Il Vangelo III Domenica Avvento. Quella nuova creazione che passa nelle storie di chi vive ai margini

III Domenica Avvento – Anno A In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli…
San Giovanni in prigione

San Giovanni in prigione – G.di Paolo

III Domenica Avvento – Anno A In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».

Sei tu o dobbiamo aspettare un altro?

Giovanni Battista, il più grande tra i nati di donna, non ha più le idee chiare. Lui, “più che un profeta”, dubita e chiede aiuto. Non so voi, ma io credo e dubito al tempo stesso; e Dio gode che io mi ponga e gli ponga delle domande. Non so voi, ma io credo e non credo, in duello, come il padre disperato del racconto di Marco, che ha un figlio che lo spirito butta nel fuoco e nell’acqua per ucciderlo, e confessa a Gesù: “io credo, ma tu aiutami perché non credo” ( Mc 9,23). E Gesù risponde in modo meraviglioso: non offre definizioni, pensieri, idee, teologia, neppure risponde con un “sì” o un “no”, prendere o lasciare. Racconta delle storie. C’era una volta un cieco… e nel paese vicino viveva uno zoppo dalla nascita. Racconta sei storie che hanno comunicato vita, così come era accaduto nei sei giorni della creazione, quando la vita fioriva in tutte le sue forme. Sei storie di nuova creazione.

Gesù parte dagli ultimi della fila, non comincia da pratiche religiose, ma dalle lacrime: ciechi, storpi, sordi, lebbrosi, morti, poveri…; da dove la vita è più minacciata. E fa per loro un vestito di carezze. Non guarisce gente per rinforzare le fila dei discepoli, per farne degli adepti, per tirarli alla fede come pesci presi all’amo della salute ritrovato, ma per restituirli a umanità piena e guarita, perché siano uomini liberi e totali. E non debbano più piangere.

La Bibbia è fatta soprattutto di narrazioni, Le storie dicono che senso diamo al mondo, cioè “che storia ci stiamo raccontando?” Tutte le grandi narrazioni dicono questo: come si affronta la morte, raccontano di come si fa a non morire, a ripartire. Sono iniziazione alla vita. Ai discepoli inviati da Giovanni Gesù chiede di entrare in una nuova narrazione del mondo. Entrano e vedono nascere la terra nuova e il nuovo cielo. E chiede loro di continuare il racconto: raccontate ciò che vedete e udite.

Poi il racconto si fa domanda: Cosa siete andati a vedere nel deserto? Un bravo oratore? Un trascinatore di folle? Un leader carismatico? Forse una canna sbattuta dal vento? Un opportunista che piega la schiena pur di restare al suo posto? Che cosa siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti?

Preoccupato dell’abito firmato? Del macchinone da far vedere? Che cosa siete andati a vedere? Perché Dio non si dimostra, si mostra. Nel deserto hanno visto un corpo marchiato, scolpito, inciso dalla Parola. Giovanni ha offerto un anticipo di corpo, un capitale di incarnazione e la profezia è diventata carne e sangue.

Noi tutti ci nutriamo di storie, e questa è la narrazione di cui la terra ha più bisogno per nutrirsi: storie di credenti credibili.

(Letture: Isaia 35,1-6a.8a.10; Salmo 145; Lettera di Giacomo 5,7-10; Matteo 11,2-11)

Avvento / La profezia che domanda ascolto…


Provare a interrogare la qualità del nostro ascolto, secondo una bella pagina di Bonhoeffer, in un tempo di Avvento in cui siamo invitati a scrutare l’azione dello Spirito
vinonuovo.it

In questo tempo di Avvento, in cui risuonano parole di antichi profeti, mentre il tempo che attraversiamo è segnato dalla sete e dalla ricerca di parole e gesti che indichino un presente vivibile e un futuro di speranza, siamo spesso invitati alla vigilanza e, di conseguenza, all’ascolto. Sempre la profezia domanda ascolto ma, spesso, non lo trova. Eppure non si chiude l’invito all’ascolto, che torna con insistenza nella Parola: «Ascoltatemi, voi che siete in cerca di giustizia, voi che cercate il Signore» (Is 51,1). Così l’invito è a scrutare, a porgere orecchio, per cogliere l’azione di Dio nella storia: «Udranno in quel giorno i sordi le parole di un libro; liberati dall’oscurità e dalle tenebre, gli occhi dei ciechi vedranno» (Is 29, 18). Difficile, molto difficile l’arte dell’osservare, del cogliere e del rac-cogliere.

Varrà la pena, forse, chiederci allora come è la qualità del nostro ascolto e anche, con lealtà, interrogarci se per caso abbiamo sete di profezia senza però aver il coraggio, il desiderio, la forza di metterci in ascolto della storia che abitiamo e delle relazioni che viviamo. La profezia si innesta là, nella vita quotidiana, e per accoglierla serve un orecchio attento.

«Il primo servizio che si deve agli altri nella comunione, consiste nel prestar loro ascolto»: così scriveva Dietrich Bonhoeffer in Vita comune (1937), quando la Gestapo aveva chiuso la fraternità di Finkenwalde. Prestare ascolto è ufficio primo del cristiano, dunque: per ascoltare Dio, gli altri e se stessi, secondo la classica triplice direttrice. «Chi non sa più ascoltare il fratello, primo a poi non sarà più nemmeno capace di ascoltare Dio, e anche al cospetto di Dio non farà che parlare. Qui comincia la morte della vita spirituale»: mentre le nostre giornate sono prese molto spesso dal parlare, dal dire, dallo scrivere, e mentre l’ascolto spesso si riduce ad ascoltare distrattamente vocali mandati al cellulare, una sosta silenziosa sulla consapevolezza dell’ascolto potrebbe essere un buon esercizio di Avvento, interrogandoci davvero sulla differenza tra sentire e ascoltare. Anche nella preghiera.

«C’è anche un modo di ascoltare distrattamente, nella convinzione di sapere già ciò che l’altro vuol dire. È un modo di ascoltare impaziente, disattento, che disprezza il fratello e aspetta solo il momento di prendere la parola per liberarsi di lui»: descrive bene qui, Bonhoeffer, l’atteggiamento di troppi cristiani, che già sanno, che già hanno le risposte, non raramente a domande che nessuno ha posto; troppi cristiani che sentono già pensando a dove sta l’errore, a dove è lo sbaglio da correggere. Troppi cristiani che hanno da insegnare il contenuto, nella paura che si perda le verità, senza auscultare i battiti esistenziali della persona che hanno davanti. Non così Gesù di Nazareth, che si invita a casa di Zaccheo prima della sua conversione, e che non chiede nulla al disonesto esattore delle tasse.

In Avvento la Parola ci invita alla vigilanza e all’ascolto: con una vera metanoia esistenziale potremmo essere capaci ancora di scorgere i segni dei tempi e i segni delle nostre vite, soprattutto oggi, quando le parole abbondano, dove la comunicazione è pervasiva. Dire poco, maturare il silenzio, radicarsi nell’ascolto come tensione verso l’umanità e Dio.

Teologia / È possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente?


di: Francesco Cosentino – Settimana News
«È possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente? La Parola di Dio pienamente manifestata in Gesù è ancora rilevante per le donne e gli uomini di oggi e per la loro esistenza? Ripercorrere i passi della teologia della rivelazione e del suo progressivo cammino fino agli sviluppi del concilio Vaticano II è un’impresa che, da una parte, aiuta a «fare il punto» sul passaggio dall’apologetica moderna alla teologia del Novecento e sul suo imprescindibile apporto nel recupero della categoria di storia e della cristologia; dall’altra parte, si interroga sulle possibilità, non solo linguistico-comunicative, di mettere in atto oggi una teologia della rivelazione, nel contesto di un mondo postmoderno e plurale». Le edizioni San Paolo hanno pubblicato il saggio di teologia della rivelazione di Francesco Cosentino, teologo e docente di Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università Gregoriana: Dio ai confini. La Rivelazione di Dio nel tempo dell’irrilevanza cristiana. Anticipiamo di seguito l’Introduzione del volume.
In un colloquio sul futuro del mondo e della Chiesa, avvenuto a Roma nel 1982, a Karl Rahner fu chiesto quali fossero secondo lui i problemi teologici più urgenti; il teologo tedesco rispose senza esitazione che, alla fin fine, erano quelli di sempre: «I problemi teologici più antichi, che sono, in fondo, anche i più attuali: Com’è possibile un’autentica esperienza di Dio? Come posso conoscere veramente che Dio si è rivelato, in Gesù Cristo, in modo assoluto e definitivo?».

L’eco di quelle domande ritorna anche oggi: ha ancora senso parlare di Dio nel nostro tempo? La questione appare tutt’altro che scontata, mentre ereditiamo la compagine storica del Novecento che, attraversata da catastrofi e da epocali cambiamenti, ha «liquidato» la domanda su Dio o, tutt’al più, l’ha relegata ai contorni della vita e di una religiosità privata. Dio è ormai ai confini della vita, ai margini della storia.

Si tratta di una sfida che chiede alla riflessione teologica di uscire dall’angolo, prendendo coscienza del fatto che «il cristianesimo è ormai in una posizione minoritaria: mentre ha la pretesa di rappresentare ancora tutti, in verità tende a farsi una setta, di cui nessuno capisce più il linguaggio e la gestualità» (Elmar Salmann).

Teologia della rivelazione
Spontaneamente si tende a pensare che un simile esercizio teologico abbia a che fare con elaborate e astratte interrogazioni intellettuali, mentre invece il parlare di Dio non è mai dissociato dal suo dirsi/darsi nell’esperienza come realtà che abbraccia la totalità dell’esistenza umana e luogo che le conferisce senso e interpretazione. Tanto più che, specialmente nel nostro contesto, si può affermare che a essere venuta meno non è una qualche dimostrazione sull’esistenza di Dio quanto piuttosto la sensibilità interiore per la relazione con ciò che ci supera: «Nella questione su Dio non è mai la prova che manca. Si tratta di gusto. Ha perduto, almeno in apparenza, il gusto di Dio: ecco la diagnosi più triste e allarmante sulla nostra epoca» (Henri De Lubac).

La teologia della rivelazione è sempre strettamente legata a quell’esperienza che denominiamo fede, in un esercizio che tenta di offrire uno sguardo differente sulla vita e sulla storia, a partire da quella eccedente sorpresa del Dio rivelatosi in Gesù Cristo: Dio si manifesta come Dio solo nel suo donarsi e affidarsi al tempo e all’uomo, nel suo dimorare presso le case degli uomini in quanto Egli stesso Dio pienamente e profondamente umano.

In tal senso, ogni riflessione teologica è una teologia fondamentale pratica, che lega esperienza di Dio ed esperienza dell’uomo, e che Rahner ha saputo incarnare con queste parole: «In fondo noi vogliamo soltanto riflettere su questa semplice domanda: «Che cos’è un cristiano e perché oggi possiamo vivere questo essere cristiani con onestà intellettuale?». Mentre viviamo un’ora «caratterizzata dall’oscuramento della luce celeste, dall’eclissi di Dio» (Martin Buber), è anzitutto la possibilità stessa del parlare di Dio all’uomo contemporaneo che va nuovamente affrontata.

La parola «Dio», infatti, mentre ci rimanda alla trascendenza ineffabile del Mistero divino, è anche la parola scolpita nel cuore dell’umano e della sua vicenda, e dunque parola che ci supera: evento che mentre indica la strada apre interrogativi, che offre la pace solo al prezzo di un ribaltamento delle umane sicurezze e che invita al superamento di sé e all’ospitalità di un’alterità sorprendente.

Nella complessa compagine postmoderna è ancora questo il compito della teologia contemporanea: «Far sì che Dio sia nuovamente udito come Dio: frantumando la coscienza storica moderna, smascherando le presunzioni della razionalità moderna, esigendo attenzione per tutti quelli che sono stati dimenticati o emarginati dal progetto moderno» (David Tracy). Si tratta anzitutto di superare gli angusti confini di una metafisica che incasella Dio nelle categorie dogmatiste dell’essere, per approdare verso la specificità del Dio cristiano che, in quanto amore e relazione, si configura come un «eccesso trasgressivo», un dono che supera e sorprende.

Questo è ciò che rende Dio «più che necessario» e lo riscatta dall’emarginazione cui è stato da tempo condannato: non si tratta di un monolite arroccato nell’alto dei cieli e nello splendore della sua divinità, ma di un Dio-Amore che discende in mezzo a noi e della nostra sorte si prende cura. Evento cristiano per eccellenza, quello della Rivelazione di Dio in Cristo Gesù e nello Spirito Santo è l’accadimento che manifesta non soltanto «ciò che Dio fa» ma anche e soprattutto «ciò che Dio è»: Agape, Dio per noi.

Guardare al presente, affacciarsi al futuro
La centralità della Rivelazione, per la teologia, è un dato incontrovertibile: credere significa essere attratti e poi trasportati nella verità e bellezza della Rivelazione, per poter contemplare il mistero stesso del Dio Uno e Trino. E la Rivelazione, in tal senso, rappresenta la sintesi di tutto il sapere teologico e dell’atto di fede: la Parola di Dio si compie e si realizza nella Rivelazione di Dio in Gesù Cristo, cosicché essa diviene onnicomprensiva dell’evento della fede e della teologia.

Certo, «riproporre la questione di Dio e del suo significato per l’oggi può sembrare un’operazione quasi museale, attardata sullo sfondo di un passato religioso» (Carmelo Dotolo) che ormai non c’è più. Tuttavia, se ritornare alla teologia della rivelazione potrebbe suggerire l’idea di una sorta di viaggio all’indietro al solo scopo di rivisitare le pagine di una riflessione del passato, in realtà, riconsiderare i contenuti e i linguaggi che hanno approfondito il cuore del Mistero cristiano si presenta ai nostri occhi come un compito tanto proficuo quanto urgente; non si tratta di contemplare una ricchezza «che fu» quanto, piuttosto, di affacciarsi sull’orizzonte presente e futuro del cristianesimo interrogandosi se la domanda su Dio sia ancora determinante e decisiva tanto da potersi collocare tra le grandi domande dell’esistenza e, al contempo, affrontando alcune altre domande: è possibile ancora oggi parlare del Dio che ci ha parlato per primo? È ancora possibile dire Dio oggi, in un mondo a cui è diventato estraneo o indifferente? La Parola di Dio pienamente manifestata in Gesù è ancora rilevante per le donne e gli uomini di oggi e per la loro esistenza?

Ripercorrere i passi della teologia della rivelazione e del suo progressivo cammino fino agli sviluppi del concilio Vaticano II è un’impresa che, da una parte, aiuta a «fare il punto» sul passaggio dall’apologetica moderna alla teologia del Novecento e sul suo imprescindibile apporto nel recupero della categoria di storia e della cristologia; dall’altra parte, si interroga sulle possibilità, non solo linguistico-comunicative, di mettere in atto oggi una teologia della rivelazione, nel contesto di un mondo postmoderno e plurale.

Si tratta di un contesto sociale e culturale da più parti definito postcristiano e, al contempo, post-ateo, in cui la crisi della fede e la discussione sul futuro possibile del cristianesimo rappresentano un pungolo per la riflessione teologica e non possono non esserlo anche per la vita della comunità credente. Tale questione è stata posta da Paul Tillich già qualche decennio fa e va oggi affrontata nuovamente in tutta la sua radicalità: «Ciò che mi preoccupa più profondamente in questi ultimi anni è la questione: il messaggio cristiano (specialmente la predicazione cristiana) è ancora rilevante per le persone del nostro tempo? E se non lo è, qual è la causa? E ciò si riflette sul messaggio del cristianesimo stesso?».

Occorre tuttavia situare l’interrogativo in un orizzonte teologico il più possibile chiaro: in riferimento al Dio di Gesù Cristo, che cioè si rivela in Gesù Cristo e in Lui ci consegna «la buona notizia», parlare di rilevanza non significa rivendicare una potenza religiosa della fede cristiana negli spazi del mondo, quanto piuttosto la capacità del cristianesimo di liberare e sprigionare nell’esistenza dei nostri contemporanei la vita che il Vangelo trasmette. Si comprende fin d’ora, cioè, che l’orizzonte in cui muoversi non è quello rispondente allo schema dell’apologetica classica, prettamente preoccupata di trasmettere la verità della fede e l’insieme delle sue dottrine, ma quello della teologia del Novecento e del Concilio Vaticano II, che intende la rivelazione di Dio come la sua stessa autocomunicazione d’amore e, perciò, l’incontro e il dialogo che Egli stabilisce con gli uomini e con la storia.

Con la vita degli uomini e delle donne
La questione non si limita a una riflessione teorica, ma investe l’orizzonte esistenziale. Lo aveva ben intuito Karl Rahner, che in una Conferenza tenuta il 22 luglio del 1982 alla Facoltà teologica di Würzburg, parlò di «una teologia con cui poter vivere», cioè si chiese se esista una teologia non stabilita su idee astratte riguardanti Dio ma su quel Dio che si è rivelato per rendere umanamente possibile e vivibile la vita umana. Rahner non nega l’importanza di una teologia accademica e scientifica, differenziata in molte discipline e settori e avente uno sterminato campo di indagine; tuttavia, una teologia che è consapevole di avere un carattere sovrascientifico, per il giovane teologo coinciderà con la concentrazione sulle questioni fondamentali, per approdare a una teologia che lo sostenga nella vita di persona umana e di credente:

«Nella sua teologia, perché sia degna d’essere vissuta, egli deve aver riflettuto con tutto l’impegno della sua esistenza e ovviamente anche con la sua razionalità su che cosa è propriamente la rivelazione; su quale rapporto intercorra fra la storia delle religioni e la storia di una rivelazione particolare e regionale; se e come sia ancor oggi possibile parlare seriamente di Dio in un mondo secolarizzato e positivamente scettico e come si possa far capire che cosa intendiamo dire con questo termine; su come fare per scoprire in sé, nell’uomo della vita quotidiana, un qualcosa come l’esperienza di Dio […]. Se si possa seriamente affermare che un uomo, per essere pienamente uomo e cristiano, debba aver qualcosa a che fare con una Chiesa e con la sua burocrazia e praticare appunto religiosamente i riti che sono in uso nella Chiesa cattolica romana».

Chiedersi se il cristianesimo sia o possa essere rilevante per l’uomo d’oggi significa interrogarsi dunque sulla sua capacità non di trasmettere una verità intellettuale, astratta e separata dalla vita, ma di comunicare la vita che Dio ci ha rivelato e donato in Gesù Cristo, e che abita in noi e nella storia per mezzo dello Spirito. Si tratta di comprendere fino in fondo, con tutte le implicazioni esistenziali del caso, che la notizia inaudita del cristianesimo è questa: la vita è possibile, nonostante tutto. Infatti:

«E proprio questa cosa inaudita da sentire che dice il Vangelo: esiste una Vita che non è delimitata dal nulla. Il Vangelo è l’annuncio che è possibile vivere veramente, dunque un annuncio buono da intendere, se è vero che ogni essere umano deve affrontare almeno una volta al giorno, la sola vera domanda: che senso ha la mia vita? Chi gli dirà quale vita vale la pena di essere vissuta?» (Dominique Collin).

Se il Dio della rivelazione cristiana possa ancora avere a che fare con la vita degli uomini e delle donne di oggi è un interrogativo che diventa sempre più scottante. A nulla serve, peraltro, tentare di affrontarlo da un punto di vista prettamente «pastorale», scivolando di fatto nel pericolo di una dicotomia tra teologia e agire ecclesiale. La domanda è invece teologica, dal momento che essa intende scavare e approfondire non solo e non tanto una crisi di pensiero ma gli ostacoli culturali, esistenziali e spirituali che impediscono al vivere odierno di aprirsi alla relazione con Dio.

L’impronta di Dio Trinità nella creazione

di: Piero Coda

Papa Francesco e il patriarca Bartolomeo invitano a una conversione ecologica. Così dicendo, ci indicano con vigore e lucidità che, senza più indugio, occorre oggi cambiare direzione nel cammino dell’umanità, pena il collasso dell’ecosistema sociale e ambientale, per promuovere un uso corretto della tecnica e uno stile fraterno e solidale di vita nell’ethos e nella prassi con cui abitiamo e gestiamo la casa comune.

Ma non si fermano qui: perché la radice di questa conversione si trova nel cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo diventa nuovo quand’è raggiunto e trasformato dall’amore di Dio. Ancora una volta, e con inedita urgenza, l’invito è ad aprirsi alla promessa di Dio fatta attraverso il profeta Ezechiele che si è fatta evento di grazia nella pienezza dei tempi, una volta per sempre (ἐφάπαξ), in Cristo Gesù: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno Spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio Spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme» (Ez 36,26-27).

È il soffio dello Spirito nuovo che viene da Dio e riempie l’universo che l’umanità e la creazione tutta attendono e invocano, anche senza saperlo, «con gemiti inesprimibili»: perché – scrive l’apostolo Paolo nella lettera ai Romani – «l’ardente aspettativa della creazione è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio», per essere essa pure «liberata dalla schiavitù della corruzione ed entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,19.21).

Contemplazione
Solo «l’incontro con il Dio vivente e personale: Padre, Figlio e Spirito Santo» – scrive il patriarca Bartolomeo – «può sostenere il mondo»[1], «la verità la si contempla, non la si capisce a livello intellettuale; Dio lo si vede, non lo si esamina a livello teorico. La bellezza è percepita, non si congettura astrattamente»[2]. Papa Francesco gli fa eco nella Laudato si’: «La grande ricchezza della spiritualità cristiana, generata da venti secoli di esperienze personali e comunitarie, costituisce un magnifico contributo da offrire allo sforzo di rinnovare l’umanità. (…) Infatti, non sarà possibile impegnarsi in cose grandi soltanto con delle dottrine, senza una mistica che ci animi» (n. 216).

La chiave della conversione ecologica, la cui grazia e responsabilità sono custodite nel Vangelo e che la Chiesa è chiamata a irradiare, camminando lungo i sentieri della vita fianco a fianco con tutti coloro che, in modi diversi, sono animati dallo Spirito di Dio, è la contemplazione di Dio Trinità nella creazione per mezzo di Cristo Gesù, la cui pienezza (πλήρωμα), nella luce (δόξα) e nella potenza (δύναμις) dello Spirito Santo, «si compie tutta in tutte le cose» (Ef 1,23). Questa l’anima, dilatata a misura del cuore di Dio (cf. 1Gv 3,20), che è chiamata a dare salute, armonia e bellezza al corpo dell’umanità e del cosmo nella vertiginosa estensione e profondità in cui oggi si è dilatato.

Lo intuiva, nella prima metà del secolo scorso, Henri Bergson nel suo Les deux sources de la morale et de la religion. Già solo tenendo conto del grado di sviluppo raggiunto dalla tecnica al suo tempo – e che oggi s’è spinto a confini allora impensabili – il filosofo scriveva: «La natura, dotandoci di una intelligenza essenzialmente creatrice, aveva preparato per noi un certo ingrandimento» e le «macchine», frutto dell’ingegno umano, «sono venute a dare al nostro organismo un’estensione così vasta e una potenza così formidabile, così sproporzionate alla sua dimensione» che, «in questo corpo smisuramente ingrandito, l’anima resta ciò che era, ormai troppo piccola per riempirlo, troppo debole per guidarlo»[3].

Conversione dello sguardo
Dunque, dilatare e fortificare l’anima, sino ad essere nella koinonía dello Spirito Santo (2Cor 13,13) «un cuor solo e un’anima sola» (cf. At 4,32): dilatarla sulla misura del corpo dilatato, ma troppo spesso anche dilacerato e ferito, della famiglia umana universale e del cosmo intero. Questo ciò che ci è chiesto oggi come discepoli di Gesù.

Ma che cosa significa? e come può realizzarsi?

Ciò si fa praticabile – ecco l’insegnamento, alla scuola dell’unico Maestro, in ascolto della Parola di Dio e della Tradizione cristiana, che ci offrono papa Francesco e il patriarca Bartolomeo – quando l’anima apre i suoi occhi a incontrare lo sguardo d’amore di Dio e da esso si fa trasfigurare: lo sguardo con cui il Padre contempla in Cristo Gesù, crocifisso e risorto, nel dramma della storia vissuto nella luce della promessa, il farsi dei «cieli nuovi» e della «terra nuova», ove Dio sarà «tutto in tutti» (1Cor 15,28).

Quello che abbiamo lasciato per strada, tante volte, come discepoli di Gesù, e che papa Francesco e il patriarca Bartolomeo c’invitano a riaccendere, è innanzi tutto questa grazia: il fatto che possiamo guardare in modo nuovo, contemplativo e performativo, agli altri e al mondo, perché prima, e sempre di nuovo, ci lasciamo sorprendere dallo sguardo d’amore senza misura con cui Dio stesso ci guarda: «Tu, Signore, ami tutte le cose che esistono… Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta?… Tu, Signore amante della vita» (Sap 11,25-27).

La questione decidente del nostro tempo è una questione di sguardo. La conversione ecologica può nascere e nutrirsi solo da una conversione dello sguardo e da un’educazione mistagogica dello sguardo. Lo sviluppo del pensiero razionale, delle scienze, della tecnica lungo i secoli della modernità – senza che quasi ce n’accorgessimo –, con tutti i preziosi guadagni che ha portato con sé, ha però rischiato di distogliere progressivamente il nostro sguardo dall’orizzonte della Luce in cui esso s’accende penetrando con stupore e gratitudine nella verità delle cose e giudicando con rettitudine per farci agire secondo la misura della giustizia e dell’amore. È questo lo sguardo che ha origine da un altro sguardo: quello del Creatore e Signore di tutto, quello di Dio Trinità.

