Libro di Mons. Ghirelli: «un compendio d’importanza internazionale circa il tema dello spazio liturgico della Chiesa cattolica dopo il Concilio»

Il poderoso volume scritto da mons. Tiziano Ghirelli, direttore dell’Ufficio diocesano per i beni culturali di Reggio Emilia, compie un’interessante e illuminante  analisi delle tipologie degli edifici ecclesiali,  dai primi secoli fino a un’attenta riflessione  su quanto indicato dopo il concilio Vaticano II dagli episcopati di diverse nazioni europee e americane, in relazione ai luoghi  della celebrazione.

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Ierotopi cristiani. Le chiese secondo il magistero Titolo Ierotopi cristiani. Le chiese secondo il magistero
Autore Ghirelli Tiziano
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Il libro è introdotto da un Prologo del  card. Giovanni Lajolo e da una Prefazione di  Albert Gerhards, docente di Scienza liturgica alla Facoltà teologica cattolica dell’Università di Bonn, che lo definisce «un compendio d’importanza internazionale circa il  tema dello spazio liturgico della Chiesa cattolica dopo il Concilio, nel contesto della  storia delle varie Chiese e della loro riflessione teologica», con «criteri per una corretta valutazione della celebrazione e degli  spazi liturgici adeguati». E continua: «Lo  studio di Tiziano Ghirelli serve pertanto a  tracciare un percorso per la comprensione  teorica e pratica dello spazio sacro come  espressione essenziale della Chiesa e segno  della presenza di Dio nel mondo».

Nell’Introduzione del libro, Tiziano  Ghirelli sottolinea come, dopo oltre quarant’anni, la riforma liturgica, punto decisivo del Vaticano II, è ancora oggi oggetto di  un ampio dibattito, tra strenui difensori  della riforma e suoi accaniti contestatori.

Tuttavia, l’autore ben mette in rilievo come il problema non si esaurisca semplicemente nella dimensione liturgica. Lo spirito  che anima la riforma conciliare fa infatti  emergere aspetti ecclesiologici che sono  oggi ben lontani dall’essere condivisi, soprattutto in relazione alla comprensione  dell’assemblea liturgica come soggetto celebrante.

In questo senso, Ghirelli mette in rilievo le molteplici carenze che si evidenziano  nel modo con cui sono progettati gli spazi  cultuali, troppo spesso luoghi d’improvvisazione e di sciatteria, che non favoriscono  la partecipazione alla celebrazione liturgica. A questo riguardo, l’autore esemplifica,  anche grazie a una serie di immagini di  grande efficacia, le situazioni di particolare  incertezza e sofferenza, mostrando poli  celebrativi realizzati all’insegna della mediocrità e del cattivo gusto, quando non  suggeriscono messaggi del tutto distorti e  scorretti.

Tra questi casi, l’autore inserisce significativamente un’immagine che mostra una  celebrazione che si svolge secondo il messale di Pio V, voluto da papa Benedetto  XVI, all’altare tridentino, quando in primo  piano è posizionato un altare alla «moderna». In breve, la riforma liturgica conseguente alla Sacrosantum concilium è ben  lontana dall’essere compiuta. Troppo spesso, infatti, se ne riducono le istanze  all’aspetto più superficiale del prete rivolto  al popolo.

Le realizzazioni postconciliari che l’autore prende in esame come modelli, di fatto, mostrano un clima di grande smarrimento e disagio, progettati con forte approssimazione nell’articolazione dei poli liturgici; per non parlare poi delle varie manifestazioni di «arte sacra», purtroppo troppo spesso decaduta a una sorta di discutibile galleria del trionfo dell’amatorialità e del  dilettantismo.

Dopo un interessante percorso di carattere storico sugli edifici per il culto, dalle  origini del cristianesimo al Vaticano II, Ghirelli parla poi di «ierotopi» e di spazi celebrativi nei documenti di conferenze episcopali nazionali, in quanto cerca di verificare criticamente quanto gli episcopati  delle diverse nazioni hanno prodotto negli  ultimi decenni nell’ambito dei luoghi per la  celebrazione liturgica. In questo senso, risulta di grande interesse esaminare le posizioni degli episcopati di Francia, Spagna, Inghilterra e Galles, Stati Uniti, Italia, Canada  e Irlanda.

Occorre una nuova mentalità del celebrare, come afferma lo stesso autore: «La  nostra esperienza deve riferirsi prioritariamente all’arte del celebrare, orizzonte senza il quale i poli liturgici ben poco possono  significare, anche se eccellenti per collocazione spaziale e per realizzazione artistica. I  manufatti e le opere nascono per essere  vissuti all’interno dell’azione liturgica rinnovata, costruita su relazioni significative e  animata dall’amore verso Dio e le persone,  altrimenti diventano oggetti museali. Perché ciò non avvenga occorre la consapevolezza coraggiosa di non fare mescolanze tra  la liturgia pre e post Concilio, ossia non celebrare la nuova liturgia con la mentalità  della vecchia». (256).

