Papa Francesco con mons. Domenico Cornacchia sfogliano la Positio di don Tonino Entra nel vivo la causa di beatificazione di don Tonino Bello

Il 24 giugno scorso monsignor Domenico Cornacchia, vescovo della diocesi di Molfetta – Ruvo – Giovinazzo – Terlizzi, la stessa dove ha esercitato il suo ministero don Tonino dal 1982 fino alla morte, avvenuta il 20 aprile 1993, è stato ricevuto in udienza privata da papa Francesco al quale ha consegnato di persona la Positio Super Virtutibus del servo di Dio Antonio Bello.

Si tratta di un volume elaborato dalla Postulazione (il relatore è mons. Maurizio Tagliaferri mentre il postulatore è mons. Luigi M. De Palma, suo vice padre Alessandro Mastromatteo ofm) che presenta in modo articolato ed approfondito tutta la documentazione e le testimonianze riguardanti la vita e la fama di santità del “vescovo degli ultimi”.

«Ero a Roma per consegnare la Positio al cardinale Angelo Becciu, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi», racconta mons. Cornacchia, «quando mi hanno invitato a consegnarla direttamente nelle mani del Papa che ha molto apprezzato e ha ricordato con grande affetto la visita compiuta due anni fa, il 20 aprile 2018, ad Alessano e a Molfetta, nel venticinquesimo anniversario della morte di don Tonino». Mons. Cornacchia e il Papa hanno sfogliato insieme il volume: «A un certo punto», racconta, «Francesco mi ha detto: “Sacerdoti e vescovi come don Tonino sono da imitare”».

La Positio è stata completata qualche settimana fa: «Ora» spiega, «sarà esaminata dalla commissione di teologi e cardinali della Congregazione che dovranno esprimersi sulla vita e la fama di santità di don Tonino e verificare se egli ha vissuto pienamente le virtù teologali e cardinali. Se l’esame sarà positivo, il Papa, speriamo presto, potrà dichiarare Venerabile il Servo di Dio». È un primo passo per la beatificazione: «Sì ma per questa occorre un miracolo e dovrà essere analizzato».

Don Tonino Bello (1935 - 1993)

Don Tonino Bello (1935 – 1993)

«L’UOMO DELLA CARITÀ SENZA MISURA»

Ci sono diverse segnalazioni di miracoli attribuiti all’intercessione di don Tonino? «Sì», risponde mons. Cornacchia, «ma dovranno essere valutati con attenzione quando sarà il momento opportuno. Per me è stato un grande dono e un privilegio consegnare la Positio al Papa a nome della chiesa di Ugento, che ha dato i natali a don Tonino, e di quella di Molfetta che lo ha visto come pastore, guida e profeta. Quello che don Tonino ha espresso da vescovo è stato frutto di quello che ha vissuto in tutta la sua vita di sacerdote».

La fase diocesana della causa di canonizzazione si è conclusa il 30 novembre 2013.

«Don Tonino», dice il suo successore a Molfetta, «è stato l’uomo della carità. Tra le virtù teologali questa è stata la strada che ha percorso con più convinzione e credibilità. È stata l’utopia fatta storia. Qui, a Molfetta come ad Alessano, aumentano i pellegrini che visitano i luoghi dove è nato e vissuto. Davanti alla stanza dove è morto qui a Molfetta c’è un registro con centinaia di testimonianze, soprattutto di giovani. Don Tonino è stato l’uomo della carità senza misura, senza limite, ha fatto il bene e lo ha fatto bene. Ripeteva spesso che “l’unica porta che ci introduce nella casa della credibilità perduta è la porta del servizio”. Per questo invitava anche la Chiesa a passare dalla logica dello scambio a quella del dono».

Sui tempi mons. Cornacchia non si sbilancia: «Sono dell’avviso che quando si attende una bella notizia il tempo si accorcia», afferma, «la persona e il messaggio di don Tonino vivono nella vita di molti; egli ci ha insegnato a vivere in maniera eccezionale la vita quotidiana».

Famiglia Cristiana

Il buon ladrone, primo santo cristiano, dimenticato dalla memoria della Chiesa

Giotto, «Il buon ladrone»  (Assisi, basilica di San Francesco)

osservatoreromano.va

«Gentil o hebreo o simplemente un hombre / Cuya cara en el tiempo se ha perdido / Ya no rescataremos del olvido / Las silenciosas letras de su nombre / Pero la historia no dejará que muera la memoria / De aquella tarde en que los dos murieron» (Jorge Luis Borges, Lucas, XXIII).

La tradizione è stata saggia a chiamare uno dei malfattori “buon ladrone” (cfr. Lc 23, 39-43). È una definizione appropriata, ricorda Timothy Radcliffe, perché lui sa come impossessarsi di ciò che non è suo. Mette a segno il più strabiliante colpo della storia. Ottiene il paradiso senza pagare per entrarvi. Come facciamo noi tutti. Dobbiamo solo apprendere ad accettare doni.

«Un posto nel calendario per il primo santo cristiano», così intitola Alessandro Pronzato il capitoletto dedicato al malfattore nei suoi Vangeli scomodi. E dice: «Ho sfogliato il calendario. Il ciclo liturgico, zeppo di santi non riserva neppure un posticino per lui. C’è un posto e ci sono feste, per tutti quelli che erano presenti sul calvario quel giorno. Un posto perfino per gli assenti. Per lui, il buon ladrone, primo santo cristiano, non c’è posto nel calendario. Insomma. Un personaggio scomodo, non troppo raccomandabile, neppure dopo la morte. Quindi, niente festa per lui. Intendiamoci. Non è che lui ci soffra per queste sgarberie dei liturgisti. Resta pur sempre l’unico santo canonizzato direttamente dal Cristo: “In verità ti dico: oggi sarai con me nel paradiso”. Ciò gli basta. E ne avanza. Accompagna Gesù nel suo ingresso in paradiso. Proprio lui. Il fuorilegge. L’escluso (anche dal calendario liturgico)».

Nessun posto per lui nel calendario: imbarazzante che del primo santo ci sia così taccagna memoria, ripete Marco Pozza. Un cantuccio in un ricordo chiese dal patibolo. Inaugurò invece il paradiso: il Cielo eccede sempre con chi lascia il certo per l’incerto…

Che fosse un brigante, un poco-di-buono, probabilmente un complice di Barabba, un semi-terrorista, un delinquente, un facitore-di-male, è piuttosto pacifico. Eppure, essere canonizzato in direttissima da Gesù stesso suona un tantino eccessivo, no? Senza purgatorio, senza regolari procedure canoniche bollate (e senza che nemmeno abbia fondato una congregazione di suore, aggiunge Giovanni Berti)!

È certo però che la Chiesa latina non gli concede nemmeno un cantuccio nelle celebrazioni del suo calendario liturgico, tranne che ricordarlo ogni tre anni quando nella domenica di Cristo Re (Anno c) si proclama il Vangelo secondo Luca. «Guardati dal dimenticare» (Dt 4, 9). La Chiesa caldea invece, assieme alle altre chiese di tradizione siriaca, festeggia il ladrone il lunedì dopo Pasqua, in un dramma liturgico prima dell’Eucaristia: il lunedì dell’Angelo loro lo chiamano il lunedì del Ladrone. In una sorta di auto sacramentale, un diacono impersona il cherubino che guarda gelosamente le porte chiuse del paradiso sbarrandone l’accesso, e un altro diacono il ladrone che dice di poter entrare, perché il Signore gli ha dato la chiave. Ne segue un acceso dialogo, senza esclusione di colpi, tra colui che sbarra l’ingresso e colui che insiste nell’accedervi, fino a che questi tira fuori una croce e la mostra al cherubino, il quale si arrende e festosamente abbraccia il ladrone e lo accompagna dentro. Altrettanto canta la liturgia bizantina del Venerdì santo: «Ha aperto le porte chiuse dell’Eden al ladro con la chiave del suo Ricordati di me».

Perché il ladro dice “Ricordati di me”, e non “salvami” come ci si potrebbe aspettare? Perché il ricordo al posto della salvezza? Sembra il segno di un’umiltà triplice, dice Fabrice Hadjadj: la prima umiltà è che il nostro ladrone si abbandona al buon cuore del Signore. Non si crede degno del regno che verrà, ma domanda solamente a Gesù di ricordarsi di lui; la seconda umiltà si intuisce dal fatto che il verbo “ricordarsi”, nel Vangelo secondo Luca, viene usato per la prima volta alla fine del Magnificat: Maria dichiara che l’onnipotente «si è ricordato della sua misericordia». Infine, la terza umiltà: il nostro non ha l’impazienza dell’altro ladrone, non dice “ricordati di me” subito, ma “quando entrerai nel tuo regno”. E Gesù non l’esaudisce… È sempre così nelle sue abitudini, la sorpresa, l’inesattezza sovrabbondante.

Perciò il patriarca Bartolomeo, nelle meditazioni per Via Crucis al Colosseo del 1994, inserì un’invocazione ispirata alla liturgia bizantina che ogni giorno fa dire al credente: Signore, non ti darò il bacio di Giuda, ma come ha fatto il ladrone, ti prego: ricordati di me quando sarai nel tuo regno. Ogni giorno, ogni volta che i fedeli di rito bizantino, ortodossi e cattolici, si avvicinano alla comunione, usano le parole del ladrone (mentre nel rito romano usiamo le parole del centurione). «Guardati dal dimenticare» (Dt 4, 9).

Ho detto che la Chiesa romana non ha incluso il buon ladrone nel proprio martirologio. A dire il vero, non è così: infatti, il buon ladrone è iscritto nel Martirologio romano il… 25 marzo, solennità dell’Annunciazione. Nell’antichità patristica, si pensava che il Signore fosse stato concepito e fosse anche morto un 25 marzo. Quindi, se quel giorno Gesù è morto e ha portato con sé il malfattore, ha senso ricordarlo lo stesso 25: è il suo dies natalis. Certo, simbolicamente può essere suggestivo: tra annunciazione e crocifissione c’è una corrispondenza, ben resa dal romeno Sandu Tudor, poi monaco Daniil: «Considera gli otto grandi momenti della vita del Salvatore: annunciazione, nascita, battesimo, trasfigurazione, crocifissione, risurrezione, ascensione, discesa dello Spirito Santo. È l’ottava del mistero dell’umiltà di Dio per la nostra salvezza. Sovrapponendo i primi quattro momenti agli altri quattro, si ottiene una corrispondenza polare perfetta che illumina il mistero della nostra salvezza: l’annunciazione corrisponde alla crocifissione, la nascita alla risurrezione, il battesimo all’ascensione, la trasfigurazione alla discesa dello Spirito Santo. È il mistero della croce a costituire l’annuncio dell’angelo; è la risurrezione che ci permette di rinascere dall’alto; è l’ascensione al cielo che svela l’adozione a figli introducendoci nel regno; è la discesa dello Spirito Santo che ci permette di trasfigurarci nella luce divina».

Splendido e verissimo, nonché suggestivo. Ma, de facto, nella vita liturgica cattolica e quindi nella consapevolezza orante dei fedeli oggi questi collegamenti sono praticamente invisibili se non davvero inaccessibili. Significa semplicemente obliterare, cancellare, accantonare, cassare, rimuovere, far svanire la memoria del ladrone graziato. Ubi maior minor cessat.

Ho sottolineato la dimenticanza de facto (se non de iure) del ladrone nel calendario liturgico romano. Ma la “amnesia” non è totale, c’è ancora qualche resto di memoria, come brace che tiene il fuoco acceso sotto la cenere. La diocesi di Gerusalemme il 12 ottobre ha la memoria facoltativa del buon ladrone, mentre al Santo Sepolcro questa memoria è obbligatoria: i francescani della Terra Santa sono anche qui i custodi della memoria del ladrone proprio nel luogo storico e concreto che è il cuore dell’evento cristiano, dove avvenne la Pasqua di morte e risurrezione del Signore Gesù. «In verità ti dico: oggi con me sarai in paradiso»: nella nostra umanità, tribolata e pacificata, il Signore ci permette di godere della comunione con Lui.

È uno dei protagonisti delle riflessioni di Fabio Scarsato, nel libro del titolo significativo: Wanted. Esercizi spirituali francescani per ladri e briganti. I figli del Poverello si trovano a proprio agio con il poco-di-buono del Calvario. Giotto lo ha ritrattato rivestito di luce, in paradiso, abbracciato alla sua croce (cappella della Maddalena, nella basilica inferiore di Assisi). I rigoristi invece — puritani, giansenisti, pelagiani e meritocratici — si trovano a disagio con lui. Troppa misericordia. Eccessiva. Anche gli idealisti, gli gnostici e i manichei non si trovano a proprio agio. Troppa carne concreta, martoriata. Carne ineludibile. Ci fa bene, però: là, nello sguardo di Gesù al ladrone, splende l’amore pazzo del cuore di Cristo per i suoi, pecorelle ritrovate. «Guardati dal dimenticare» (Dt 4, 9).

Sul Tabor, Cristo si manifesta nella gloria tra Mosè ed Elia e si intrattiene con loro sulla «sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme» (Lc 9, 31); sul Golgota, Cristo è messo in croce tra due malfattori e si intrattiene con uno di essi sul paradiso. Una divina ironia vede qui la luce: in gloria, si parla della croce; in croce, si parla della gloria; a costo di spingere la tensione all’estremo. Che audacia, nel bel mezzo del supplizio, dire che il paradiso è per oggi stesso!

Tre crocifissi, uno il Salvatore, uno il salvato… e il terzo? Semplicemente non sappiamo. Luca non lo dice. Il racconto ha un open ending, come la parabola del figliol prodigo: la parabola non dice se il figlio arrabbiato finalmente accoglie l’invito del padre ad entrare nella festa per il fratello ritrovato o non (cfr. Lc 15, 32). Non lo dice, e quindi non lo sappiamo. Bellissima l’allusione al riguardo in una poesia di Scott Cairns, Another Crucifixion, pubblicata nel suo Slow Pilgrim. The Collected Poems. Scordare la storia del buon ladrone, non è un simbolo della nostra dimenticanza di riconoscerci intessuti nella sua stessa storia? Ci fa tanta paura tanta tenerezza? Ma non vogliamo forse che anche la nostra storia abbia un finale analogo, un happy ending davvero tale? «Guardati dal dimenticare» (Dt 4, 9).

Sogno un corso di esercizi spirituali sotto la guida del buon ladrone: potrebbe essere un modo di ricuperare la memoria delle meraviglie di Dio, con l’aiuto dell’operaio dell’undicesima ora (e il 59° minuto) di Mt 20, 1-16. Scandalosamente stupendo. Come nel testamento del martire trappista Christian De Chergé, non vorremo dire con lui «che ci sia dato di incontrarci di nuovo, “larrons heureux” (ladroni colmati di gioia, ladroni graziati, ladroni beati) in paradiso»?

Oppure ognuno di noi non vorrebbe pregare con sant’Efrem il Siro: «Ricordati anche di me insieme al ladrone, perché alla sua ombra io possa entrare nel tuo regno» (Inni Pasquali, Sulla Crocifissione vi, 20)?

di Guglielmo Spirito

L’accordo tra scienza e fede in Efrem il Siro

cq5dam.thumbnail.cropped.500.281.jpeg

Una cetra va suonata, e le sue dolci note sanno raccontare verità nascoste. Efrem il Siro si definisce la “cetra di Dio” ed è conosciuto come “l’arpa dello Spirito”. Cantore della lode divina, teologo-poeta, fu aperto ai segni dei “due libri” con cui Dio si rivela al mondo.

Galileo Galilei, come è noto, ebbe a parlare dei “due libri” il 21 dicembre 1613: «La Scrittura sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice degli ordini di Dio, procedono di pari dal Verbo divino» (Lettera a Benedetto Castelli).

Pochissimi sanno che di quei due libri aveva già parlato anche Efrem 1.300 anni prima. Efrem è infatti piuttosto sconosciuto. Eppure fu importante nella Chiesa antica perché impegnato nelle questioni del suo tempo, pur trovandosi in una zona marginale e martoriata. Visse in quella parte orientale dell’impero romano che stava sul confine con i persiani sasanidi, con cui Roma era in guerra da tempo, e che a metà iv secolo si sarebbe risolta con una cessione del territorio agli invasori dell’est. Efrem — profondamente legato alla sua città di Nisibi, poi esiliato a Edessa — visse per una settantina d’anni, proprio in pieno iv secolo.

A Nisibi, come nelle altre province dei dintorni, la fede in Gesù vantava una lunga storia: era penetrata fin dal i secolo grazie a credenti giudaico-cristiani, che parlavano il siriaco, un dialetto di origine semitica, che si riconnetteva più da vicino ai codici comunicativi della Bibbia. Efrem parlava e scriveva in questa lingua, pur conoscendo il greco.

La zona tuttavia era un “porto di mare”, un lembo di passaggio, in tutti i sensi: oltre che pagani e giudei, vi vivevano cristiani appartenenti a diversi gruppi ereticali in contrasto gli uni con gli altri, ciascuno con la propria fede, diversa da quella ufficiale (che in quegli anni viveva le grandi discussioni sulla Trinità). Per questo motivo la Chiesa siriaca non godeva di una buona reputazione, etichettata come instabile e periferica. Efrem decise di riscattare la sua comunità.

Volle impegnarsi in prima persona nella sua città, immergendosi nella vita ecclesiale e accettando dal vescovo il ministero di diacono, con l’incarico di insegnare nelle assemblee dei fratelli. Mise da parte ogni riferimento troppo complicato per le orecchie del popolo che lo ascoltava, e non cedette ai giochi terminologici della filosofia del suo tempo, che volevano spiegare la Trinità ricorrendo a concetti complessi e incapaci di unire gli animi, anzi dividendoli ulteriormente.

Scrisse e predicò preferendo la poesia alla prosa, utilizzando immagini quotidiane, per raccontare verità supreme, come la cetra che suona cose profonde e complesse intrecciando cinque semplici corde.

Perché per Efrem il mistero di Dio non si può descrivere e spiegare, lo si deve invece cantare, deve essere oggetto di lode, può essere solamente intuito grazie alle immagini che il libro della natura e il libro delle Scritture sanno offrire: «Dovunque tu guardi, il simbolo [di Dio] è lì; dovunque tu leggi, tu trovi i suoi tipi. Poiché in lui tutte le creature sono state create e ha contrassegnato tutti i suoi possessi con i suoi segni, quando ha creato il mondo» (Inno sulla verginità 20, 12).

Efrem ritiene che Dio possa essere conosciuto tramite i “simboli” (le immagini offerte dallo sguardo sulla natura) e tramite i “tipi” (le immagini custodite dalla lettura della Bibbia). Questo intreccio di immagini, come una fitta vegetazione in una foresta, è capace di descrivere in qualche modo l’essenza della Trinità.

L’Inno della fede n.73 è capace da farci assaggiare l’esperienza di Efrem, con le sue stesse parole. Ne leggiamo una parte.

Ecco le parabole: sole e Padre, splendore e Figlio, calore e Spirito Santo, e mentre questo [il sole] è uno, la Trinità appare in esso. Distinto è il sole dal suo raggio eppure con esso è mescolato; poiché anche il suo raggio è sole anch’esso. Nessuno dichiara poi due soli, sebbene il suo raggio sia sole anch’esso. Non sono mischiati e neppure confusi, essi che sono distinti e mescolati, legati e liberi. Una grande meraviglia! Distingui per me il sole dal suo raggio e il calore da ambedue, se ne sei capace.

di Luca Girello – osservatoreromano.va

San Giovanni Apostolo ed evangelista 27 dicembre. Patrono Titolare della Parrocchia (in Santo Stefano e San Zenone)

Risultati immagini per san giovanni evangelista icona

Betsaida Iulia, I secolo – Efeso, 104 ca.

L’autore del quarto Vangelo e dell’Apocalisse, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo maggiore, venne considerato dal Sinedrio un «incolto». In realtà i suoi scritti sono una vetta della teologia cristiana. La sua propensione più alla contemplazione che all’azione non deve farlo credere, però, una figura “eterea”. Si pensi al soprannome con cui Gesù – di cui fu discepolo tra i Dodici – chiamò lui e il fratello: «figli del tuono». Lui si definisce semplicemente «il discepolo che Gesù amava». Assistette alla Passione con Maria. E con lei, dice la tradizione, visse a Efeso. Qui morì tra fine del I e inizio del II secolo, dopo l’esilio a Patmos. Per Paolo era una «colonna» della Chiesa, con Pietro e Giacomo.

Patronato: Scrittori, Editori, Teologi

Etimologia: Giovanni = il Signore è benefico, dono del Signore, dall’ebraico

Emblema: Aquila, Calderone d’olio bollente, Coppa

Martirologio Romano: Festa di san Giovanni, Apostolo ed Evangelista, che, figlio di Zebedeo, fu insieme al fratello Giacomo e a Pietro testimone della trasfigurazione e della passione del Signore, dal quale ricevette stando ai piedi della croce Maria come madre. Nel Vangelo e in altri scritti si dimostra teologo, che, ritenuto degno di contemplare la gloria del Verbo incarnato, annunciò ciò che vide con i propri occhi.

in santiebeati.it

Oggi la Chiesa Cattolica commemora san Giovanni Apostolo. Forse non con tutta la solennità che questa colossale colonna portante del Corpo mistico di Cristo meriterebbe. E cerco di dimostrare quanto appena affermato.
Non occorre essere teologi o santi per conoscere chi è san Giovanni Apostolo ed Evangelista. Tutti sappiamo chi è. Ma siamo certi di aver profondamente colto l’immenso e quasi insuperabile ruolo che la Provvidenza ha destinato a questo giovanetto – e poi a questo venerando centenario – all’interno dell’umanità tutta?
Eccetto la Madre di Dio, e forse san Giuseppe, chi può dire di aver avuto un ruolo più importante nell’economia della salvezza dell’umanità? Stiamo esagerando? Proviamo a fare qualche veloce riflessione a riguardo.
Al di là del fatto che il giovanissimo fratello di san Giacomo Maggiore apostolo era già discepolo del Battista ancor prima dell’inizio dell’attività pubblica di Nostro Signore, ciò che occorre sottolineare è l’unicità del suo destino umano, fissando schematicamente l’attenzione su alcune sue eccezionali quanto uniche prerogative.
Anzitutto è un Apostolo, privilegio assoluto fra tutti gli uomini di tutti i tempi e luoghi che condivide evidentemente con altri undici uomini.
Nel collegio apostolico però egli è il più giovane di tutti. Di per sé, tale elemento potrebbe non avere particolare significato, ma occorre tener presente che il fatto presuppone con morale certezza (e del resto ciò è stato da sempre insegnato dalla tradizione ecclesiastica) la sua purezza al momento della conoscenza con Cristo, e quindi di conseguenza la sua purezza interiore ed esteriore mantenuta per tutta la vita. È l’apostolo della purezza.
Non per niente, è l’“apostolo che Gesù amava”, come egli stesso ripetutamente ci dice nel suo Vangelo. Tale specifico amore di Cristo per lui fa da contraltare all’amore per la peccatrice redenta. A parte Maria Vergine, Maria Maddalena e Giovanni sono le persone che Nostro Signore ha più amato al mondo, la donna che da corrotta diviene pura con una vita di amore e penitenza, e il giovane che mai perdette la sua purezza vivendo nel pieno amore di Cristo.
Tali privilegi meritarono loro di essere sotto la Croce. Giovanni è l’unico apostolo che non abbandona Gesù.
Inoltre, egli aveva già ricevuto un privilegio ineguagliabile: durante l’ultima cena, aveva potuto appoggiare la sua testa sul petto del Salvatore del mondo, ovvero sul Sacro Cuore! Come vuole un’antica tradizione, fu in quel momento che il Logos trasmise il Vangelo e l’Apocalisse all’ancor giovanissimo apostolo.
Tale speciale amore di Cristo per lui è confermato due giorni dopo, all’alba, quando per primo arriva al Sepolcro vuoto. Certo, per rispetto all’autorità di Pietro si ferma e lascia passare il suo capo terreno. Ma il primo (a parte Maria Maddalena) uomo a credere e correre è appunto il giovinetto puro Giovanni.
Giovanni sotto la Croce rappresenta l’umanità tutta, possiamo dire “incarna” l’intera umanità assente. Da quel momento, il numero indefinito di uomini che fino alla fine del mondo, al momento della Consacrazione durante la santa Messa o nelle loro meditazioni, si immaginano sul Calvario, non fanno altro che “prendere il posto” dell’unico uomo che veramente v’era, Giovanni.
Sotto la Croce, riceve un altro incommensurabile premio dal Signore, forse il più grande di tutti: diviene “figlio adottivo” di Maria Santissima, e in tal modo ancora una volta incarna in sé l’umanità intera.
Ma il privilegio incommensurabile non finisce ancora: Gesù gli ordina di ospitare in casa sua Madre. In qualche modo, diviene una figurazione di Gesù stesso, e per anni ogni mattina ha il privilegio di poter dire Messa alla presenza fisica dell’ancor vivente Madre di Dio. Qualcuno può immaginarsi “cosa” c’era in quella stanza durante la Messa celebrata da Giovanni alla presenza della Regina degli Angeli?
Giovanni non è solo apostolo, ma è anche evangelista.
Egli condivide questo privilegio con altri tre uomini, come sappiamo, ma il suo Vangelo non è “sinottico”, è il Vangelo del Logos. È il Vangelo dell’“aquila”, che ha visto e compreso, magari in un istante in cui ha posato il suo capo sul Sacro Cuore, ciò che nessun altro uomo aveva potuto mai vedere e comprendere.
Giovanni scrive inoltre una Lettera che è rimasta per sempre nella Rivelazione, privilegio che condivide con altri quattro.
Ma la lettera di Giovanni è per antonomasia la lettera della Carità divina. Egli non è solo l’evangelista del Logos, ma anche il testimone dell’Amore infinito di Dio, che “è amore”.
Giovanni è l’unico degli apostoli che, pur subendo il martirio, non muore. Come spiegare questo ulteriore incredibile privilegio se non tramite la sua purezza e l’amore che Cristo ha sempre provato per lui?
Giovanni, accecato e spedito in esilio, vede ciò che nessun altro uomo al mondo ha mai potuto vedere: vede la fine dei tempi, la fine della storia, il predominio momentaneo del male e quindi il trionfo eterno del Bene, di Cristo sul mondo e sul suo disperato principe. Giovanni è l’autore dell’Apocalisse.
E con la scrittura dell’Apocalisse, Giovanni, morendo, ha il privilegio ultimo e di una grandezza indefinibile: egli chiude per sempre la Rivelazione divina agli uomini. Poggiando il suo stilo dopo aver scritto l’ultima parola dell’Apocalisse, Giovanni ha simbolicamente chiuso la voce diretta dello Spirito Santo agli uomini. D’ora in poi, Dio parlerà tramite la Chiesa e lo farà fino all’Apocalisse, quando, come Giovanni ci ha detto, verrà in trionfo a chiudere la storia e a giudicare i vivi e i morti.
Chi scrive non ha né la competenza teologica né la capacità letteraria di esprimere nemmeno un’oncia del peso incommensurabile di tutto quanto ha voluto affermare. Ma lo offre, nella sua devastante pochezza, al Signore per tramite dell’uomo che Egli amò più di ogni altro, e al quale concesse i più inarrivabili privilegi.
Preghiamo san Giovanni apostolo ed evangelista di guidarci ogni giorno nella milizia al servizio di Cristo e per la strada in salita della Carità e del Logos, ciò che ci rende cristiani e figli dell’unica civiltà della storia fondata appunto sulla Carità divina e sul Logos incarnato.

Autore: Massimo Viglione


Il più giovane e il più longevo degli Apostoli; il discepolo più presente nei grandi avvenimenti della vita di Gesù; autore del quarto Vangelo, opera essenzialmente dottrinale e dell’Apocalisse, unico libro profetico del Nuovo Testamento.
Giovanni era originario della Galilea, di una zona sulle rive del lago di Tiberiade (forse Betsaida Iulia), figlio di Zebedeo e di Salome, fratello di Giacomo il Maggiore; la madre era nel gruppo di donne che seguivano ed assistevano Gesù salendo fino al Calvario, forse era cugina della Madonna; il padre aveva una piccola impresa di pesca sul lago anche con dipendenti.
Pur essendo benestante e con conoscenze nelle alte sfere sacerdotali, non era mai stato alla scuola dei rabbini e quindi era considerato come ‘illetterato e popolano’, tale che qualche studioso ha avanzato l’ipotesi che lui abbia solo dettato le sue opere, scritte da un suo discepolo.
Giovanni è da considerarsi in ordine temporale come il primo degli apostoli conosciuto da Gesù, come è l’ultimo degli Apostoli viventi, con cui si conclude la missione apostolica tesa ad illuminare la Rivelazione.
Infatti egli era già discepolo di s. Giovanni Battista, quando questi additò a lui ed Andrea Gesù che passava, dicendo “Ecco l’Agnello di Dio” e i due discepoli udito ciò presero a seguire Gesù, il quale accortosi di loro domandò: “Che cercate?” e loro risposero: “Rabbi dove abiti?” e Gesù li invitò a seguirlo fino al suo alloggio, dove si fermarono per quel giorno; “erano le quattro del pomeriggio”, specifica lui stesso, a conferma della forte impressione riportata da quell’incontro.
In seguito si unì agli altri apostoli, quando Gesù passando sulla riva del lago, secondo il Vangelo di Matteo, chiamò lui e il fratello Giacomo intenti a rammendare le reti, a seguirlo ed essi “subito, lasciata la barca e il padre loro, lo seguirono”.
Da allora ebbe uno speciale posto nel collegio apostolico, era il più giovane ma nell’elenco è sempre nominato fra i primi quattro, fu prediletto da Pietro, forse suo compaesano, ma soprattutto da Gesù al punto che Giovanni nel Vangelo chiama se stesso “il discepolo che Gesù amava”.
Fra i discepoli di Gesù fu infatti tra gli intimi con Pietro e il fratello Giacomo, che accompagnarono il Maestro nelle occasioni più importanti, come quando risuscitò la figlia di Giairo, nella Trasfigurazione sul Monte Tabor, nell’agonia del Getsemani.
Con Pietro si recò a preparare la cena pasquale e in questa ultima cena a Gerusalemme ebbe un posto d’onore alla destra di Gesù, e dietro richiesta di Pietro, Giovanni appoggiando con gesto di consolazione e affetto la testa sul petto di Gesù, gli chiese il nome del traditore fra loro.
Tale scena di alta drammaticità, è stata nei secoli raffigurata nell’”Ultima Cena” di tanti celebri artisti. Dopo essere scappato con tutti gli altri, quando Gesù fu catturato, lo seguì con Pietro durante il processo e unico tra gli Apostoli si trovò ai piedi della croce accanto a Maria, della quale si prese cura, avendola Gesù affidatagliela dalla croce.
Fu insieme a Pietro, il primo a ricevere l’annunzio del sepolcro vuoto da parte della Maddalena e con Pietro corse al sepolcro giungendovi per primo perché più giovane, ma per rispetto a Pietro non entrò, fermandosi all’ingresso; entrato dopo di lui poté vedere per terra i panni in cui era avvolto Gesù, la vista di ciò gli illuminò la mente e credette nella Resurrezione forse anche prima di Pietro, che se ne tornava meravigliato dell’accaduto.
Giovanni fu presente alle successive apparizioni di Gesù agli apostoli riuniti e il primo a riconoscerlo quando avvenne la pesca miracolosa sul lago di Tiberiade; assistette al conferimento del primato a Pietro; insieme ad altri apostoli ricevette da Gesù la solenne missione apostolica e la promessa dello Spirito Santo, che ricevette nella Pentecoste insieme agli altri e Maria.
Seguì quasi sempre Pietro nel suo apostolato, era con lui quando operò il primo clamoroso miracolo della guarigione dello storpio alla porta del tempio chiamata “Bella”; insieme a Pietro fu più volte arrestato dal Sinedrio a causa della loro predicazione, fu flagellato insieme al gruppo degli arrestati.
Con Pietro, narrano gli Atti degli Apostoli, fu inviato in Samaria a consolidare la fede già diffusa da Filippo.
San Paolo verso l’anno 53, lo qualificò insieme a Pietro e Giacomo il Maggiore come ‘colonne’ della nascente Chiesa.
Il fratello Giacomo fu decapitato verso il 42 da Erode Agrippa I, protomartire fra gli Apostoli; Giovanni, secondo antiche tradizioni, lasciata definitivamente Gerusalemme (nel 57 già non c’era più) prese a diffondere il cristianesimo nell’Asia Minore, reggendo la Chiesa di Efeso e altre comunità della regione.
Anche Giovanni adempì la profezia di Gesù di imitarlo nella passione; anche se non subì il martirio come il fratello e gli altri apostoli, dovette patire la persecuzione di Domiziano (51-96) la seconda contro i cristiani, che negli ultimi anni del suo impero, 95 ca., conosciuta la fama dell’apostolo, lo convocò a Roma e dopo averlo fatto rasare i capelli in segno di scherno, lo fece immergere in una caldaia di olio bollente davanti alla porta Latina; ma Giovanni ne uscì incolume.
Ancora oggi un tempietto ottagonale disegnato dal Bramante e completato dal Borromini, ricorda il leggendario miracolo.
Fu poi esiliato nell’isola di Patmos (arcipelago delle Sporadi a circa 70 km da Efeso) a causa della sua predicazione e della testimonianza di Gesù. Dopo la morte di Domiziano, salì al trono l’imperatore Nerva (96-98) tollerante verso i cristiani; quindi Giovanni poté tornare ad Efeso dove continuò ad esortare i fedeli all’amore fraterno, finché ultracentenario morì verso il 104, cosicché il più giovane degli Apostoli, il vergine perché non si sposò, visse più a lungo di tutti portando con la sua testimonianza, l’insegnamento di Cristo fino ai cristiani del II secolo.
Sulla sua tomba ad Efeso, fu edificata nei secoli V e VI una magnifica basilica. In vita la tradizione e gli antichi scritti gli attribuiscono svariati prodigi, come di essersi salvato senza danno da un avvelenamento e dopo essere stato buttato in mare; ad Efeso risuscitò anche un morto.
Alle riunioni dei suoi discepoli, ormai vecchissimo, veniva trasportato a braccia, ripetendo soltanto “Figlioli, amatevi gli uni gli altri” e a chi gli domandava perché ripeteva sempre la stessa frase, rispose: “ Perché è precetto del Signore, se questo solo si compia, basta”.
Fra tutti gli apostoli e i discepoli, Giovanni fu la figura più luminosa e più completa, dalla sua giovinezza trasse l’ardore nel seguire Gesù e dalla sua longevità la saggezza della sua dottrina e della sua guida apostolica, indicando nella Grazia la base naturale del vivere cristiano.
La sua propensione più alla contemplazione che all’azione, non deve far credere ad una figura fantasiosa e delicata, anzi fu caldo e impetuoso, tanto da essere chiamato insieme al fratello Giacomo ‘figlio del tuono’, ma sempre zelante in tutto.
Teologo altissimo, specie nel mettere in risalto la divinità di Gesù, mistico sublime fu anche storico scrupoloso, sottolineando accuratamente l’umanità di Cristo, raccontando particolari umani che gli altri evangelisti non fanno, come la cacciata dei mercanti dal tempio, il sedersi stanco, il piangere per Lazzaro, la sete sulla croce, il proclamarsi uomo, ecc.
Giovanni è chiamato giustamente l’Evangelista della carità e il teologo della verità e luce, egli poté penetrare la verità, perché si era fatto penetrare dal divino amore.
Il suo Vangelo, il quarto, ebbe a partire dal II secolo la definizione di “Vangelo spirituale” che l’ha accompagnato nei secoli; Origene nel III secolo, per la sua alta qualità teologica lo chiamò ‘il fiore dei Vangeli’.
Gli studiosi affermano che l’opera ebbe una vicenda editoriale svolta in più tappe; essa parte nell’ambiente palestinese, da una tradizione orale legata all’apostolo Giovanni, datata negli anni successivi alla morte di Cristo e prima del 70, esprimendosi in aramaico; poi si ha un edizione del vangelo in greco, destinata all’Asia Minore con centro principale la bella città di Efeso e qui collabora alla stesura un ‘evangelista’, discepolo che raccoglie il messaggio dell’apostolo e lo adatta ai nuovi lettori.
Inizialmente il vangelo si concludeva con il capitolo 20, diviso in due grandi sezioni; dai capitoli 1 a 12 chiamato “Libro dei segni”, cioè dei sette miracoli scelti da Giovanni per illustrare la figura di Gesù, Figlio di Dio e dai capitoli 13 a 20 chiamato “Libro dell’ora”, cioè del momento supremo della sua vita offerta sulla croce, che contiene i mirabili “discorsi di addio” dell’ultima Cena. Alla fine del I secolo comparvero i capitoli finali da 21 a 23, dove si allude anche alla morte dell’apostolo.
All’inizio del Vangelo di Giovanni è posto un prologo con un inno di straordinaria bellezza, divenuto una delle pagine più celebri dell’intera Bibbia e che dal XIII secolo fino all’ultimo Concilio, chiudeva la celebrazione della Messa: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio….”.
L’Apocalisse come già detto è l’unico libro profetico del Nuovo Testamento e conclude il ciclo dei libri sacri e canonici riconosciuti dalla Chiesa, il suo titolo in greco vuol dire ‘Rivelazione’.
Denso di simbolismi, spesso si è creduto che fosse un infausto oracolo sulla fine del mondo, invece è un messaggio concreto di speranza, rivolto alle Chiese in crisi interna e colpite dalla persecuzione di Babilonia o della bestia, cioè la Roma imperiale, affinché ritrovino coraggio nella fede, dimostrandolo con la testimonianza.
È un’opera di grande potenza e suggestione e anche se il linguaggio e i simboli sono del genere ‘apocalittico’, corrente letteraria e teologica molto diffusa nel giudaismo, il libro si autodefinisce ‘profezia’, cioè lettura dell’azione di Dio all’interno della storia.
Colori, animali, sogni, visioni, numeri, segni cosmici, città, costellano il libro e sono gli elementi di questa interpretazione della storia alla luce della fede e della speranza.
Il libro inizia con la scena della corte divina con l’Agnello – Cristo e il libro della storia umana e alla fine dell’opera c’è il duello definitivo tra Bene e Male, cioè tra la Chiesa e la Prostituta (Roma) imperiale, con la rivelazione della Gerusalemme celeste, dove si attende la venuta finale del Cristo Salvatore.
Di Giovanni esistono anche tre ‘Epistole’ scritte probabilmente a Efeso, che hanno lo scopo di sottolineare e difendere presso determinati gruppi di fedeli (o uno solo, con la terza) alcune verità fondamentali, che erano attaccate da dottrine gnostiche.
San Giovanni ha come simbolo l’aquila, perché come si credeva che l’aquila potesse fissare il sole, anche lui nel suo Vangelo fissò la profondità della divinità.
È il patrono della Turchia e dell’Asia Minore, patronato confermato da papa Benedetto XV il 26 ottobre 1914; giacché Gesù gli affidò la Vergine Maria, è considerato patrono delle vergini e delle vedove; per i suoi grandi scritti è patrono dei teologi, scrittori, artisti; per il suo supplizio dell’olio bollente, protegge tutti coloro che sono esposti a bruciature oppure hanno a che fare con l’olio, quindi: proprietari di frantoi, produttori di olio per lampade, armaioli; patrono degli alchimisti, è invocato contro gli avvelenamenti e le intossicazioni alimentari.
Anche i “Quattro Cavalieri dell’Apocalisse” che rappresentano conquista, guerra, fame, morte, sono un suo simbolo. In Oriente il suo culto aveva per centro principale Efeso, dove visse e l’isola di Patmos nel Dodecanneso dove fu esiliato e dove nel secolo XI s. Cristodulo fondò un monastero a lui dedicato, inglobando la grotta dove l’apostolo ricevette le rivelazioni e scrisse l’Apocalisse.
In Occidente il suo culto si diffuse in tutta Europa e templi e chiese sono a lui dedicate un po’ dappertutto, ma la chiesa principale costruita in suo onore è S. Giovanni in Laterano, la cattedrale di Roma.
Inizialmente i grandi santi del primo cristianesimo Stefano, Pietro, Paolo, Giacomo, Giovanni, erano celebrati fra il Natale e la Circoncisione (1° gennaio); poi con lo spostamento in altre date di s. