Vasco e i 40 anni di “Bollicine”

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Il 14 aprile del 1983, quindi esattamente 40 anni fa, usciva “Bollicine”, il sesto album di Vasco Rossi, forse quello che ha dato al rocker di Zocca la svolta decisiva per diventare l’artista che è oggi

AGI – Il 14 aprile del 1983, quindi esattamente 40 anni fa, usciva “Bollicine”, il sesto album di Vasco Rossi, forse quello che ha dato al rocker di Zocca la svolta decisiva per diventare l’artista che è oggi.

Parliamo di un Vasco ancora trentenne, reduce dalla partecipazione al Festival di Sanremo, non esattamente l’ambiente per un rocker dichiarato come lui, c’era già stato l’edizione precedente con “Vado al massimo“, concludendo quella performance lasciando il palco col microfono in tasca in segno di protesta contro l’abitudine del Festival di allora di far cantare i concorrenti in playback.

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© AGF

L’anno seguente la RAI deve invitarlo nuovamente, troppo in ascesa la sua popolarità, si presenta all’Ariston cantando “Vita Spericolata“, un brano manifesto della sua musica, del suo modo di intendere la vita e che permetterà a intere generazioni, ancora oggi, di riconoscersi in quelle parole, declinazione perfetta di chi è convinto che la vita non sia fatta per cedere alle convenzioni sociali.

La canzone ha anche creato il mito del “Roxy Bar”, citato nel testo, identificato col Roxy Bar di Bologna, dove i fan lasciano tuttora le loro firme (ne è stato tratto anche un libro: “Roxy bagno: caro Vasco ti scrivo”), ma l’autore in realtà alludeva al “Roxy Bar” inventato nel 1959 da Leo Chiosso nella canzone “Che notte”, portata al successo da Fred Buscaglione.

Il mito dell’ultimo classificato a Sanremo

Cantare in realtà è un termine che risulta esagerato, anche quest’anno niente orchestra a Sanremo, si utilizza il playback, e a Vasco la cosa ancora non va giù, così all’altezza dell’ultimo ritornello del brano, Vasco lascia improvvisamente il palco, con la sua voce che ancora gira nelle casse.

Si classificherà penultimo, creando il mito relativo alla fortuna alla quale è destinato chi conclude la gara di Sanremo nelle ultime posizioni della classifica. Il successo che ne conseguirà, fungerà da lancio per quello che la rivista specializzata Rolling Stones considera il più bel disco italiano di sempre; otto brani, tra questi, a parte “Vita spericolata“, altri due che entreranno a far parte della storia non solo di Vasco Rossi ma senza alcun dubbio anche della storia della musica italiana.

A partire dalla title track, “Bollicine”, che si aggiudicherà il Festivalbar del 1993, in cui viene più volte citato il marchio Coca-Cola e si parla in modo ironico degli effetti benefici legati all’assunzione della bevanda.

Un brano provocatore in cui vengono sbugiardati, presi in giro, alcuni slogan di un’epoca in cui esplode il marketing, la pubblicità, la tv commerciale; si vocifera, ma l’entourage dell’artista ha sempre smentito, che la Coca-Cola avesse perfino in mente di fare causa, salvo poi ripensandoci notando il successo del brano, ma si tratta solo di leggende, e sono tante quelle che circondano vite e musica di Vasco Rossi; specie in quegli anni.

Un altro brano contenuto in “Bollicine” è “Una canzone per te”, che ha una storia del tutto particolare perché racconta dell’incontro, avvenuto a distanza di anni, con la ragazza che gli aveva ispirato il grande successo “Albachiara“; Vasco un giorno la incontra, è cresciuta ma è lei, e siccome il brano a lei dedicato gli sta portando quella fortuna, decide di fermarla e ammetterle che era stato scritto per lei.

Lei non gli crede, si imbarazza e scappa via, lui di tutta risposta scrive “Una canzone per te” (“Come non è vero, sei te”). “Bollicine” resterà in classifica per 35 settimane, il tour promozionale durerà 10 mesi e sarà un successo clamoroso; solo l’antipasto di ciò che aspetterà quel giovane irrequieto di Zocca, cresciuto tra il teatro, la Bologna a cavallo dei ’60/’70 e le radio libere.

“Vita spericolata” compie 40 anni, ma è eterna

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Il celebre pezzo è una canzone estremamente intima di Vasco Rossi ma non è più sua. È diventata di tutti, una metafora musicale dell’opposizione contro quelle barriere invisibili che inevitabilmente condizionano l’esistenza

AGI – Quando una canzone viene messa sul mercato non appartiene più a chi l’ha composta; questo è un assunto con il quale tutti gli artisti devono confrontarsi. Figuriamoci poi se la canzone è “Vita spericolata” di Vasco Rossi, che compie 40 anni.

Un anniversario sentito dallo stesso Vasco che è intervenuto con una serie di stories su Instagram per raccontare la genesi del pezzo e sostenendo che si tratta di “una delle canzoni più fraintese della storia dell’umanità”. Può darsi, per forza di cose siamo costretti a tenere in considerazione la verità di chi l’ha scritta, le sue intenzioni, le sue motivazioni, la sua voglia, giovane, legittima, di provocare una crepa nella sacralità del Festival di Sanremo, oggi uno show televisivo che forse si nutre più dell’hype che stuzzica che di musica, ai tempi un’istituzione seriosa nella quale Vasco voleva stonare, macchiare, con quel suo approccio alla musica così rock, perlomeno nell’atteggiamento.
“Era uno sberleffo a tutta la platea – dice infatti – a quei tempi molto ingessata”, come era decisamente più ingessato anche il pubblico a casa, come era decisamente più ingessato il paese, in bilico tra quello sfrenato e spregiudicato ottimismo di quei favolosi anni ’80, che a distanza di anni sapremmo rispondere con precisione chirurgica a Raf quando si chiedeva in una famosa hit “Cosa resterà?”, e il nostro inaffondabile perbenismo cattolico di fondo. Tant’è che “Vita spericolata” si classificò penultima, alimentando la leggenda secondo la quale chi arriva ultimo a Sanremo poi è destinato a fare grandi cose.

È andata spesso così, vedi fino all’anno scorso Tananai, non sempre chiaramente, ma certamente per Vasco, diventato poi quello che sappiamo, un’icona terrena e inarrivabile. Ma nemmeno questo status assoluto gli permette, ahilui, di poter tenere il significato di “Vita spericolata” solo per se stesso, come se la verità sia una e una soltanto. Non può essere così per un inno che compie 40 anni e che, siamo certi, tra 140 anni saremo ancora qui a celebrare in quanto incapace, concettualmente, di invecchiare.
Perché tutti sogniamo “una vita come quelle dei film”, “Come Steve McQueen”, e la sogneremo ogni giorno, per sempre, qualsiasi sia la nostra condizione; tutti insomma vogliamo essere gli eroi di questo dramma collettivo che chiamiamo esistenza, altrimenti non si spiegherebbero fenomeni mediatici con fortissime implicazioni sociali come reality e influencer; tutti vorremmo una vita che allarga le maglie delle proprie regole solo per noi, rendendosi così, solo per noi, spericolata, maleducata, esagerata, “che non dormi mai”, “che non è mai tardi”.
Per poi finire con gli amici al bar naturalmente, il Roxy Bar, che non è quello in centro a Bologna, per raccontarsela questa vita, come se prendesse valore solo quando paragonata a quella di qualcun altro, come da italica tradizione; per scoprire quanto è verde l’erba del tuo prato è necessario guardare quanto è verde quella del tuo vicino. Infatti, attenzione, “Vita spericolata” non è “Imagine” di John Lennon, non è un grido generazionale, non è una preghiera collettiva, è una canzone estremamente intima, Vasco canta un desiderio molto personale nel quale però tutti si possono riconoscere e che, soprattutto, tutti possono fare proprio, così come in fondo è accaduto. Una vita spericolata è una vita che rompe gli schemi dentro i quali società, religione, educazione familiare e scolastica, ci hanno rinchiuso, tutti, non solo Vasco, e sempre, non solo 40 anni fa; è una vita in cui quel perenne peso morale si scioglie in un urlo, tradotto alla lettera con quell’”Eeeehh”, dentro il quale Vasco Rossi nasconde interi universi di emozioni.

Vasco Rossi avrà avuto i suoi buoni motivi per scrivere “Vita spericolata”, ai tempi, supponiamo, senza nemmeno sapere (come nessuno può mai saperlo) quella canzone, portata a Sanremo, come spiega, per allargare il bacino di utenza ben oltre l’Emilia-Romagna, che fine avrebbe fatto.

È finita in tasca a Vasco Rossi prima di tutto, alla fine di quella prima esibizione all’Ariston, quando lasciò il palco infilandosi il microfono in saccoccia mentre la registrazione della sua voce proseguiva, svelando che in realtà quello show si trascinava, canzonetta dopo canzonetta, a colpi di playback; ma soprattutto, non cantando, non incitando, ma mostrando che una “vita maleducata” era possibile, e non in un sogno o in un futuro lontanissimo, ma lì, in quel momento, in diretta RAI, nel bel mezzo del più incravattato e sacro e seguito dei momenti televisivi del palinsesto italiano.
Certo, è finita poi nella scaletta dei suoi live, ancora oggi di gran lunga i più grandi in Italia; è finita quindi in bocca ai suoi fan e anche a quelli che non sono mai stati suoi fan, è finita infatti tra le espressioni più utilizzate della nostra lingua, metafora musicale dell’opposizione contro queste barriere invisibili che inevitabilmente condizionano la nostra vita; è finita dentro gli zaini di chi raccoglie le sue cose e parte senza meta, colonna sonora di chi conserva sogni impossibili, di chi si avventura in imprese sovrumane, di chi non ce la fa più, di chi decide di prendere il toro per le corna e a cornate la propria posizione nel mondo, in chi ha la ferma intenzione di cambiare le cose, per se stesso o per tutti. “Vita spericolata” è una canzone scritta da Vasco Rossi, ma non è una canzone di Vasco Rossi, è una canzone di tutti.

Il prete e la rockstar per il più bello dei catechismi

Don Luigi Ciotti e Vasco Rossi a confronto su RaiUno. Ed è umana poesia

Ci voleva un ministro di Cristo per spiegare una volta per tutte le canzoni, le parole di colui che per anni in Italia è stato considerato alla stregua di un Anti-Cristo. Ci voleva un uomo di Chiesa per far alzare le mani a Vasco Rossi, al dichiaratamente ateo Vasco Rossi, e fargli esclamare: «Complimenti, io non ho più niente da dire». E di sicuro ci vorrebbero più altari fatti così: non mediatici, ma nelle chiese, nelle parrocchie, in ogni posto dove si voglia veramente parlare di religiosità, di coscienza, di spiritualità.

I venti minuti finali della trasmissione “A sua immagine” andati in onda ieri pomeriggio su Rai Uno a un fan del Blasco nazionale probabilmente non hanno detto molto di nuovo. Ai detrattori del rocker, sperando abbiano avuto voglia di ascoltarlo, hanno insegnato molto. A chi conosceva già la straordinaria figura di don Luigi Ciotti, “intervistatore” d’eccezione, non hanno fatto altro che dare splendide conferme. A chi sapeva il suo nome ma non l’aveva mai sentito predicare hanno fatto spalancare la mascella. Sì, predicare. Perché quel dialogo incredibile, inimmaginabile tra il prete e la rockstar, tra l’acqua santa e il diavolo, tra il credente e il non credente, si è rivelato un meraviglioso catechismo, nel senso più bello, libero e profondo della parola.

Per l’onestà, innanzitutto. Per la totale libertà e lo sconfinato rispetto tra le due parti. Per la disarmante sincerità e profondità.

Grazie a Faber

Vasco Rossi e don Luigi Ciotti sono amici da una mezza vita, da quando nel 2000 a Genova li fece conoscere Dori Ghezzi. Vasco omaggiava l’amico Fabrizio De Andrè appena scomparso con una toccante versione di Amico Fragile, don Luigi era seduto in platea, tra gli ultimi, dove il cantore dei vicoli volle stare per una vita. Già, Faber e Dori. Le uniche due persone dello showbiz che ci misero la faccia e dimostrarono la propria vicinanza a Vasco nel momento della caduta più rovinosa, l’arresto per droga nel 1984, il momento in cui il mondo intero gli voltò le spalle.

La droga. La dipendenza. Quella che per don Ciotti è diventata il principale nemico da combattere, con quel Gruppo Abele dove lo stesso Rossi decise nel 2004 di presentare il suo disco “Buoni o cattivi”, perché quel titolo lì aveva bisogno di essere subito spiegato, subito fatto capire, subito immerso in un signor contesto.

La vita e i sogni

«Io sono spesso caduto – rompe il ghiaccio Vasco – ma mi sono anche sempre rialzato». «Hai cantato la vita spericolata, beh spericolata è stata anche la mia di vita» gli replica don Ciotti. Primo brivido.

«Io credo – continua il sacerdote – che sia spericolata la vita di chiunque provi inquietudine, intellettuale ed etica, di tutte le persone che cercano e spesso non trovano giustizia. Di chi cerca, perché ogni ricerca è spericolata». Vasco è quasi commosso: «Vedi? Sei uno dei pochi che ha capito che quello era un inno alla vita, un monito a non buttarla via».

È solo l’inizio di un leggiadro e mai stonato valzer dell’intelletto e dell’anima. Dalla vita, si passa ai sogni. Don Ciotti si confessa: «Io mi arrabbio, spesso. Ci si arrabbia per le cose che si amano perché si vorrebbe che non fossero così. Ecco, io mi arrabbio perché ai giovani hanno tolto la possibilità di sognare».

Vasco coglie appieno e fa a sua volta centro: «E infatti io alla fine dei miei concerti dico sempre “ce la farete tutti”, perché hanno bisogno di sentirselo dire, perché io alla loro età avevo paura e avrei voluto qualcuno che me lo dicesse».

Chi è chi?

Ma è quando il discorso si sposta sulla fede che scatta la scintilla, l’imperfetta meraviglia. Don Ciotti mette Rossi all’angolo: «Ti dichiari ateo, non credente e dici di aver perso la fede a 15 anni quando eri in un collegio gestito da religiosi. Eppure lo sai di aver scritto una delle più belle preghiere che io abbia mai sentito? Una profonda riflessione religiosa che piacerebbe un sacco al Dio in cui tu non credi? “Ti prego perdonami se non ho più la fede in te, ti faccio presente che è stato difficile abituarsi ad una vita sola e senza di te”».

Vasco risponde fermo, ma lo sguardo di un navigato sessantenne ritorna quello piccolo, quasi ingenuo, di un fanciullo. No, gli occhi di Rossi non mentono mai. «Io ero ironico… Per me non c’è nessun Signore. Capisci? – replica – Io sono convinto che quando muori non c’è più niente, che l’umanità è un casuale miracolo. Ma proprio per questo credo profondamente che bisogna avere ancora più coscienza e rispetto di noi stessi, soprattutto di noi stessi». «Lo sai cosa diceva il cardinale Carlo Maria Martini? Che Dio non è cattolico. Dio è di tutti – lo spiazza don Luigi – E quello che tu dici a me dimostra che il mio Dio è quell’amore che in modi diversi ci fa camminare nella stessa direzione».

Un incredibile gioco delle parti, che si risolve in un continuo, bellissimo, emozionante scambio dei ruoli. A tratti non sai dire chi scrive canzoni e chi spiega la fede, chi è la rockstar e chi l’uomo che sta con gli ultimi, chi predica e chi si confessa. Come quando Vasco sentenzia che «i buoni e i cattivi non esistono, siamo tutti un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Senza prima conoscere una persona a fondo non ci si può permettere di appiccicare etichette. Io? Sospenderei il giudizio…”. O come quella frase finale di don Ciotti: «Le tue parole graffiano, a volte inquietano, possono essere discutibili. Ma i dubbi sono più sani delle certezze».

Qualcuno nel suo Diario di Bordo il 2 novembre 1994 scrisse nervosamente: «Mi fido più dei dubbi che delle certezze». Quel qualcuno era Vasco Rossi.

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