Marco Mengoni, ‘dall’Eurovision arrivi un messaggio di pace’

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“Mi sarebbe piaciuto andare a Kiev: avrebbe voluto dire che la guerra era finita.

La musica a suo modo è un mezzo di pace e amore ed essere uniti qui significa comunque mandare un messaggio di pace.

Io sono contrario a qualsiasi guerra in atto nel mondo”. Marco Mengoni, con il brano vincitore al festival di Sanremo Due Vite (appena certificato triplo platino), è pronto a salire sul palco della Liverpool Arena dove rappresenterà l’Italia per l’Eurovision Song Contest al via martedì con le semifinali (l’Italia ha di diritto accesso alla finale in programma sabato 13). La manifestazione è trasmessa dalla Rai. Mengoni è alla sua seconda partecipazione dopo quella del 2013 con L’Essenziale. “Rispetto a dieci anni fa – racconta – mi sto divertendo di più. La sto vivendo meglio, con meno pressione e più voglia di godermela. Ora c’è più esperienza e so gestire meglio l’emotività”.
Del voto e della gara, del resto, dice di non preoccuparsi molto. “Mi interessa relativamente. La gara è qualcosa che considero un po’ in maniera negativa, mentre cantare non lo è mai”.
Per portare sul palco della Liverpool Arena il suo mondo Marco Mengoni ha scelto l’arte di Yoann Borgeois, artista internazionale (di recente ha collaborato con Harry Styles, con Pink!, e ancora con Coldplay, Serena Gomez, Missy Elliot and FKA Twig), un performer, coreografo, direttore artistico, acrobata.
L’Eurovision sarà occasione per l’artista di allargare il suo pubblico anche in vista di un tour europeo di otto date in autunno che toccherà Spagna, Belgio, Olanda, Francia, Germania, Austria, Svizzera. (ANSA).

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Ucraina-Russia: i droni e le tonache

Nell’aggressione russa all’Ucraina si sperimentano da ambo le parti le armi più moderne di cui sono esempio i droni, ma riemergono anche correnti religiose di lunga durata espresse dal personale ecclesiastico. Tecnica militare e riferimenti religiosi ancorati nei secoli si intrecciano.

Gli elementi di cronaca delle recenti settimane vanno rapportati alla coscienza religiosa e si possono ricondurre a tre elementi: la condizione delle popolazioni nelle aree occupate dai russi (Donbass e Crimea), l’acceso dibattito sul collaborazionismo o meno della Chiesa ortodossa non autocefala in Ucraina (essa fa riferimento al metropolita Onufrio) e il peso della giustificazione alla guerra d’aggressione da parte del patriarca Cirillo di Mosca.

Deportazione dei bambini
Un decreto presidenziale di Putin (27 aprile) impone agli abitanti dei territori annessi di prendere la nazionalità russa e il passaporto della federazione prima del prossimo luglio. Quelli che non lo faranno saranno considerati stranieri e passibili di espulsione.

L’ordine riguarda la Crimea, occupata dal 2014, ma anche i nuovi territori del Donbass. Qui un milione circa ha già provveduto, ma non mancano i refrattari. In ogni caso, anche coloro che accettano la cittadinanza russa sono soggetti a pene come la deportazione se vengono riconosciuti come una minaccia per la sicurezza nazionale.

Per l’arcivescovo greco-cattolico Borys Gudziak l’insostenibile giustificazione spirituale della Chiesa ortodossa russa copre la deportazione di migliaia di bambini (il Consiglio d’Europa ha formulato l’imputazione di genocidio), l’accusa ai non ortodossi di essere nemici del popolo e spie americane, l’arresto e tortura dei preti greco-cattolici, la chiusura delle chiese. Numerosi battisti, mormoni, testimoni di Geova, cattolici «hanno visto i loro membri arrestati, incarcerati o deportati».

Nel Donbass 29 responsabili religiosi sono stati arrestati e in Ucraina 500 chiese sono state bombardate. Il bilancio da parte del patriarcato di Mosca è diverso. Sono state consegnate 2.850 tonnellate di aiuti, organizzati corsi per le suore con funzione di infermiere, attivati 200 volontari per la ricostruzione delle case a Mariupol. La nostra priorità? «Il completo ripristino della vita religiosa parrocchiale… attraverso il dialogo con le autorità locali».

