La denuncia. «Ai bambini del Sud rubato un anno di scuola»

«Ai bambini del Sud rubato un anno di scuola»

I divari territoriali si misurano anche confrontando il girovita degli studenti: al Sud sono di più quelli in sovrappeso, rispetto al Nord, perché nelle scuole mancano le palestre e non ci sono altri spazi dove effettuare attività sportiva. E questa è soltanto una delle tante carenze che gravano sul sistema scolastico del Mezzogiorno, puntigliosamente ricordate dal rapporto “Un Paese, due scuole”, presentato dalla Svimez a Napoli. Secondo i dati dell’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, mediamente un alunno della primaria del Sud usufruisce di 200 ore di lezione in meno rispetto ad un coetaneo del Centro-Nord, essenzialmente per la mancanza del tempo pieno. «Di fatto si tratta di un anno di scuola persa», si legge nel rapporto.

La mensa, un servizio fantasma

Per far sì che una scuola possa offrire il tempo pieno alle famiglie, è necessario sia dotata del servizio mensa. Un optional per la gran parte degli istituti del Sud. Secondo i dati Svimez, nel Mezzogiorno, circa 650mila alunni delle scuole primarie statali (79% del totale) non beneficiano di alcun servizio mensa. In Campania se ne contano 200mila (87%), in Sicilia 184mila (88%), in Puglia 100mila (65%), in Calabria 60mila (80%). Nel Centro-Nord, gli studenti senza mensa sono 700mila, il 46% del totale, mentre la media nazionale è del 57,94% di bambini senza mensa.

Il tempo pieno? Un miraggio

A causa di queste «carenze infrastrutturali», solo il 18% degli alunni del Mezzogiorno accede al tempo pieno a scuola, rispetto al 48% del Centro-Nord. La Basilicata (48%) è l’unica regione del Sud con valori prossimi a quelli del Nord. Bassi i valori di Umbria (28%) e Marche (30%), molto bassi quelli di Molise (8%) e Sicilia (10%). E ancora. Gli allievi della scuola primaria nel Mezzogiorno frequentano mediamente 4 ore di scuola in meno a settimana rispetto a quelli del Centro-Nord. La differenza tra le ultime due regioni (Molise e Sicilia) e le prime due (Lazio e Toscana) è, appunto, di circa 200 ore all’anno.

Meno palestre, più bimbi obesi

Anche sul versante dell’educazione motoria, il Sud è messo male. Sono circa 550mila (il 66% del totale) gli alunni delle primarie del Mezzogiorno che frequentano scuole non dotate di palestra. L’unica eccezione è la Puglia. Per il resto, la Svimez registra un netto ritardo in Campania (170mila allievi privi del servizio, 73% del totale), in Sicilia (170mila, 81%), in Calabria (65mila, 83%). Nel Centro-Nord, gli allievi della primaria senza palestra, invece, raggiungono il 54%. Analogamente, il 57% degli alunni meridionali della scuola secondaria di secondo grado non ha accesso a una palestra; la stessa percentuale che si registra nella scuola secondaria di primo grado. Questa lacuna ha un’influenza diretta sullo stile di vita dei bambini: nel Meridione quasi un minore su tre nella fascia tra i 6 e i 17 anni, è in sovrappeso, rispetto ad un ragazzo su cinque nel Centro Nord.

Crollati gli investimenti in istruzione

Un altro indicatore che aggrava ulteriormente il divario Nord-Sud è quello relativo alla spesa per investimenti nell’istruzione. Nel periodo che va dal 2008 al 2020, mentre in Italia questo capitolo di spesa ha perso, in media, il 14,3% (circa 8 miliardi di euro in meno), al Centro-Nord il taglio è stato dell’11,2% (circa 3,7 miliardi di euro), mentre al Sud del 19,5% (oltre 4 miliardi di euro). «Più significativo è il rapporto tra spesa e studenti – osserva lo Svimez – dal quale risulta uno scarto sfavorevole al Sud, dove la spesa per studente è di circa 100 euro annui inferiore rispetto al resto del Paese (5.080 euro per studente contro 5.185). Lo scarto aumenta se si considera il solo comparto della scuola, con una spesa per studente di 6.025 euro al Sud contro un valore di 6.395 nel Centro-Nord. Lo scarto è ancora più significativo se si guarda alla sola spesa per investimenti: 34,6 contro 51 euro per studente».

In cinque anni persa la popolazione di Venezia

Complice anche il calo demografico, tutte queste carenze infrastrutturali e di servizi, hanno portato a un progressivo spopolamento delle scuole del Mezzogiorno. Secondo il rapporto della Svimez, tra il 2015 e il 2020 il numero di studenti dalla materna alle superiori) si è ridotto di quasi 250mila unità (-75mila nel Centro-Nord). È come se il sistema scolastico del Sud avesse perso, in appena cinque anni, una popolazione studentesca pari agli abitanti di Venezia.

