspicato il Papa ricevendo in udienza stamane, sabato 11 giugno, nell'Aula Paolo VI, oltre duemila zingari giunti da tutta Europa nel 150° della nascita e nel 75° del martirio del beato gitano Zefirino Giménez Malla.
Organizzato dal dicastero vaticano per i Migranti e gli Itineranti, dalla Fondazione "Migrantes" della Cei, dalla diocesi di Roma e dalla Comunità di Sant'Egidio – tutte realtà che si occupano quotidianamente dell'accoglienza e dell'integrazione dei nomadi – l'incontro si riannoda a quello del 1965 con Paolo VI. "Il Servo di Dio – ha ricordato Papa Ratzinger – rivolse agli zingari queste indimenticabili parole: "Voi nella Chiesa non siete ai margini… Voi siete nel cuore della Chiesa". Anch'io ripeto oggi con affetto: voi siete nella Chiesa".
Quindi il Pontefice ha riproposto la figura del beato Zefirino, definendolo un "martire del Rosario" e sottolineando come egli oggi inviti il suo popolo a seguirne l'esempio con la dedizione alla preghiera, l'amore per l'Eucaristia e gli altri sacramenti, l'osservanza dei comandamenti, l'onestà, la carità e la generosità verso il prossimo. "Ciò – ha assicurato il Papa – vi renderà forti di fronte al rischio che le sette o altri gruppi mettano in pericolo la vostra comunione con la Chiesa".
Ripercorrendo poi le tappe della complessa e dolorosa storia del popolo gitano, che non ha mai "aspirato a dominare altre genti", ma ha "considerato idealmente l'intero Continente" europeo come la "propria casa", Benedetto XVI ne ha ricordato lo sterminio durante la seconda guerra mondiale – il "grande divoramento", come essi lo chiamano – e ha messo in luce i "problemi gravi e preoccupanti" che tuttora persistono. Da qui gli auspici per un futuro migliore. "Oggi – ha spiegato il Papa – la situazione sta cambiando: la ricerca di alloggi e lavoro dignitosi e di istruzione per i figli sono le basi su cui – ha concluso – costruire" l'integrazione.

(©L'Osservatore Romano 12 giugno 2011)

Mai più rifiuto e disprezzo nei confronti degli zingari

Zingari non devono essere discriminati

"Mai più il vostro popolo sia oggetto di vessazioni, di rifiuto e di disprezzo. Da parte vostra, ricercate sempre la giustizia, la legalità, la riconciliazione e sforzatevi di non essere mai causa della sofferenza altrui". Lo ha auspicato il Papa ricevendo in udienza stamane, sabato 11 giugno, nell'Aula Paolo VI, oltre duemila zingari giunti da tutta Europa nel 150° della nascita e nel 75° del martirio del beato gitano Zefirino Giménez Malla.
Organizzato dal dicastero vaticano per i Migranti e gli Itineranti, dalla Fondazione "Migrantes" della Cei, dalla diocesi di Roma e dalla Comunità di Sant'Egidio – tutte realtà che si occupano quotidianamente dell'accoglienza e dell'integrazione dei nomadi – l'incontro si riannoda a quello del 1965 con Paolo VI. "Il Servo di Dio – ha ricordato Papa Ratzinger – rivolse agli zingari queste indimenticabili parole: "Voi nella Chiesa non siete ai margini… Voi siete nel cuore della Chiesa". Anch'io ripeto oggi con affetto: voi siete nella Chiesa".
Quindi il Pontefice ha riproposto la figura del beato Zefirino, definendolo un "martire del Rosario" e sottolineando come egli oggi inviti il suo popolo a seguirne l'esempio con la dedizione alla preghiera, l'amore per l'Eucaristia e gli altri sacramenti, l'osservanza dei comandamenti, l'onestà, la carità e la generosità verso il prossimo. "Ciò – ha assicurato il Papa – vi renderà forti di fronte al rischio che le sette o altri gruppi mettano in pericolo la vostra comunione con la Chiesa".
Ripercorrendo poi le tappe della complessa e dolorosa storia del popolo gitano, che non ha mai "aspirato a dominare altre genti", ma ha "considerato idealmente l'intero Continente" europeo come la "propria casa", Benedetto XVI ne ha ricordato lo sterminio durante la seconda guerra mondiale – il "grande divoramento", come essi lo chiamano – e ha messo in luce i "problemi gravi e preoccupanti" che tuttora persistono. Da qui gli auspici per un futuro migliore. "Oggi – ha spiegato il Papa – la situazione sta cambiando: la ricerca di alloggi e lavoro dignitosi e di istruzione per i figli sono le basi su cui – ha concluso – costruire" l'integrazione.

(©L'Osservatore Romano 12 giugno 2011)