Dobbiamo dunque ripensare lo spazio  per la liturgia, grazie a una nuova consapevolezza che veda una sinergia tra committenza, progettista, artista e liturgista: «Per  questo – sottolinea l’autore – si tratta di  non inventare nulla, ma di riandare alla genuinità delle fonti dello spazio liturgico cristiano e, in una fedeltà creativa, dar vita a  nuovi canoni per l’architettura e l’arte liturgica contemporanea» (276).

Grande spazio è poi dedicato al lungo  restauro e alla ristrutturazione dei poli liturgici della cattedrale di Reggio Emilia,  condotti sotto la guida del vescovo (oggi  emerito) mons. Adriano Caprioli e il coordinamento dello stesso Ghirelli. Il vescovo  Caprioli ha voluto infatti ridisegnare gli  spazi liturgici con l’introduzione di una  nuova cattedra episcopale, progettato dal  celebre artista dell’arte povera di origine  greca Jannis Kounellis; una croce moderna sospesa, del giapponese Hidetoshi Nagasawa, che riprende antichi temi paleocristiani; un nuovo altare realizzato con marmo romano di recupero appena sbozzato di Claudio Parmiggiani; un candelabro  per il cero pasquale che richiama le dimensioni dei grandi candelabri di origine medioevale di Ettore Spalletti (cf. Regno-att. 22,2011,732ss).

L’autore fa ben emergere il fatto che  se la risistemazione dei poli e le opere realizzate dopo un lungo cammino liturgico e  biblico con la committenza hanno provocato notevoli e aspre polemiche molto accese, in città e non solo, il dibattito è  tutt’altro che chiaro e definito. Se la croce  dorata di Nagasawa non è mai stata (inspiegabilmente) esposta dal vescovo Caprioli – invece che in cattedrale sarà collocata al museo diocesano –, la nuova cattedra episcopale, prevista sul lato della navata, è stata smontata «per motivi di spazio»  in occasione dell’ingresso del nuovo vescovo mons. Massimo Camisasca, senza che nessuno l’abbia più rivista. In che modo è possibile comprendere queste «cancellazioni»?

Molto chiaro è lo spirito di rinnovamento dello spazio celebrativo auspicato  dall’autore. Non a caso, Ghirelli cita il testo  della CEI L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica, del 1996, nei termini di «un’importante iniziativa di inculturazione della fede nel suo momento celebrativo, in armonia con le esigenze di conservazione del patrimonio storico e artistico, nell’ambito del progetto di nuova evangelizzazione che la Chiesa si propone di realizzare nel terzo millennio» (124). Come attuare oggi questo progetto? Questa sembra essere la sfida suggerita da Ghirelli –  tutt’altro che scontata – per il futuro.

Andrea Dall’Asta in Regno-att. n.4, 2013, p.104

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Le chiese moderne? Non buttiamole via

Potrebbe spaventare un po’ il titolo (e la mole) del volume di Tiziano Ghirelli Ierotopi cristiani, pubblicato dalla Lev e dedicato al rapporto tra liturgia e architettura negli ultimi 50 anni (sconto scheda online su ibs 15%). Ma non poteva forse essere altro: perché al centro non c’è semplicemente l’edificio chiesa ma la dimensione simbolica di luogo sacro, icona spaziale della comunità. La ricerca del direttore dell’Ufficio dei beni culturali di Reggio Emilia, tra i membri della commissione che ha seguito la riforma della cattedrale emiliana, è ampia per taglio storico e geografico oltre che illuminante, a partire dalla raccolta e dall’analisi dei testi degli episcopati nazionali in materia di adeguamento liturgico.

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Don Ghirelli, il volume evidenzia come la liturgia e lo spazio a essa dedicato siano cambiati continuamente nei secoli. Come interpretare allora la parola «tradizione»?
«Pensiamo all’ombrello usato per accompagnare il sacerdote negli spostamenti processionali o al canto sostenuto da chitarre elettriche. Esempi estremi tratti dall’esperienza, che individuano polarità concrete dell’attuale dibattito. La liturgia ha strutture tipiche non modificabili, pena la perdita di senso, e il respiro nel tempo degli uomini. Potremmo dire che è un “qui e ora, come allora e come sarà”. La liturgia, dove storia ed escatologia si abbracciano, non è cronaca. Proprio per questo il termine tradizione va analizzato con cura. Vogliamo richiamarci alla tradizione degli Atti degli Apostoli? O a quella dei Padri della Chiesa? Ai grandi santi del Medioevo? Ai riformatori tridentini? Ai fondatori dei movimenti missionari dell’Ottocento? La Chiesa è cattolica in quanto costituita da un multiforme popolo in cammino; le liturgie, cioè le “soste” che fanno pregustare il Paradiso, sono espressioni di comunità dinamiche che, sapientemente guidate, trovano identità e speranza nel Cristo risorto. Dunque parlare di tradizione al di fuori di questa prospettiva da un lato rischia di diventare rivisitazione di segni non più parlanti, dall’altro alibi per fughe in avanti che durano una stagione».

Si può tracciare un bilancio, a 50 anni dalla «Sacrosanctum Concilium», del rapporto tra liturgia rinnovata e architettura?
«Il Concilio ci ha fornito delle linee guida e soprattutto ci ha responsabilizzati. Non ha detto: guardate al passato, alle costruzioni romaniche o barocche… Ha dato una prospettiva, lasciandoci liberi, e ci ha invitati a un cambiamento. La sottolineatura conciliare della comunità come partecipe ed espressione del sacerdozio di Cristo impone un “guardarci in faccia”, un riconoscersi e un accettarsi reciproco. Un assetto mentale e affettivo di questo genere non può non produrre ambienti e strutture coerenti con l’incontro tra fratelli e tra loro con Cristo. Gli spazi dell’incontro si modellano intorno a un ordine che non è più solo gerarchia di ruoli ma è gerarchia di servizio: “Chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti”. Introdurci in questa dimensione non è facile. L’ordine che ci danno i banchi ci rassicura, invochiamo il “senso del sacro” che si respira in una pieve romanica. Le chiese d’oggi vengono accomunate da un giudizio negativo senza appello. Dimentichiamo che l’aura di quegli ambienti persiste non grazie alle pietre ma perché i nostri padri nella fede hanno sofferto, ideato e creato quegli spazi perché le loro liturgie vibrassero nell’incontro che salva. Oggi siamo chiamati a creare spazi per gli uomini d’oggi altrettanto significativi. È una sfida che vogliamo abbandonare? Non ci riteniamo all’altezza? Possiamo solo ripetere le lezioni del passato? Gli “stampi” già sperimentati sono gli unici riproponibili oggi? Dobbiamo dire di no. Le risorse, intellettuali e di fede per rispondere alla sfida ci sono: è possibile, anche nel terzo millennio, creare spazi attraverso i quali i credenti rendono visibile l’amore di Dio per l’uomo. Ancora oggi si può sperimentare nella liturgia un anticipo di Paradiso: ovviamente occorrono luoghi, oggetti, suoni, voci, luci, movimenti coerenti con questa tensione».

Il volume raccoglie per la prima volta i testi in materia delle conferenze episcopali. Quali sono i punti in comune? E perché faticano a diventare patrimonio diffuso?
«Tutti i testi censiti presentano una visione ecclesiologica unitaria, frutto di un notevole livello di assimilazione del Concilio Vaticano II. Le forme celebrative, che sono la prospettiva che deve guidare nella progettazione dei luoghi liturgici, sono viste dai diversi episcopati in maniera univoca. È evidente infatti in tutti i testi la sottolineatura della centralità dell’assemblea che recupera un ruolo sacerdotale. Grande importanza nell’articolazione dello spazio è conferita all’ambone come forte richiamo a Dio che parla all’uomo con parole d’uomo. È enfatizzato il fonte battesimale quale “pasqua” alla partecipazione alla vita divina: pertanto la sua collocazione corretta è presso l’ingresso. Soprattutto è chiaramente sottolineata la preminenza dell’altare e come debba essere il centro intorno al quale l’assemblea si dispone: tutti i documenti evidenziano che l’altare deve essere “circondabile”, scindendo anche il luogo della celebrazione eucaristica da quello della riserva eucaristica. Ma questi documenti restano troppo spesso negletti. In questo ambito manca la comunicazione anche tra le diverse nazioni: negli anni Novanta, quando sono stati emanati i testi della Cei, si riteneva erroneamente che nessun episcopato avesse fino ad allora affrontato il tema. Il lavoro, in alcuni casi davvero ciclopico, compiuto dagli episcopati nazionali è spesso rimasto ignoto anche a quanti avrebbero dovuto conoscerlo per ragioni professionali. È questa una delle ragioni del volume».

Può indicare dei casi «esemplari» di riforma liturgica?
«Dove si è creata un’alleanza tra committenza, comunità e progettista, i risultati sono stati positivi. Tra i quali, in contesti importanti, ricordo quello della cattedrale di Milano. Meno felici invece gli esiti quando un professionista, anche di grande valore, o un artista di fama vengono lasciati soli, come è accaduto ad esempio nella cattedrale di Pisa: se esteticamente possono convincere, non funzionano invece a livello liturgico. Altre volte un giusto percorso non sfocia in un risultato convincente proprio per il poco coraggio nelle scelte estetiche, come nel duomo di Trapani. Tra i casi positivi in contesti per così dire quotidiani, un esempio è il nuovo spazio liturgico che affianca la chiesa parrocchiale di San Floriano in Gavassa a Reggio Emilia, segnalato anche dalla fondazione Frate Sole di Pavia. L’interazione fra gli architetti Silvia Fornaciari e Marzia Zamboni, il parroco don Angelo Guidetti e la vivace comunità ha consentito di raggiungere un risultato rispettoso del passato e, insieme, capace di valorizzare il momento della comunità orante».

 

Alessandro Beltrami – avvenire.it