La lavra e i collaborazionisti
La soluzione del contratto con la Chiesa non autocefala per l’uso della lavra delle grotte a Kiev da parte dell’amministrazione ha scatenato l’attenzione locale e internazionale (primo articolo: qui; secondo: qui; terzo: qui). Alcune chiese del complesso monastico sono già state destinate alla Chiesa autocefala (di Epifanio), ma i monaci (circa 200) sono rimasti. Sono stati avviati diversi processi coi tribunali civili e amministrativi. Per ora un solo monaco è passato dall’obbedienza a Onufrio a quella di Epifanio, subito interdetto dal primo.

Un caso a parte è quello del vescovo Paolo (Lebed), responsabile della lavra e molto chiacchierato per uno stile di vita lussuoso, proprietario di case e amante di autovetture di pregio. Già privato di alcuni diritti è stato messo ai domiciliari in una delle sue dimore. Ha detto ai monaci: «Non abbandonate la lavra, non diventate traditori».

L’accusa ripetuta ad alcuni responsabili della Chiesa non autocefala è di collaborare col nemico russo, mentre ogni giorno muoiono un centinaio di soldati ucraini in prima linea. Per il deputato ucraino V. Storozhuk troppi collaborazionisti «in talare» hanno benedetto i «liberatori» russi cooperando attivamente con loro con attività di spionaggio. Il già citato vescovo Paolo ha esaltato pubblicamente l’occupazione di Kherson da parte delle truppe di Putin. Un diacono, l’oligarca russo-ucraino V. Novinsky, ha negato che il patriarca Cirillo sostenga la guerra di aggressione.

Per il teologo russo dissidente, C. Hovurum, il metropolita Onufrio sa del collaborazionismo di alcuni suoi vescovi, ma non ha fatto nulla per impedirlo. Eppure, nel caso del vescovo Antonio di Kmelnytskyi, è bastato un sospetto di trasferimento alla Chiesa autocefala per sostituirlo. Il capo dei servizi segreti ucraino V. Malyuk ha detto di avere scambiato alcuni pope con prigionieri ucraini perché il «nemico apprezza molto in suoi agenti in tonaca».

Fra i vescovi, i collaborazionisti sarebbero una ventina su un centinaio. Il vescovo Serafino di Frankivsk, dopo l’invasione, è fuggito in Russia al servizio di Cirillo senza più tornare. Il suo sostituto, Nikita, è stato accusato di condotte immorali. Il vescovo Teodosio si Cherkassy è stato per alcuni mesi agli arresti domiciliari. Dopo la lavra di Kiev, anche il complesso monastico di Potchaȉev verrà probabilmente sottratto alla Chiesa autocefala.

Dubbi sulla libertà religiosa
Lo stesso Onufrio, molto rispettato per il suo equilibrio e la vita austera, è stato coinvolto nell’accusa di possedere un passaporto russo. Ha dovuto darne una lunga e circostanziata spiegazione affermando di aver abbandonato la cittadinanza russa da anni. «Non ho un passaporto russo… mi considero un cittadino ucraino».

Ai monaci e alla monache arriva la sollecitazione ad abbandonare la Chiesa non autocefala: ha testimoniato l’igumena (superiora) del monastero Sant’Arcangelo di Odessa. Il rettore dell’Accademia collocata nella Lavra delle grotte ha scritto a Bartolomeo di Costantinopoli per denunciare l’attiva partecipazione della Chiesa autocefala alle violenze contro chiese e monasteri che fanno riferimento a Onufrio.

Una voce a parte è quella della Chiesa greco-cattolica. L’arcivescovo maggiore, Svitoslav Shevchuk, ha messo in guardia le autorità dal «creare dei martiri», illudendosi di spegnere una comunità credente. È però consapevole delle ambiguità che abitano la Chiesa non autocefala, il cui comportamento richiama quello degli oligarchi. Quando lo stato «esige il rispetto delle leggi, diventa chiaro che quanti non le hanno mai rispettate possano sentirsi perseguitati», sentirsi offesi perché invitati a rispettarle. È legittimo che lo stato intervenga quando una Chiesa diventa pericolosa per la sicurezza di tutti. Purtroppo, ciò penalizza tutte le comunità credenti perché tutte perdono di credibilità agli occhi della popolazione.

