Scrosci di verde

«Ascolti la terra le parole della mia bocca!

Scorra come pioggia la mia dottrina, stilli come rugiada il mio dire; come pioggia leggera sul verde, come scroscio sull’erba (…) Benedetta dal Signore la sua terra! Dalla rugiada abbia il meglio dei cieli, e dall’abisso disteso al di sotto; il meglio dei prodotti del sole e il meglio di ciò che germoglia ogni luna, la primizia dei monti antichi, il meglio dei colli eterni e il meglio della terra e di ciò che contiene». Una parola estrema per dire di una benedizione assoluta: quella di Dio che è ‘il meglio’ tra tanti beni che l’umano può avere. La matematica, la fisica e ogni altra scienza ci può dare beni secondari ma chi potrà darci il ‘meglio’? Il volto di Dio si forma a partire dalla rugiada della sua parola, dalla pioggia tenue della sua dottrina. Cromatismi che si contaminano e si rigenerano dall’azzurro del cielo, all’ocra delle steppe, agli scrosci di verde sull’erba. Per dare il ‘meglio’, un’abbondanza di benedizione!

È l’augurio che si realizzerà per la stessa autorità di chi lo fa: Mosè, nel libro del Deuteronomio. La rugiada ne è angelo e simbolo, conchiglia di primizia polare e temporale: del cielo e degli abissi, dei monti antichi e dell’attualità.

LA VITA NUOVA CHE DEVE VENIRE

Avvenire

La discussione di queste settimane attorno al Natale è tutta ruotata attorno alla possibilità di tenere aperti gli impianti sciistici e salvare la stagione turistica. Il tema è diventato così esplosivo da sollevare persino qualche tensione diplomatica tra i Paesi aperturisti – come Svizzera e Austria – e quelli rigoristi – Italia, Francia, Germania. I problemi economici di intere comunità montane che vivono perlopiù di questa attività non devono essere sottovalutati. Come nel caso della ristorazione, è quindi doveroso sottolineare la necessità di interventi proporzionati da parte dei governi per salvaguardare attività che sono a rischio di venire decimate. Non è giusto che il costo della pandemia sia scaricato sulle spalle dei più esposti. E tuttavia, questa vicenda suggerisce molto di più circa la natura più profonda delle nostre società. In questi mesi si è ripetutamente detto che la pandemia è un rivelatore che ci permette di capire meglio quello che siamo. E in effetti, proprio il dibattito sul Natale conferma un tale effetto. Forse prima era più difficile accorgercene. Ma in questi mesi abbiamo visto che il nostro modello di vita non ammette nessun ‘altrove’. Né spaziale – il mondo interconnesso è stato investito in pochi mesi dal virus, senza possibilità di scampo – né temporale – non c’è più un momento ‘esterno’ al circuito economico.

Passo dopo passo, l’attività commerciale ha ‘invaso’ la domenica così come la fascia serale. Il nostro tempo libero è affollato di attività a pagamento: palestre, cinema, musei, viaggi.

Così che il lavorare non riguarda più solo le 8 ore della classica giornata feriale, ma si estende alla quasi totalità delle nostre attività che si reggono solo a condizione di avere un corrispettivo economico. E lo stesso vale per il calendario annua-le, ormai riempito di ‘festività’ commerciali: le ferie estive al mare e quelle invernali sugli sci; San Valentino, Carnevale, Pasqua, i saldi di fine stagione (rigorosamente invernali ed estivi), Halloween, la festa del papà, quella della mamma, il Black Friday, le festività natalizie etc.

Non che la cosa sia di per sé un male. Lavorare nella cultura o nel turismo è meglio che stare in una fonderia o in una miniera. Ma non vanno nemmeno sottovalutati gli effetti collaterali. Sta di fatto che, mentre stiamo (lentamente) cominciando a capire che la questione della sostenibilità va presa sul serio – pena esporci alle conseguenze disastrose del riscaldamento globale – ci si continua a proporre e riproporre un modello che non lascia respiro, che corre sempre più velocemente e che non ammette pausa. Un modello 24 ore su 24, sette giorni su sette.

Nei giorni scorsi – e, meno male, non solo da queste pagine – qualche voce ha cercato di dire che, data la situazione, dobbiamo prepararci a un Natale diverso. Un po’ più povero. Con meno amici, meno familiari, meno regali. Ma forse anche con meno frenesia e con più raccoglimento, più riflessione. Più spiritualità e, forse, più ospitalità. Il che non sarebbe una cattiva idea tenuto conto che siamo alla fine di un anno tremendo che non si potrà cancellare con un’alzata di spalle. Come ha più volte detto papa Francesco, «peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi». L’antica saggezza biblica – risalente a 3.000 anni fa – insiste sull’importanza di un’interruzione del tempo che permetta di staccarsi dalle attività quotidiane per guardare il mondo da un punto di vista diverso. Un bene inestimabile per l’anima che diventa così più capace di rigenerare quella saggezza e quella creatività senza le quali si finisce nel vortice di una ripetitività sfibrante. Questo vale anche – anzi, soprattutto – per la società contemporanea.