«Tu mi conosci»
L’uomo, infatti, conosce perché è conosciuto. Riecheggiando il Salmo 139, la liturgia latina canta: «Prima che io nascessi, mio Dio, tu mi conosci».

Quella dell’uomo, è la conoscenza di chi si conosce creatura: la conoscenza, cioè, di colui che scopre, destandosi al miracolo della vita, d’essere creato «a immagine e somiglianza di Dio», l’Altissimo, il tre volte Santo (cf. Gen 14,22 e Is 6,3). Per questo, da sempre, l’uomo e la donna attraverso le meraviglie del creato conoscono – anche se quaggiù nel chiaroscuro di ciò che non è ultimo ma penultimo soltanto –, la Luce senza tramonto del mistero di Dio che inonda, avvolge, sostiene e promuove il creato nel suo cammino verso la patria (cf. Rm 1,19-20).

L’uomo contempla nel creato l’impronta del Creatore quando si scopre egli stesso conosciuto e voluto con amore dal Creatore quale sua creatura, nel più profondo del suo essere e in tutte le espressioni del suo esistere. Anche se questa conoscenza gli resta velata, è fragile, può essere offuscata e persino obliata. Sin quando è venuto lui, il Cristo, il Figlio di Dio che, facendosi carne (cf. Gv 1,14), s’è fatto in tutto, fuorché nel peccato, figlio dell’uomo. È Lui che per sempre ha dissolto la tenebra in Luce: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,27).

Gesù è l’attestazione sfolgorante di questo: Egli è Figlio perché è conosciuto (generato) da Dio che è Padre. Il suo essere è tutto e solo racchiuso ed espresso nel suo essere conosciuto dal Padre come il Figlio (ὁμοούσιος τῷ Πατρὶ, confessa il primo Concilio ecumenico di Nicea: della stessa sostanza del Padre). È così che egli a sua volta conosce il Padre e comunica questa conoscenza agli uomini partecipando loro lo Spirito che dal Padre ha ricevuto: «Che voi siete figli ne è prova il fatto che lo Spirito grida nei vostri cuori: Abbà, Padre» (Gal 4,7). Come insegna sant’Ireneo di Lione, «la conoscenza del Padre è il Figlio, e la conoscenza del Figlio di Dio si attua per mezzo dello Spirito Santo»[4].

Conoscere la creazione in Dio
L’evento dell’incarnazione, che si compie nella pasqua in cui il Figlio dona la sua vita per riprenderla nuova (cf. Gv 10,17), consegnando «senza misura» (Gv 3,34) lo Spirito (cf. Gv 19,30) ai fratelli, rivela e porta a compimento la verità, la bontà e la bellezza della creazione: «Tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di Lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1,10); «Tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui, egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in Lui» (Col 1,16-17).

Resi partecipi per grazia della divina figliolanza di Cristo, e illuminati dalla luce (δόξα) effusa dallo Spirito Santo, noi riceviamo lo sguardo di Cristo stesso, il suo pensiero (νοῦς) (cf. 1Cor 2,16): così che possiamo non soltanto conoscere Dio attraverso le sue creature, come in un riflesso terso in cui si specchia il Sole, ma veniamo introdotti a conoscere le creature nell’interiorità della vita della santissima Trinità – come accolti in una voragine d’amore – con lo sguardo di Dio stesso. Scrive san Giovanni della Croce, il mistico dottore:

«L’anima allora vede come tutte le creature celesti e terrestri hanno la propria vita e la propria durata in Dio […]. Anche se è vero che l’anima in tale stato vede come queste cose, in quanto create, sono distinte da Dio e le scorge in Lui con tutta la loro forza, radice e vigore, tuttavia è così profonda la conoscenza che ha di Dio, come di colui il quale contiene eminentemente nel suo essere tutte queste cose, che le conosce meglio nell’essere divino che in sé stesse. Questo è il grande diletto di tale risveglio: conoscere le creature per mezzo di Dio e non Dio per mezzo delle creature»[5].

È così descritta, certo, una singolare grazia mistica, di cui non sono poche le meravigliose testimonianze nella grande tradizione cristiana di contemplazione e santità, in Oriente come in Occidente. Ma la conversione dello sguardo – il «risveglio», lo chiama san Giovanni della Croce – operata dalla fede che ci fa essere e vivere in-Cristo nell’amore della santissima Trinità, dischiude per tutti l’accesso a questo sguardo nuovo sulla creazione. Così che è Cristo in noi a guardarla, contemplandola e camminando in essa e con essa.

Ma come guarda e contempla la creazione Cristo, Cristo in noi? Come dono di Dio; come tessuta in una rete di relazioni in cui le creature sono rese partecipi della vita di Dio Trinità; come attivamente coinvolta nelle doglie di un immenso parto, che è la pasqua di Cristo dilatata a misura dell’umanità e del cosmo.

Una parola soltanto su ciascuno di questi raggi di Luce nuova e intensa che sono proiettati, nello Spirito Santo, dallo sguardo di Cristo crocifisso e risorto sulla creazione: ciascuno di essi dischiude un orizzonte sapienziale di straordinaria portata anche per l’interpretazione cosmologica, scientifica, tecnologica della realtà.

Come dono
Innanzi tutto, quello di Cristo è lo sguardo che contempla la creazione come dono di Dio. Descrivendo il significato e il fine dell’attività umana nell’universo, il Concilio Vaticano II insegna nella Costituzione pastorale Gaudium et spes:

«Tutte le attività umane, che son messe in pericolo quotidianamente dalla superbia e dall’amore disordinato di se stessi, devono venir purificate e rese perfette per mezzo della croce e della risurrezione di Cristo. Redento da Cristo e diventato nuova creatura nello Spirito Santo, l’uomo, infatti, può e deve amare anche le cose che Dio ha creato. Da Dio le riceve: le vede come uscire dalle sue mani e le rispetta. Di esse ringrazia il divino benefattore e, usando e godendo delle creature in spirito di povertà e di libertà, viene introdotto nel vero possesso del mondo, come qualcuno che non ha niente e che possiede tutto: “Tutto, infatti, è vostro: ma voi siete di Cristo e il Cristo è di Dio” (1Cor3,22)» (n. 37).

La logica divina sottesa alla creazione è la logica stupefacente del dono. E tale è decifrata, accolta e incentivata dall’uomo quando è illuminata e gestita secondo la sua originaria intenzionalità: tutto è creato in dono per ciascuno e per tutti e ciascuno è creato in dono per ciascun altro e per tutti. «In ogni conoscenza e in ogni atto d’amore – scrive Papa Benedetto XVI nella Caritas in veritate – l’anima dell’uomo sperimenta un “di più” che assomiglia molto a un dono ricevuto, a un’altezza a cui ci sentiamo elevati» (n. 77).

Di qui un atteggiamento non di possesso ma di povertà e sobrietà, non di idolatria ma di libertà e condivisione. Le creature – insegna la dottrina sociale della Chiesa – hanno per sé una destinazione universale: non sono per pochi privilegiati, ma per tutti, nessuno escluso. È questa la «regola d’oro» del comportamento sociale, economico, politico, il suo «primo principio» (cf. Laudato si’, 93; Laborem exercens, 19). Le cose create non sono semplici strumenti da usare (uti): ma, contemplate come dono nel loro scaturire, al presente, dalle mani di Dio, vanno accolte e godute (frui) nello spirito dossologico della lode, del ringraziamento, della comunione.

Le relazioni, impronta trinitaria
Ma ecco un ulteriore, strabiliante orizzonte di contemplazione: nello sguardo di Cristo, il creato non è più guardato dal di fuori ma dal di dentro, riconoscendo le innumerevoli relazioni che legano tra loro in armonia tutte le creature (cf. Laudato si’, 220).

La tradizione della teologia e della spiritualità cristiana ha costantemente e meravigliosamente illuminato l’impronta di questa dinamica trinitaria e trinitizzante che è presente in ogni creatura e nella relazione che le diverse creature vivono l’una rispetto all’altra. Così la descrive – in pochi tratti di folgorante intensità mistica – Chiara Lubich:

«Nella Creazione tutto è Trinità: Trinità le cose in sé, perché l’Essere loro è Amore, è Padre; la Legge in loro è Luce, è Figlio, Verbo; la Vita in loro è Amore, è Spirito Santo. Il Tutto partecipato al Nulla.

E sono Trinità fra loro, ché l’una è dell’altra Figlio e Padre, e tutte concorrono, amandosi, all’Uno, donde sono uscite.

E ciò attraverso l’uomo che s’india nella Santa Comunione»[6].

Sì, tutto confluisce ed è portato in Dio in virtù dell’Eucaristia. L’Eucaristia – intuiva Maurice Blondel – è il «vincolo sostanziale» dell’universo: il farsi «tutto in tutti» di Cristo grazie al suo corpo donato e al suo sangue versato, che a tutti e in tutto si comunica mediante il frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Secondo le parole di Gesù: «Come il Padre, che è il Vivente, ha mandato me e io vivo per (διά: in virtù del) Padre, così anche colui che mangia ma anch’egli vivrà per (διά: in virtù di) me» (Gv 6,57). L’Eucaristia «è di per sé un atto di amore cosmico» (Laudato si’, 236).

Grazie ad essa si realizza la vocazione della persona umana che – scrive Papa Francesco – «tanto più cresce, matura e si santifica quanto più entra in relazione, quando esce da sé stessa per vivere in comunione con Dio, con gli altri e con tutte le creature. Così assume nella propria esistenza il dinamismo trinitario che Dio ha impresso in lei fin dalla sua creazione» (Laudato si’, 240).

Allora – come canta Francesco d’Assisi dopo l’esperienza d’immedesimazione con Cristo Crocifisso vissuta a La Verna, che gli fa contemplare il mondo con gli occhi d’amore di Dio – si riconoscono e trattano da fratelli e sorelle non solo le persone umane, ma le creature tutte: il sole, la luna, le stelle, il vento, l’acqua, il fuoco, la madre terra… Francesco entra in dialogo con tutte le creature e – come narra Tommaso da Celano – predica persino agli uccelli e ai fiori, invitandoli «a lodare e amare Iddio, come esseri dotati di ragione»[7].

«Lo scopo finale delle altre creature non siamo noi. Tutte avanzano, insieme a noi e attraverso di noi, verso la meta comune, che è Dio, in una pienezza trascendente dove Cristo risorto abbraccia e illumina tutto» (Laudato si’, 83).

Le doglie del parto
Resta sullo sfondo un interrogativo trafiggente, drammatico, tanto spesso tragico e a un primo sguardo insormontabile: e la sofferenza, la miseria, la sconfitta, il fallimento, la morte?

Se Cristo non è risorto vana è la nostra fede (cf. 1Cor 15,17). Ma la sapienza (σοϕία) e la potenza (δύναμις) di Dio, che sfolgorano nella risurrezione, scaturiscono da Cristo crocifisso (cf. 1Cor 1,22-24). Non è, questa, una verità solo spirituale e religiosa: ma onto-logica e dunque – al suo proprio livello e con le sue specifiche modalità d’espressione – è una verità antropologica, etica, cosmologica. La conversione ecologica dello sguardo è chiamata a inoltrarsi, in profondità, con fede e ardimento, nell’orizzonte inedito dischiuso dalla Pasqua di morte e risurrezione di Gesù anche nel discernimento e nella gestione di ciò che ostacola e si oppone al cammino della vita e dell’amore.

Non è Gesù stesso, guardando alla legge trinitaria della vita che è amore inscritta nella natura, a illuminare la dinamica trasformante e divinizzante di ciò che avviene nella sua Pasqua riferendosi al chicco di grano che, cadendo in terra, porta molto frutto (Gv 12,24)? e alla donna che, «quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16,21)?

Indirizzando lo sguardo, attraverso Cristo crocifisso e risorto, con discrezione, timor di Dio, umiltà e tenerezza, in questo misterioso ma reale orizzonte di senso, si può intuire qualcosa della dinamica pasquale dell’amore di Dio che si fa strada nel travagliato processo che coinvolge la storia umana e l’intero cosmo, così come lo descrive Paolo nella lettera ai Romani:

«Sappiamo che tutta la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati» (Rm 8, 22-24a).

La sofferenza, la prova, la tragedia, la morte sono già riscattante in Cristo crocifisso e risorto e possono diventare, attraverso la nostra com-passione, espressione e strumento di un amore più grande: fatto di misericordia, di solidarietà, di giustizia, di speranza, di vita nuova, secondo la parola dell’apostolo Paolo: «Sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do’ compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).

C’è un rapporto stretto, non più separabile, tra il grido dei poveri e il grido della terra (cf. Laudato si’, 49). Il Verbo (Λόγος) di Dio s’è fatto Egli stesso grido, questo grido, ogni grido, sul legno della croce: «un grido che dice allo stesso tempo il trionfo dell’amore di Dio e la verità e profondità della sua incarnazione»[8].

Conversione ecologica
La conversione ecologica è innanzi tutto conversione dello sguardo: questo il messaggio che in stupenda e affascinante sinfonia c’indirizzano Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo.

Assumendo il dono, la responsabilità e la creatività di questo sguardo di sapienza e misericordia in-Cristo si possono e debbono intraprendere con spirito e realismo percorsi costruttivi di dialogo con l’interpretazione filosofica, scientifica e tecnica della creazione: a proposito delle grandi questioni etiche che interpellano oggi la coscienza umana intorno al mistero della vita, così come a proposito delle tecniche adeguate per una promozione sostenibile e fraterna dello sviluppo sociale e ambientale.

Non si tratta di una semplice un’utopia, né soltanto di un imperativo etico. La fede in Cristo attesta che questo sguardo è espressione di un evento ontologico che è accaduto «una volta per sempre» e che di continuo riaccade: quando dal cuore, tacita o espressa, sboccia in noi, per impulso tenero e forte dello Spirito Santo, la disponibilità di Maria all’annuncio sorprendente dell’angelo: «γένοιτό μοι κατὰ τὸ ῥῆμά σου» (Lc 1,38).

Allora, con Maria, tutto in Cristo crocifisso e risorto si trasfigura: come la Chiesa d’Oriente canta nell’inno Akathistos, rivolgendosi a Maria, χώρα τοῦ Θεοῦ τοῦ ἀχοράτου: «Tu porti Colui che il tutto sostiene. Ave, o stella che il Sole precorri; Ave, o grembo del Dio che s’incarna. Ave, per Te si rinnova il creato».

Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, la relazione presentata alla quinta edizione dello «Halki Summit», a Istanbul (8-12 giugno 2022), incentrata sulla sfida ecologica nel magistero di Papa Francesco e del Patriarca Ecumenico Bartolomeo (cf. qui su SettimanaNews).

[1] Patriarca Ecumenico Bartolomeo I, Incontro al mistero, Qiqajon, Magnano 2013, pp. 74 e 87.

[2] Id., Grazia cosmica, umile preghiera. La visione ecologica del patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, a cura di J. Chryssavgis, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2007, p. 189.

[3] H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion (1932), tr. it., Edizioni di Comunità, Milano 1947.

[4] Cf. Ireneo di Lione, Dimostrazione della predicazione apostolica, 4-10.

[5] Giovanni della Croce, Fiamma viva d’amore B, str. 4, 5, in Id., Opere, Roma 1979, p. 823-824.

[6] Testo inedito (1949).

[7] Tommaso da Celano, Vita prima di San Francesco, XXIX, 81: 660.

[8] Marie-Eugène de l’Enfant Jésus, Je veux voir Dieu, Ed. du Carmel, Venasque 1998, p. 1016.
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