La spinta dei politici e dei media a penalizzare la Chiesa non autocefala solleva qualche dubbio sulla correttezza formale delle decisioni. Di queste ambiguità si alimentano le molte denunce, interne ed esterne, che reclamano il rispetto dei diritti di libertà di religione e di pensiero: dal patriarca ortodosso copto, Tawadros, a quello serbo, Porfirio, dall’istituto San Sergio (Parigi) al metropolita del Montenegro, Giovanni, dalla KEK (consiglio delle Chiese d’Europa) ad alcune istituzioni politiche. Le sentenze dei tribunali forniranno una indicazione importante.

Cirillo: mai preso ordini
Privo di ogni incertezza e ambiguità è il sostegno del patriarca Cirillo di Mosca alla guerra contro l’Ucraina. Anche a costo di smentire le sue affermazioni. Nell’intervento che fece all’assemblea ecumenica di Basilea (15-21 maggio 1989) esaltava la democratizzazione interna di Gorbaciov e anzi auspicava una «democratizzazione interna profonda» per l’intera società. E citava Ef 6,12 (la lotta non contro le creature ma contro i Principati e le Potestà) non applicandola all’Occidente come fa ora, ma come impegno «morale comune a tutti».

Un appoggio alla guerra anche a costo di smentire un magistero da lui stesso approvato, come un passaggio de I fondamenti della concezione sociale (concilio russo 2000) in cui al capitolo terzo, n. 5 si esclude la giustificazione ecclesiale per «una guerra civile o una guerra di aggressione esterna». Il 18 aprile proclama: «l’isola della libertà è il nostro paese e la nostra Chiesa».

E reagisce con forza davanti alle accuse di prendere ordini da Putin. «Davanti a Dio vi dico: il presidente non ha mai dato ordini al patriarca, non li sta dando e, ne sono certo, non li darà». Ed esalta la “sinfonia” Chiesa-politica che neppure a Bisanzio «fu mai pienamente realizzata».

Il 21 aprile trasforma l’aggressore in aggredito. La «difesa della patria è il più grande dovere e un atto santo… Invito tutti voi ad elevare oggi una preghiera speciale per il nostro presidente, per le autorità e il nostro esercito, e per tutto il popolo, affinché nessuna forza malvagia esterna possa dividerci e quindi indebolirci».

Il 30 aprile irride quanti «percepiscono ancora il cosiddetto mondo occidentale come ideale. Ma questo non è ideale, è la fine, è la morte della civiltà! Matrimoni tra persone dello stesso sesso, pedofilia, “libertà” che distrugge completamente la personalità: tutto ciò che ferisce la persona, la sua autenticità, la sua natura. E qualsiasi politico pensante deve capire: non c’è prospettiva di vita dall’altra parte (Occidente), perché tutto ciò che oggi viene presentato lì come ideale, viene dall’Anticristo, dal demone. Contro Gesù Cristo».

E attribuisce le diverse posizioni delle Chiese d’Occidente alla paura: «Sì, hanno paura! Noi, anche nell’Unione Sovietica, non avevamo paura di andare controcorrente!».

Paura di chi?
Eppure, nello stesso giorno, in un’omelia durante l’ordinazione di un vescovo, mette in guardia l’eletto dalla paura: «È molto importante che il timore di Dio ti aiuti a superare la tua paura terrena e quotidiana. Chi ha paura non sa gestire efficacemente la Chiesa e guidare il popolo. La sua parola non sarà autorevole per chi ascolta. Come un capitano che ha paura di una tempesta non può guidare la nave sulla giusta rotta con mano ferma».

Il 18 aprile denuncia un pericoloso «nemico interno» e, qualche giorno dopo, specifica: «Oggi la nostra preghiera è per la nostra patria, affinché il Signore la protegga dai nemici esterni e interni, da tutti coloro che non associano la propria vita alla Russia, che sono pronti a fare soldi in Russia, ma non sono mai stati pronti a servire la patria. Dobbiamo educare le persone, anche attraverso la predicazione, all’amore per la patria che è la virtù più grande».