«Pnrr, occasione di rilancio»

«Per contrastare queste dinamiche – spiega il direttore della Svimez, Luca Bianchi – occorre invertire il trend di spesa e rafforzare le finalità di coesione delle politiche pubbliche nazionali in tema di istruzione. Il Pnrr è l’occasione per colmare i divari infrastrutturali, garantendo asili nido, tempo pieno, palestre, rafforzando l’offerta formativa dove più alto è il rischio di abbandono».

avvenire.it

Scuola. Negli insegnanti che si formano la passione per una scuola viva

Dal 2015, dall’avvio della riforma nota come “Buona scuola”, che ha innovato l’anno di formazione e prova, quasi un terzo degli insegnanti ha seguito programmi di aggiornamento

Negli ultimi tempi l’attenzione del legislatore, sul versante scuola, si è concentrata soprattutto sul sistema di reclutamento dei docenti, riformato dalla legge 79 del 2022, e sulla formazione continua degli insegnanti. Per quanto riguarda il primo aspetto, uno dei punti salienti della riforma è l’acquisizione, da parte degli aspiranti docenti, di 60 crediti formativi universitari (Cfu) in conoscenze teorico pratiche professionalizzanti; il secondo versante, quello della formazione del corpo docente, ha invece trovato nuovo slancio a partire dalla legge 107 del 2015, la cosiddetta “Buona scuola”, che ha profondamente innovato l’anno di formazione e prova. Un primo bilancio di questa esperienza, a otto anni dalla sua introduzione, è contenuto nel volume “L’anno di formazione e prova degli insegnanti dal 2015 ad oggi” (Carocci editore, 335 pagine, 38 euro), curato da Maria Chiara Pettenati, dirigente di ricerca dell’Indire, l’Istituto nazionale documentazione, innovazione e ricerca educativa, realtà che insieme all’Invalsi è parte del sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione.

Il rapporto ripercorre i passaggi di quella che è stata definita, dalla stessa curatrice, una «ballata popolare» che ha coinvolto insegnanti di tutto il Paese, circa 300mila negli otto anni considerati, quasi uno su tre di quelli attualmente in cattedra. Un esercito di innovatori che si candida a cambiare la scuola (e la società) agendo dall’interno del sistema di istruzione, ancora troppo spesso bloccato da prassi consolidate, ma non più attuali e da una burocrazia asfissiante, che gli stessi dirigenti scolastici non hanno timore di definire «molesta». Dal 2015, dunque, è in atto il tentativo di operare un profondo cambiamento, facendo leva su questa avanguardia di nuovi docenti, formati e motivati e con una rinnovata consapevolezza del ruolo sociale del proprio lavoro. Insegnanti neo immessi in ruolo ma, spesso, con una lunga esperienza di precariato alle spalle, praticamente coetanei dei colleghi in servizio da più tempo, in grado di portare nella scuola una ventata d’aria fresca, una nuova domanda di formazione finalizzata al miglioramento della loro professionalità.

Dal 2015 ad oggi sono stati 292.440 i docenti neoassunti che hanno svolto l’anno di prova secondo il modello della “Buona scuola”. Per oltre l’80% si tratta di donne, per il 44% con un’età compresa tra i 35 e i 44 anni e rappresentano circa il 30% di tutti gli insegnanti attualmente in servizio in Italia. In prevalenza (60%) lavorano nelle scuole del primo ciclo (primaria e secondaria di primo grado), mentre circa il 30% insegna alla secondaria di secondo grado e un restante 20% circa alla scuola dell’infanzia (in crescita nell’ultimo quinquennio). Questo nuovo contingente di insegnanti è stato coinvolto nell’anno di formazione che, tra le caratteristiche principali, ha la sottoscrizione di un Patto formativo tra il docente in formazione e la comunità educante in cui si inserisce, un «ruolo incisivo» del dirigente scolastico chiamato a valutarlo e la figura del docente “tutor”, un collega esperto che affianca l’aspirante insegnante nell’anno di prova.

Al centro di questo percorso c’è la costruzione del Curriculum formativo, per favorire la «costruzione dell’identità professionale del docente», chiamato a «crescere attraverso la riflessività». « Da dove vengo come insegnante?», «Dove sono e come agisco ora?», «Come voglio diventare nella mia professione futura?», sono, allora, le domande che gli aspirati docenti sono stimolati a porsi, per arrivare a una nuova consapevolezza del proprio ruolo e della propria funzione nella società. Una riflessione che, in seguito, potranno portare nella scuola dove insegneranno, “contaminando” in positivo i colleghi. «In questo giocherà un ruolo chiave l’intraprendenza del legislatore nell’articolare il nuovo sistema di formazione continua incentivata – spiega Maria Chiara Pettenati nell’introduzione – ma è certamente da qui che il nostro Paese deve passare se vuole procedere spedito verso il perseguimento del Goal-4 dell’Agenda 2030 “Assicurare un’istruzione di qualità equa ed inclusiva e promuovere opportunità di apprendimento permanente per tutti”».

Ai nuovi 300mila insegnanti, insomma, si chiede di portare nella scuola « vivacità e nuove idee», contribuendo a far sedimentare la «cultura dell’apprendimento adulto permanente», azione strategica messa in campo dal Ministero dell’Istruzione. « È evidente – si spiega nella ricerca dell’Indire – come questa azione, consolidata ormai da diversi anni, abbia un impatto non solo sul sistema d’istruzione ma anche su tutto il Paese. Investire nel capitale professionale e culturale della scuola, rappresenta infatti un fattore fondamentale nel continuo miglioramento delle metodologie didattiche, delle conoscenze e delle competenze trasversali dei nostri insegnanti con l’obiettivo di avere ricadute certe sulla crescita dei nostri ragazzi, preparandoli ai lavori del futuro, in un contesto di società che è in continua evoluzione e sempre più globale».

La formazione non arricchisce soltanto il docente neoassunto, insomma, ma anche la comunità scolastica nel suo insieme. « L’auspicio – spiegano gli esperti dell’Indire – è che continui ad essere anche un momento di formazione continua». Su quali argomenti e con quali contenuti, sono gli stessi insegnanti a suggerirlo, elencando una serie di “bisogni formativi”. Al primo posto ci sono le “metodologie didattiche innovative” capaci di appassionare gli studenti rendendoli davvero protagonisti del processo di apprendimento, ma anche “l’inclusione e i bisogni formativi speciali degli alunni”.

Dopo l’esperienza della pandemia e della Didattica a distanza, i nuovi docenti chiedono di essere formati nelle “competenze digitali”, ma anche nei “bisogni legati alla relazione” (con gli studenti, i colleghi, i genitori….), anch’essa segnata in profondità da due anni di lezioni online. L’interesse dei docenti si rivolge in particolare a quelle opportunità di formazione che sembrano finalizzate al miglioramento della propria professionalità all’interno della scuola. Meno frequentati, invece, i temi che fanno riferimento al mondo esterno rispetto alla realtà scolastica (ad eccezione della relazione con i genitori) soprattutto per quanto riguarda la scuola per l’infanzia e la primaria. Anche gli aspetti della professione che hanno a che vedere con il contesto socio-economico – è spiegato nel rapporto – come ad esempio il tema della dispersione scolastica «non sembrano catturare particolarmente l’interesse dei docenti».

Un punto, quest’ultimo, su cui l’intero sistema si dovrebbe interrogare, alla luce dei dati che dicono come, in Italia, vivano un milione e 382mila minori in povertà assoluta, la dispersione scolastica sia al 12,7% e i giovani tra i 15 e i 29 anni senza scuola, formazione o lavoro rappresentino il 23,1% del totale, più che in ogni altro Paese europeo. Per migliorare queste “classifiche” è, dunque, quanto mai necessaria una nuova generazione di insegnanti appassionati e contenti del proprio lavoro.

avvenire.it

A scuola per gestire i conflitti «C’è bisogno di persone migliori»

PARTE DALL’ITALIA UN PROGETTO CHE ABBRACCIA IL MONDO

La pace si costruisce a partire dai piccoli gesti di ogni giorno, dal lavoro quotidiano che, per bambini e ragazzi, consiste essenzialmente nell’andare a scuola.

È da questo luogo, allora, che deve partire una vera “educazione alla pace” in grado di coinvolgere alunni, docenti e famiglie in una rete capace di travalicare i confini italiani per abbracciare le scuole di tutto il mondo. È l’ambizioso ma necessario obiettivo dell’iniziativa lanciata dal Movimento di cooperazione educativa (Mce) e dalla Federazione internazionale dei Movimenti di scuola moderna (Fimem), che vuole dedicare l’intero anno scolastico ai temi della pace e della convivenza pacifica tra i popoli. Il progetto è stato avviato lo scorso 20 novembre, in occasione della Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (il primo dei quali è proprio quello alla pace) e proseguirà fino al termine delle lezioni, a giugno, con un webinar nella primavera 2023 che vedrà protagoniste tutte le scuole aderenti.

Già in queste prime settimane, i promotori hanno ricevuto adesioni da tutta Italia e anche dall’estero (dalla Francia alla Spagna, ma anche da Sud America e Giappone) e pubblicheranno tutte le iniziative locali in un sito web dedicato.

«Il nostro modello è la scuola attiva del francese Freinet, fautore della pedagogia popolare che pone al centro il protagonismo degli alunni», spiega Roberto Lovattini, per oltre quarant’anni maestro elementare a Piacenza ed esponente del Movimento di cooperazione educativa. «Se vogliamo dare un senso al nostro stare a scuola – aggiunge l’insegnante – dobbiamo partire dall’educazione alla pace, formando cittadini in grado di costruire un mondo migliore. Donne e uomini capaci di cooperare, di mediare e in grado di risolvere i conflitti – che nella società ci saranno sempre – senza per forza ricorrere all’uso della violenza. Ma – ricorda Lovattini – la non-violenza non si improvvisa, serve un’educazione e un esercizio costanti che la scuola è in grado di garantire».

Sulla scorta degli insegnamenti di grandi maestri della pace, come don Milani, i promotori della “Rete delle scuole per la pace” sono sicuri che, così impostata, anche l’attività didattica ne trarrà beneficio. «È vero che a scuola si va per imparare – chiosa Lovattini –. Ma imparare come? Lavorando in gruppo, collaborando e aiutando chi è in difficoltà, oppure semplicemente per il voto? A scuola si va per imparare perché la società ha bisogno di persone migliori».

Di «scuola come coscienza civile della società» parla l’altro coordinatore italiano del progetto, Lanfranco Genito, insegnante napoletano e fino ad agosto presidente della Fimem.

«L’educazione civica – aggiunge – non è soltanto una materia, è un modo concreto di interessarsi a ciò che avviene intorno a sé». E in tempo di guerra è urgente interessarsi alla pace.

L’arte trascurata dalla scuola di oggi: imparare a memoria

Imparare a memoria: perché è utile - Starbene

Si impara ancora “a mente” in qualche scuola elementare italiana, prima delle vacanze di Natale, la poesia di Angiolo Silvio Novaro sulla Santa Notte, sul rifugio di Giuseppe e Maria in una stalla di Betlemme dove nascerà il Salvatore? Affettuose e orecchiabili, piacevano molto ai bambini di un tempo; e alle loro maestre e a qualche maestro: «Consolati, Maria, del tuo pellegrinare…». Ce n’era una anche sull’anno nuovo? «O anno nuovo che ti affacci / calpestando i lisi stracci / dell’anno ch’è morto, vieni!». E la più letta di tutte era quella sulla “pioggerellina di marzo” che annunciava la primavera; insieme a quella su san Francesco e il lupo: «Viveva un dì, narra un’antica voce, / vicino a Gubbio un lupo assai feroce…». L’abitudine di fare imparare a memoria poesie considerate strumenti educativi indiretti o diretti, credo si sia persa da tempo, e uno dei motivi per apprezzare il ricordo di Gianni Rodari fu proprio quello di avere ridato nuova vita a quella storia, tornando a quella tradizione; e si potrebbe anche dire che Rodari è stato un indiretto allievo di Novaro, il poeta ligure (1866-1938) che si fece una specialità dei versi facili da imparare a memoria anche per i bambini più piccoli, per i primi anni delle scuole elementari. Le raccolte di Novaro andavano a ruba non solo nella scuola, ed erano versi spesso banali ma sempre “caldi” e facili da ricordare, sì che ancora oggi più generazioni di italiani li ricordano. A cavallo, diciamo, tra Pascoli e Gozzano, Novaro era però bravo a parlare ai lettori tra i sei e i dieci anni, un pubblico che seppe conquistare senza mai ruffianeggiare. Altri suoi versi venivano talvolta proposti nelle aule di un tempo, su Garibaldi e sulle sue imprese. Novaro venerava “l’eroe dei due mondi” ma il suo amor di patria fu messo a dura prova quando, nella Prima guerra mondiale, un figlio gli morì al fronte. Imparare versi a memoria era considerato un tempo un esercizio fondamentale sotto tanti aspetti, e il fatto che, ancora in tanti, tanti versi ricordiamo delle poesie apprese allora, spesso anche ardue e importanti man mano che si cresceva d’età e dalle elementari si passava alle medie o alle “scuole d’avviamento professionale”, significa che non tutto della scuola di eri era da buttare, e che certe tradizioni potrebbero ancora, “aggiornate”, avere un senso, a scuola e nell’età adulta – di fronte alla prosa di tutti i giorni, e a quella, così “sgraziata”, degli scrittori e giornalisti più noti e aggressivi, e in assenza di poeti nostri amati dai grandi e tanto meno dai piccoli…

Avvenire