Il Natale ci parla di un mondo che si fa nuovo a partire dalla fragilità di un Bambino. Racconto concreto che ci sollecita a reimparare ciò di cui abbiamo più bisogno: tornare a saper sperare, coltivando la ‘memoria del futuro’, risorsa indispensabile per affrontare creativamente le preoccupazioni che ci affliggono.

La pandemia ha già causato molti danni economici e sociali. E nonostante l’arrivo del vaccini, il 2021 sarà un anno difficile. Il Natale povero che ci apprestiamo a vivere può essere, allora, una occasione per rientrare un po’ di più in noi stessi, capendo che la soluzione ai tanti problemi che ci affliggono non passa da un attivismo affannoso, da una accelerazione insensata. Dal ritorno frettoloso a fare quello che facevamo prima. Se c’è una cosa che il terzo choc globale ci aiuta a vedere è che l’illusione di un mondo a crescita illimitata e del godimento individualizzato non si regge.

La nostra capacità di uscire positivamente dalla crisi della pandemia ha dunque strettamente a che fare con la nostra disponibilità ad ascoltare l’annuncio di Betlemme: il nostro destino sta in una promessa di amore che intravvediamo e che ancora si deve compiere nella sua pienezza. Ecco dunque, il dono che, per credenti e non credenti, può portarci il Natale: essere tempo di rigenerazione, rito collettivo di riapertura della speranza, tempo di meraviglia per accogliere e poi accompagnare la vita nuova che deve venire.

Mauro Magatti

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Spiritualità: il peso della finitudine

di: Marcello Neri

peso finitudine

Al momento del loro ritiro dalla docenza accademica ho sempre colto nei miei maestri un velo di malinconia. Per nessuno di loro si poneva il problema di come riempire la giornata in maniera feconda e significativa.

Essendo il lavoro di ricerca una passione, immaginavo che finalmente avrebbero potuto dedicare a essa quel tempo che l’insegnamento, l’accompagnamento degli studenti e la burocrazia universitaria aveva loro sottratto per tutta una carriera.

La malinconia del congedo

Eppure, la gioia per questo tempo ritrovato non mitigava il tono melanconico con cui prendevano congedo dalla quotidianità delle aule universitarie. Avendo saltato due semestri di insegnamento (uno per trasferimento e un altro per il lockdown) ho avuto un sentore di quel brivido di malinconia. Non è solo che il contatto quotidiano con i ragazzi ti costringe a un bagno di realtà, esige dal tuo pensiero un rigore di aderenza all’esperienza di generazioni che non sono le tue, ma ha anche l’effetto salutare di rendere più leggera la finitudine della tua stessa esistenza.

Inevitabilmente, col passare degli anni, l’orizzonte prospettico tende a chiudersi sempre di più, quasi a ripiegarsi su se stesso, così che il pensare a lungo termine diventa un vero e proprio esercizio di ascesi intellettuale. Entrare ogni giorno in un’aula dell’università, sottoporsi al contraddittorio che ti viene incontro dalla vita dei ragazzi, scardina questo meccanismo che tende a occultare la tua finitudine che si fa sempre più consapevole. È così che i tuoi studenti ti educano a una accettazione dell’essere-finito che sappia sporgersi oltre i propri confini esistenziali.

Semplicemente una benedizione, di cui essere loro grato per tutta una vita. E un po’ ti dispiace di non essere riuscito a dirglielo di persona, con quella chiarezza che dieci semplici mesi di questo strano anno 2020 hanno avuto la potenza di generare.

L’ombra della finitudine

Certo, non ininfluente su tutto questo è stata anche la pandemia, il tempo di confinamento tra le mura di casa (molto più pieno di lavoro che in precedenza), l’atmosfera soffusa di morte che è circolata, e continua a circolare, nel bailamme di parole e immagini che hanno saturato i nostri animi in questi mesi. Per la mia generazione è stata la prima occasione di una quotidiana frequentazione con l’ombra lunga della finitudine.

Passaggi come questi si incidono nell’animo umano, hanno il loro prezzo esigente, e rimangono un peso che, prima o poi, bisogna avere il coraggio di prendere in mano per guardarlo dritto negli occhi. Certo, il Vangelo è stato un buon compagno di via in questo periodo, come lo è fin dalla mia infanzia. Ma non funziona a comando, neanche per il teologo. Mi chiedo se questo peso della finitudine non possa rappresentare il punto di aggancio che la storia ci sta offrendo per dare una svolta al nostro cristianesimo occidentale e al nostro modo di essere Chiesa. Una cosa è sicura: sta riscrivendo l’ordine delle priorità per la comunità della prossimità a Gesù.

Non come consolazione a buon mercato e neppure come terapia dell’anima spaesata, ma come banco di prova di una Parola che non si è limitata a farsi prossima all’umana finitudine, ma l’ha fatta diventare la ragion stessa del proprio essere. Con tutte le contraddizioni, i paradossi, i vicoli ciechi, che comporta la condizione umana – fino al punto di impattare su di essa con una tale radicale coerenza da farla diventare la sua stessa ultima parola.

Sostare nella sospensione del tempo

È solo a questo punto che la vita ci legittima a uno sguardo verso la risurrezione del Signore, esattamente come fu per lui stesso. Spossessandosi di ogni parola propria per dire di essa, e affidandola piuttosto alla fede di coloro che decisero di non arrendersi davanti a quell’ultima contraddizione in cui il loro maestro veniva inghiottito. Con un misto di nostalgia, rabbia e perseveranza uno sparuto gruppetto di donne e di uomini sostarono nell’ombra pesante della finitudine umana che non aveva risparmiato neppure il loro intrigante compagno di via.

E se imparare a rimanere con gioia nella finitudine, proprio quando si fa gravosa e oscura, significasse affermare l’orizzonte di una trascendenza amica e benevola, impegnata a riscattarla fino all’ultima goccia per permetterci di apprezzarla e amarla? Oggi non è più questione di anime fini, di cuori sensibili, di menti aperte – ci sono moltitudini che attendono disponibili per essere introdotte all’esercizio riconciliato con la finitudine che siamo.

Certo, la potenza della macchina mondana che consuma i giorni può indurre una sottile opera di rimozione alla superficie dell’inesorabile senso di finitudine con cui siamo stati confrontati per mesi (e lo saremo ancora a lungo), ma credo che la sua traccia si sia incisa troppo profondamente nell’animo umano per essere erasa del tutto nel giro di breve.

Forse si potrebbe partire da qui per rimettere mano alla nostra pastorale ordinaria, sospendendo a nostra volta quei meccanismi immunitari che abbiamo coltivato da tempo per far finta di non sentire che il mondo e la gente ci stavano sfuggendo di mano. Abbiamo presidiato formalmente gli spazi e le età della vita senza però riuscire toccarli veramente con mano – e senza lasciarci toccare da essi.

Celebrare la finitudine che siamo

D’altro lato, disponiamo di una tradizione liturgica la cui benigna potenza risiede proprio nella ritualità ospitale che riconsegna la parola a chi non è più fisicamente qui con noi, che sa trasfigurare il baratro dell’assenza nel calore rituale di una ripresa affezionata di rapporti che sembravano essersi spezzati per sempre. Non c’è qui, forse, una sapienza a cui attingere per rimarginare l’immenso iato che ci separa da coloro che sono morti senza che noi potessimo prendere congedo da loro? Non semplicemente applicando retroattivamente la celebrazione delle esequie, ma attingendo alla sua sapienza liturgica per dare forma a una comunione di vita e sentimenti che la morte ha incrinato ma non spezzato per sempre.

Credo che questi due semplici spunti siano più che sufficienti per mettere mano a un anno pastorale che non si culli nell’illusione di poter essere la semplice ripetizione dell’identico – possibilità che in ogni caso verrà drammaticamente sconfessata dalla realtà delle cose nei prossimi mesi. Viviamo in un tempo sospeso, ed è a esso che dovrebbero dedicarsi le forze che ci rimangono nella pastorale ordinaria di ogni giorno.

Sono convinto che seguendone le tracce potremmo arrivare al termine dell’anno pastorale, che sta davanti a noi, riconoscendo anche gli eventuali approdi sacramentali che il sostare nella sospensione del tempo saprà generare nella sua prossimità evangelica. Ma per un anno possiamo pur concederci che questi non siano l’unica nostra preoccupazione.

Settimana News

Pandemia: una lettura biblico-spirituale

«Come cambieranno le cose? Come saremo? Il futuro sarà scandito ancora da abitudini reiterate? Come sarà la coscienza personale e collettiva? Cosa ci chiede il Signore in questo tempo? Perché un Dio buono permette tutto ciò ai suoi figli? Nelle domande dei vescovi è emersa la necessità di una lettura spirituale e biblica di ciò che sta accadendo». Ha preso corpo così un documento della Commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi della CEI, datato 23 giugno 2020, dal titolo “È risorto il terzo giorno”, che pubblichiamo integralmente.

lettura pandemia

  • «Ad un certo punto – non saprei dire come – mi sono ritrovata con mio marito e i miei figli a casa senza poter più uscire come prima. E mi sono dovuta inventare maestra, chef, catechista…». (V.D., impiegata)
  • «La colonna dei mezzi militari, che a Bergamo portano via le bare di notte? Chi potrà più dimenticarla? Per me non c’è dubbio: quella è l’immagine della vittoria della morte». (L.P., studente)
  • «Mi affaccio dalla finestra e guardo il parco. E mi viene sempre voglia di scendere per giocare a pallone con i miei compagni». (M.B., bambino)
  • «Avrei semplicemente voluto salutare mio padre nell’ultimo istante della sua vita. Avrei voluto almeno dirgli “grazie” o “perdonami” o “tranquillo, un giorno ci rivedremo”. E invece neanche questo». (S.F., avvocato)
  • «Sì, mi manca di poter celebrare ogni giorno la Messa con la gente. Ma sai cosa? Mi è mancato di più poter dire una parola di conforto a quei morenti e poter celebrare il funerale con i loro familiari». (G.F., cappellano)
  • «Mentre vestivo la mascherina e i guanti pensavo a mia moglie e ai miei due figli a casa. Però mi dicevo: “Sei un medico: quei pazienti aspettano te, la tua professionalità e la tua umanità”». (S.R., medico)
  • «“Preghiera” è una parola grossa, quando sei a casa con tre bambini piccoli e una persona anziana da accudire. Diciamo che alle 7, mentre tutti ancora dormivano, vedevo la messa del Papa in tv e che la sera con mia madre dicevamo il rosario. Va bene così? (C.L., casalinga)
  • «Tutto il giorno allo schermo del computer con amici e compagni. Anche se siamo sempre insieme, posso dire che mi mancano?». (I.P., adolescente)
  • «Ho sentito che avevano bisogno di volontari per la mensa della Caritas in parrocchia. Quando ho deciso di andare, mio padre si è opposto. Allora gli ho detto: “Ma se lì non ci vanno quelli belli e in gamba come me, chi vuoi che ci vada?”. Mi ha sorriso e mi ha lasciato andare». (M.T., volontario)
  • «Don, è cambiato tutto: è successo qualcosa di grosso. Voi preti ve ne siete accorti? Se tornate a dire le stesse cose e sempre nello stesso modo, davvero stavolta non vi ascolterà più nessuno». (S.C., segretaria)
  • «Come cambieranno le cose? Come saremo? Il futuro sarà scandito ancora da abitudini reiterate? Come sarà la coscienza personale e collettiva? Cosa ci chiede il Signore in questo tempo? Perché un Dio buono permette tutto ciò ai suoi figli? Nelle domande dei vescovi è emersa la necessità di una lettura spirituale e biblica di ciò che sta accadendo». (Consiglio permanente CEI, 16 aprile 2020)
Il tempo dell’ascolto

«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (Gaudium et spes, 1).

Così ci ha insegnato il Concilio. Ed è con questo spirito, con apertura di cuore, che vogliamo lasciarci interrogare sulle conseguenze che segnano il nostro Paese – e non solo – all’indomani della pandemia da Coronavirus.

lettura pandemia

Rivolgendoci idealmente sia ai credenti che ai non credenti, come pastori intendiamo proporre una “lettura spirituale e biblica” di questa esperienza, che ci riguarda tutti in primo luogo come persone umane.

Per noi cristiani, in particolare, lo sguardo su ogni avvenimento della vita passa attraverso la lente del mistero pasquale, che culmina nell’annuncio che Cristo «è risorto il terzo giorno» (1Cor 15,4). Queste poche parole esprimono il nucleo della fede della comunità credente, la fiducia in una grazia che ci è stata donata e che continua ad espandersi nello spazio e nel tempo. Lì per noi il tempo degli uomini e l’eternità di Dio si sono incontrati, divenendo il centro della storia, il criterio fondamentale, la chiave interpretativa dell’intera realtà.

È tempo di ascoltare insieme la voce dello Spirito, che Gesù ci ha consegnato sulla croce (cf. Gv 19,30) e nel Cenacolo (cf. Gv 20,22). Il compito dello Spirito è di far approfondire la verità di quanto accade (cf. Gv 16,13).

Proveremo quindi ad accostare la nostra realtà, lasciandoci guidare dalla sua voce, facendo tesoro innanzitutto delle pagine della Bibbia, che raccontano le ultime ore dell’esperienza terrena di Gesù: in quelle pagine è riservato uno spazio aperto, in cui i credenti possono incontrare nuovamente il Signore, mentre i non credenti possono sentire accolte e custodite le loro domande.

Il dramma del Venerdì

«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). Nel racconto evangelico il grido uscito dal cuore di Gesù Crocifisso rimane sul momento senza risposta. Possiamo immaginare che anche i familiari di Gesù o i suoi amici, chi gli era rimasto vicino o chi si era allontanato, abbiano fatto proprie quelle parole: «Dio nostro, perché ci hai abbandonato?».

In questi mesi di pandemia tutti ci siamo chiesti il senso di un’esperienza così imprevedibile e tragica. «Si fece buio su tutta la terra» (Mt 27,45): è come se quelle tre ore, da mezzogiorno alle tre del pomeriggio del Venerdì, si siano ora dilatate, avvolgendo il nostro mondo con le tenebre della sofferenza e della morte.

La pandemia ha rivelato il dolore del mondo: ne ha di certo prodotto e ne produrrà anche in futuro, con conseguenze economiche e sociali vaste e persistenti. Si tratta di sofferenze profonde: come la morte di persone care, soprattutto di anziani, senza la prossimità dell’affetto familiare, il senso di impotenza di medici e infermieri, lo smarrimento delle istituzioni, i dubbi e le crisi di fede, la riduzione o la perdita del lavoro, la limitazione delle relazioni sociali.

La pandemia ha anche risvegliato bruscamente chi pensava di poter dormire sicuro sul letto delle ingiustizie e delle violenze, della fame e della povertà, delle guerre e delle malattie: disastri causati in buona parte da un sistema economico-finanziario fondato sul profitto, che non riesce a integrare la fraternità nelle relazioni sociali e la custodia del creato. Il Coronavirus ha dato una scossa alla superficialità e alla spensieratezza e ha denunciato un’altra pandemia, non meno grave, spesso ricordata da papa Francesco: quella dell’indifferenza. L’immagine del mondo, colorato di zone rosse in base alla diffusione del virus, fa pensare all’immagine biblica della terra “rossa”, perché bagnata dal sangue del fratello che “grida” a Dio (cf. Gen 4,10).

Tutto questo è come riassunto dall’urlo di dolore lanciato dal Crocifisso verso il cielo, quasi un’accusa a Dio, una drammatica domanda di senso posta di fronte alla morte: perché tanta sofferenza nel mondo? È un interrogativo che risuona nel cuore di tutti, credenti e non credenti, e che chiede di essere raccolto.

Sul Calvario c’è però dell’altro. Nei pressi della croce ci sono alcune donne, il discepolo amato, il centurione, Nicodemo, Giuseppe di Arimatea: poche persone, certo, ma rappresentanti di un resto di umanità capace di “stare in piedi” sotto la croce (cf. Gv 19,25) per tenere compagnia a Gesù, per accompagnarlo alla morte, per garantirgli una sepoltura dignitosa. Quel Venerdì si rivela così un giorno non solo di violenza e morte, ma anche di pietà e condivisione.

Se guardiamo il nostro presente alla luce di questa scena, non possiamo non riconoscere che anzitutto i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari sono “stati in piedi” sotto la croce delle persone contagiate. I ministri delle comunità, i collaboratori pastorali e i volontari, i catechisti e gli operatori delle Caritas, hanno alleviato le povertà materiali, psicologiche e spirituali.

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I giornalisti hanno portato immagini e parole di speranza nelle case, negli ospedali, nei centri per anziani e nelle strutture di detenzione. Le forze dell’ordine e tanti volontari hanno svolto il loro servizio alla collettività con coraggio e dedizione. Alle norme restrittive dettate dalle istituzioni nazionali e locali i cittadini hanno risposto sostanzialmente con grande senso di responsabilità.

Anche se a volte non sono mancate le difficoltà, le famiglie si sono rivelate spazi di relazioni nuove, vere e proprie “Chiese domestiche”, nelle quali è fiorita la preghiera, la celebrazione nel tempo di Pasqua, la riflessione e le opere di carità. Anche così si sono riscoperti quel “sacerdozio battesimale” e quel “culto spirituale”, che non sempre ricevono il giusto spazio nella vita delle nostre parrocchie.

Le confessioni cristiane si sono ritrovate per alcuni momenti di preghiera, approfondendo i tradizionali legami ecumenici; e alcune comunità musulmane e di altre religioni hanno espresso vicinanza e solidarietà.

A ben vedere, il Venerdì santo della storia umana porta con sé l’abisso del dolore, ma anche gesti nuovi di fede e di carità, aderenti alle fragilità e attenti alle relazioni personali. Mai come ora i richiami di papa Francesco nell’Evangelii gaudium suonano come un vero programma pastorale: «La realtà è superiore all’idea» (n. 231); «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze» (n. 49); «Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione, ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana» (n. 169).

Il silenzio del Sabato

«E fu sepolto» (1Cor 15,4). Dopo la morte, Gesù si è lasciato deporre dalla croce, stendere a terra, avvolgere nei teli, porre dentro il sepolcro, oscurare da una grossa pietra. Quella che il corpo di Gesù subisce è una passività preziosa, che rivela la nostra stessa passività: veniamo al mondo perché voluti e accolti da altri, siamo sfamati, nutriti e vestiti da altri e, alla fine, non saremo più padroni del nostro corpo, consegnato ad altri e alla terra.

Che lo vogliamo o no, siamo “dipendenti”, siamo limitati.

Il virus ha assestato un colpo fatale al delirio di onnipotenza, allo scientismo autosufficiente, alla tendenza prometeica dell’uomo contemporaneo. Ha creato una profonda inquietudine, quasi un trauma planetario, specialmente nelle zone ricche e industrializzate della terra: uno smarrimento speculare rispetto al senso di sicurezza che diventava facilmente spavalderia. Improvvisamente, anche questa parte di umanità ha dovuto fare i conti con il limite, con la propria consegna nelle mani di altro da sé, con una grossa pietra all’ingresso del sepolcro.

E ci si è resi conto, come ha ricordato papa Francesco, che «siamo sulla stessa barca» (27 marzo 2020): non esistono navi sicure e zattere sfasciate, ma un unico grande traghetto sul quale pochi credevano di potersi riservare scomparti privilegiati. Adesso – si potrebbe dire – «siamo nello stesso sepolcro»: condividiamo paura e morte, ansia e povertà. Tutti, senza distinzione, abbiamo fretta di uscire dal sepolcro. Vorremmo risorgere subito dopo il Golgota. Ma in questa fretta si nasconde una tentazione: quella di considerare la pandemia una brutta parentesi, anziché una prova per crescere; un chrónos da far scorrere il più velocemente possibile, anziché un kairós da cogliere e da cui lasciarsi ammaestrare.

Il giorno dopo la morte di Gesù è segnato dal silenzio. Non un silenzio vuoto, ma riempito dall’attesa e dalla condivisione.

Gesù «imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Ebr 5,8). La sofferenza, che in quanto tale non va mai cercata e procurata, può diventare una scuola. Nelle vicende drammatiche di un evento che non abbiamo scelto ci è data la possibilità di entrare con umiltà per purificare il nostro sguardo e la nostra stessa fede.

In questi mesi, purtroppo, sono state anche rilanciate interpretazioni teologiche fuorvianti sulle origini della pandemia, presentata come punizione o flagello di Dio per i peccati degli uomini. Sono interpretazioni che hanno il sapore amaro delle parole degli amici di Giobbe che, presumendo di dare una spiegazione “logica”, finiscono per non sentire il dolore dei sofferenti e quindi non pensano secondo il Dio della Bibbia.

Nel silenzio del Sabato è emerso un altro atteggiamento scomposto: la tentazione del miracolo. Alcuni gesti, che poco hanno a che vedere con l’umile purezza della liturgia, svelano piuttosto la fatica di rimanere nel sepolcro, condividendo le domande e le ansie di ogni persona di fronte alla morte, accettando di rivolgersi con maturità e toni sommessi al Dio che è onnipotente nell’amore.

L’esperienza di questo tempo ha riproposto con forza un altro importante aspetto proprio del Sabato santo: il digiuno eucaristico. È emerso un sincero attaccamento di molti presbiteri e fedeli alla liturgia della Messa e alla comunione. Lo stretto legame tra il corpo eucaristico e il corpo ecclesiale – da cui la celebre espressione “l’Eucaristia fa la Chiesa” – si è mostrato una volta di più vero, per quanto vissuto nella forma della mancanza. Ma la scena era insolita: da una parte, il corpo eucaristico veniva ripresentato sull’altare dai presbiteri; dall’altra, il corpo ecclesiale nella sua forma assembleare era costretto a rimanere lontano dall’altare, dalla mensa e dalla comunità.

lettura pandemia

Si trattava di una separazione innaturale, per quanto le trasmissioni televisive potessero in parte supplire, integrate dalle celebrazioni domestiche. Tuttavia, anche il digiuno eucaristico prolungato appartiene all’esperienza del dimorare nel sepolcro in attesa della risurrezione. Dalla condivisione della situazione a cui tante comunità cristiane sparse nel mondo sono costrette, a causa della persecuzione o della scarsità dei sacerdoti, si può imparare ad apprezzare di più la celebrazione eucaristica e il mandato di carità che ci consegna: la comunione eucaristica è finalizzata, infatti, alla comunione ecclesiale e al servizio reso ai fratelli (cf. 1Cor 11,17-29).

Sostare in pace e con coraggio nel sepolcro non è affatto facile: è però un passaggio necessario verso l’ascolto attento dei fratelli, verso una condivisione profonda delle fragilità, verso il recupero di un silenzio orante, verso un affidamento autentico al Signore.

La speranza della domenica

«È risorto… ed è apparso» (1Cor 15,5). L’annuncio del “terzo giorno”, lanciato da san Paolo nel kérygma della Lettera ai Corinzi, risuona nelle forme degli inni e delle narrazioni lungo tutto il Nuovo Testamento: le cosiddette “apparizioni” sono esperienze uniche, capaci di rinnovare in profondità la vita. Attraversando la morte, Gesù ha infatti cambiato la direzione della storia. Non si tratta di un suo privilegio esclusivo: egli è risorto come «primizia di coloro che sono morti» (1Cor 15,20), come «primogenito dei morti» (Ap 1,5), come il primo di tutti, perché spalanca il sepolcro di ciascuno di noi.

Gesù risorge solo il terzo giorno, quando ormai la morte sembrava averlo inghiottito per sempre, quando la pietra pareva averlo tumulato definitivamente. Solo il terzo giorno, perché la risurrezione è vera e credibile quando abbraccia la morte e la sepoltura: il corpo di Gesù risorto è pienamente “trasfigurato”, perché in precedenza aveva accettato di essere completamente “sfigurato”. La sua gloria risplende, perché è passata attraverso una piena solidarietà con gli uomini: ha raccolto tutto l’umano, anche nei suoi risvolti più orribili.

La pandemia ha messo alla prova l’annuncio della speranza cristiana, la “beata speranza” di cui parla la liturgia. Forse ha svelato anche i limiti di una predicazione troppo astratta sulla vita eterna, frettolosamente preoccupata, quando non semplicemente silente, di rimandare all’aldilà senza sostare il tempo giusto sul Golgota e nel sepolcro. Nonostante i tentativi di rinnovare l’annuncio della speranza cristiana (cf. Benedetto XVI, Spe salvi), siamo rimasti ancorati ad una concezione secondo cui l’immortalità e la risurrezione sono temi del “post”: riguardano cioè solo ciò che saremo dopo la morte. Nella cultura occidentale temi come la fine e l’oltre sono stati in buona parte rimossi. La morte, imbarazzante e fastidiosa, ha subìto due tentativi di neutralizzazione: con il silenzio o, all’opposto, con la spettacolarizzazione. La vita eterna, con tutti i suoi risvolti – giudizio, paradiso, purgatorio, inferno, risurrezione – è banalizzata o relegata nello scaffale dell’evocazione simbolica: due tentativi di escluderla dall’orizzonte terreno, dalle cose umane su cui vale la pena puntare.

Per noi cristiani è sì una questione di linguaggio, ma è soprattutto una questione di esperienza e testimonianza. Il linguaggio va certamente aggiornato, non solo a livello teologico, ma anche della prassi pastorale e della predicazione; ma è soprattutto necessario saper cogliere i segni della vita eterna dentro la vita terrena di ogni giorno.

Il Vangelo di Giovanni spesso annuncia la vita eterna e la risurrezione al presente, ad esempio con le lapidarie parole di Gesù a Marta: «Io sono la risurrezione e la vita» (cf. Gv 11,25). Chi cammina verso un traguardo desiderabile accetta anche le fatiche del percorso senza perdersi d’animo; chi cammina nella speranza della vita eterna trova tracce di eternità anche nel gesto di dare un bicchiere d’acqua ad un piccolo (cf. Mt 10,42). Vangelo alla mano, il formulario dell’esame finale sarà molto semplice: «Mi hai assistito quando ho avuto fame e sete, ero nudo e povero, ero straniero, malato e carcerato?» (cf. Mt 25,31-46). In definitiva, «alla sera della vita saremo giudicati sull’amore» (san Giovanni della Croce).

L’annuncio della speranza cristiana (Rm 5,5) è tutt’altro che alternativo alla speranza umana: l’averlo talvolta presentato come una raccolta di verità astratte, slegate dall’esistenza terrena e dalle sue attese, ha prestato il fianco all’accusa di alienazione, illusione o fantasia compensativa. L’escatologia cristiana è in realtà un’antropologia che reclama pienezza, una carità che inizia a prendere corpo nel presente e si orienta al suo compimento. Senza questo orizzonte, ogni germe di amore, ogni progetto, ogni desiderio e sogno, andrebbero inesorabilmente ad infrangersi: sarebbe davvero un raggiro la nostra vita sulla terra, se fosse sufficiente un virus o un terremoto, una distrazione in auto o un momento di disperazione perché tutto finisca, per sempre.

lettura pandemia

La speranza cristiana si fonda sull’esperienza che la comunità credente fa del Risorto. Ancora otto giorni dopo la risurrezione di Gesù, infatti, i discepoli si ritrovano nel Cenacolo, in una casa, a porte chiuse (cf. Gv 20,19). Hanno una percezione angosciosa del rischio che corrono fuori da quell’ambiente, che adesso sentono come rassicurante ma che alla lunga sanno essere troppo angusto. Il Risorto li raggiunge nell’ambiente chiuso in cui si sono rifugiati: l’incontro avviene anzitutto il primo giorno dopo shabbat, cioè il primo giorno lavorativo dopo quello di riposo e di festa. Il Risorto viene ad attivare processi di vita evangelica nel tempo quotidiano dei discepoli.

Non si dice quanto si sia trattenuto con i discepoli: si può presumere che lo abbia fatto per tutto il tempo necessario per rasserenarli, per fare loro una catechesi sui misteri della fede e per motivarli ad un nuovo stile di vita.

Se, da una parte, il trauma della morte violenta di Gesù aveva disorientato i discepoli e li aveva fatti rinchiudere in se stessi, dall’altra, aveva paradossalmente sollecitato domande come quella di Tommaso – «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo» (Gv 20,25) – che trovano adesso una risposta nel Risorto.

L’evento della risurrezione di Gesù pone il nostro desiderio di vita in un orizzonte di possibilità reale. La sua risurrezione comporta la definitiva trasfigurazione del corpo, l’ingresso della carne nella dimensione divina. Il suo corpo terreno è stato investito dallo Spirito e glorificato, anticipando la risurrezione finale di ciascuno di noi: «La sua risurrezione non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire i germogli della risurrezione. È una forza senza uguali. È vero che molte volte sembra che Dio non esista: vediamo ingiustizie, cattiverie, indifferenze e crudeltà che non diminuiscono.

Però è altrettanto certo che nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo, che presto o tardi produce un frutto. In un campo spianato torna ad apparire la vita, ostinata e invincibile. Ci saranno molte cose brutte, tuttavia il bene tende sempre a ritornare a sbocciare e a diffondersi. Ogni giorno nel mondo rinasce la bellezza, che risuscita trasformata attraverso i drammi della storia. I valori tendono sempre a riapparire in nuove forme, e di fatto l’essere umano è rinato molte volte da situazioni che sembravano irreversibili. Questa è la forza della risurrezione e ogni evangelizzatore è uno strumento di tale dinamismo» (Evangelii gaudium, n. 276).

Per un cammino creativo

Una lettura pasquale dell’esperienza della pandemia non può prospettare il semplice ritorno alla situazione di prima, augurandosi di riprendere l’aratro da dove si era stati costretti a lasciarlo.

L’esperienza del Venerdì e del Sabato – la permanenza sulla croce e nel sepolcro – non può più essere vissuta dai cristiani come una parentesi da chiudere al più presto: deve, piuttosto, diventare una parenesi, cioè un’esortazione, un invito a maturare un’esistenza diversa. Risuonano ancora le parole di papa Francesco: «La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità» (Evangelii gaudium, n. 33).

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La croce e il sepolcro possono diventare cattedre che insegnano a tutti a cambiare, a convertirsi, a prestare orecchio e cuore ai drammi causati dall’ingiustizia e dalla violenza, a trovare il coraggio di porre gesti divini nelle relazioni umane: pace, equità, mitezza, carità. Sono questi i germi di risurrezione, i lampi della Domenica, che rendono concreto e credibile l’annuncio della vita eterna.

Se avremo imparato che tutto è dono, se da questo sorgerà un nuovo stile personale e comunitario, che rinuncia alla lagnanza e all’arroganza e adotta la condivisione, il ringraziamento e la lode, allora la pandemia ci avrà insegnato qualcosa di importante. L’avremo vissuta, letta ed elaborata ascoltando lo Spirito e partecipando al mistero della Pasqua di Gesù, Crocifisso e Risorto.

Ripartiremo, allora, come comunità ecclesiale sui passi dell’uomo del nostro tempo, animati da tenerezza e comprensione, da una speranza che non delude.

settimananews