La cecità dell’Occidente
Dai dati di cronaca prende figura una riflessione critica di Jean-François Colosimo verso l’Occidente sul peso della fede nell’attuale contesto bellico internazionale. Senza questo non si comprende che «Vladimir Putin, in nome di una religione reinventata (Ortodossia russa o russismo ortodosso), ma con uno zelo indiscutibilmente religioso, attacchi l’Ucraina non senza disprezzare la nostra supposta a-religione e burlandosi dell’Occidente anatematizzato come decadente nei suoi costumi perché declinante nel suo credo. Che cosa ci è successo? Abbiamo castrato la storia e la geografia che la religione ha plasmato molto più che qualsiasi altra istanza ed esse sono diventate per noi come lingue straniere. Abbiamo omesso che il fatto religioso è prioritario, che appartiene al codice genetico, che struttura le mentalità collettive e che non ha bisogno di essere manipolato per influire. Abbiamo mal-giudicato che, se c’è una divisione del mondo in aree e blocchi, essa risiede anzitutto nell’immaginario. Le rappresentazioni simboliche istruiscono le istituzioni politiche, economiche e sociali. Non il contrario. Abbiamo rimosso che la cultura procede sempre dal culto. Nessuna frontiera d’ordine fisico ha mai impedito uno scontro dalle pretese metafisiche. E, infine, abbiamo occultato che il sacrificio supremo si compie tanto meglio quando viene comandato da una figura invisibile e non dimostrabile» (La crocifixion de l’Ucraine, Parigi 2022, p. 206).
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Fiera di Bologna. La guerra dei bambini raccontata ai bambini

Alla Children’s book fair sono molti i libri che, a causa di quanto accade in Ucraina, mettono a tema il rapporto fra i conflitti e la vita dei più piccoli
Un’illustrazione tratta dal volume “La mia casa” di Kateryna Tykhozora e Oleksandr Prodan

Un’illustrazione tratta dal volume “La mia casa” di Kateryna Tykhozora e Oleksandr Prodan – edito da Il Castoro

avvenire.it

Dopo che la sua casa è stata distrutta da una bomba, un bambino è in fuga con la sua famiglia, verso un altrove sconosciuto. E la domanda è: dove vai e che cosa puoi chiamare ancora casa, se improvvisamente l’hai perduta? Un rifugio, una stazione dove devi lasciare i bagagli e salutare il papà che resta a fare la guerra, la casa di un parente che ti ospita o il ciglio della strada dove qualcuno ti offre un tè caldo? Kateryna Tykhozora e Oleksandr Prodan, entrambi ucraini sfollati dal loro Paese, quelle scene le hanno vissute in prima persona e viste con i loro occhi. E a quelle domande, che contengono l’esperienza straziante di sradicamento di tutti i bambini coinvolti nelle guerre, hanno dato voce in un libro illustrato, La mia casa (Il Castoro) che mentre cerca di dare un senso a ciò che un senso non ha, offre un orizzonte possibile di salvezza, almeno emotiva. Nessuno può distruggere il ricordo di quel che la casa è stata e di chi in quella casa ci ha amato. La memoria è un tetto che protegge e scalda il cuore, la luce che tiene lontano il buio, le radici che legano al proprio Paese e guideranno il ritorno. Raccontare ancora la guerra dunque. E non solo quella in Ucraina, perché tutte le guerre si somigliano, tutte distruggono Paesi, dividono famiglie, seminano paura e mettono in fuga le persone. Non parlarne ai bambini e ai ragazzi è impossibile. Lo dimostrano, oltre che le proposte di un anno con la guerra alle porte dell’Europa, le novità di autori ed editori presenti a Bologna da domani al 9 marzo per la sessantesima edizione di “Bologna Children’s Book Fair”. Impossibile per la letteratura non inoltrarsi in ciò che la cronaca rimanda, non farsi racconto e storie di chi prima aveva una vita normale ed è incappato in quanto di peggio possa succedere a chiunque. Impossibile persino per la poesia: con i versi di Valerio Magrelli e le illustrazioni di Alessandro Sanna, La guerra, la pace (Rizzoli) racconta gli stessi quadri di vita quotidiana – l’estate, la spiaggia, la campagna, un giorno di nebbia e uno di pioggia…– semplicemente mettendoli a confronto in due tempi diversi. Un tempo di pace che rende gioioso ogni giorno e ogni luogo. E un tempo di guerra che rende ogni cosa insopportabile. Sono bambini e bambine messi alla prova da dolori e disastri che nessuno dovrebbe affrontare, in bilico nella propria identità ma capaci di resistere con coraggio i protagonisti dei romanzi che hanno la guerra sullo sfondo. Dalla Siria prende le mosse l’odissea di Sami in fuga dalla guerra (Mondadori), un tredicenne figlio di professionisti benestanti a Damasco, la cui vita scorre in assoluta tranquillità fino a quando la guerra civile non irrompe in città e la famiglia decide di lasciare il Paese. E lo fa affrontando un viaggio oneroso e pericoloso verso l’Inghilterra, affidandosi a trafficanti di persone, rischiando la vita, sopportando le discriminazioni e le umiliazioni di chi bussa da profugo a un altro Paese avendo perso tutto. Incontrando un’umanità talvolta pessima altre volte speciale nell’accoglienza, capace di trasformare in speranza di vita nuova la nostalgia e la rabbia per ciò che si è lasciato. Anche Lia Levi esplora i moti del cuore di una bambina ucraina messa in salvo dai genitori quando sul Paese cominciano a piovere bombe. Ma Iryna, La bambina da oltre confine (Il Battello a Vapore), mandata in Italia e accolta dalla famiglia presso cui la nonna Kateryna lavora da tempo, non si rassegna alla lontananza. Troppo forte la nostalgia. Per Iryna ci vogliono tempo, parole giuste, un amico e magari anche un cane, il suo cane, per capire che nessuna distanza può allentare i legami autentici con il proprio mondo. È una storia vera autobiografica, dura e toccante quella raccontata nel graphic novel Come stelle nel cielo (Il Castoro), ispirata alla vita di Omar Mohamed, cresciuto con il fratellino disabile Hassan in Kenya a Dadaab, in un campo profughi per i somali in fuga dalla guerra civile. Una vita dura di fame e stenti ma anche di scuola e forza di volontà che dopo anni lo porterà negli Stati Uniti, in Pennsylvania, dove ha fondato la ong Refugees Strong che aiuta ragazze e ragazzi nei campi profughi a studiare. Orecchio acerbo pubblica un lavoro degli anni ’50 che conserva una sua fresca attualità, Per caso, lo sguardo di due artisti, il testo di Natalie d’Arbeloff e i disegni di Gian Berto Vanni, sulle guerre che attraversano l’umanità da millenni: la scoperta primordiale, casuale di un bastone con il potere di uccidere che si cerca di nascondere ma casualmente riaffiora per essere inconsapevolmente usato. Finché una bambina riesce a invertire la rotta, piantando quel legno e ottenendo ancora per caso da un’arma un albero fiorito. Una speranza che a giudicare dall’attualità casualmente è continuamente tradita. Perché Il nemico, mandato a uccidere, come rac-conta questo albo di Terre Di mezzo, inferocito dalla propaganda, dai manuali e dai generaloni, a ben guardarlo è solo uno come noi, che sta nell’altra trincea ma avrebbe una gran voglia di tornarsene a casa. In questo anno infine si è fatto strada anche un altro modo di guidare i ragazzi alla comprensione dell’attualità, forse meno praticato in passato. Quello affidato alla voce degli inviati nei territori di guerra, alle loro ricostruzioni e testimonianze dirette fatte di luoghi e persone, vite vere di superstiti, di uomini, donne e bambini trasformati in profughi, sfollati, rifugiati e combattenti. Lo fanno Francesca Mannocchi, autrice di numerosi reportage per tante testate, con Lo sguardo oltre il confine (De Agostini), Stefania Battistini, inviata del Tg1, con Una guerra ingiusta. Racconti e immagini dall’Ucraina sotto le bombe (Piemme) e Domenico Quirico, reporter di guerra per tanti anni per La Stampa con Quando il cielo non fa più paura. Le storie della guerra per raccontare la pace (Mondadori) un racconto attraverso dieci parole chiave dell’insensatezza di tutti i conflitti e della pietà che tutti dovremmo conservare per restare umani.

Scongiurare il rischio di armi nucleari

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– Sull’Ucraina si deve “cercare di convincere la Russia a venire a più miti consigli e sedersi ad una tavolo per trattare una soluzione pacifica della crisi in Ucraina.

Naturalmente la pace, per quanto ci riguarda, significa una pace che preveda non la sconfitta dell’Ucraina, ma il ritiro delle truppe russe”.

Lo ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani a Tgcom24.
“Tutti quanti lavoriamo per raggiungere l’obiettivo della pace – ha aggiunto -. Vogliamo scongiurare assolutamente qualsiasi rischio, anche ipotetico, di utilizzo di armi nucleari, seppur tattiche, quindi limitate ad alcune zone, perché sarebbe una sciagura”. (ANSA).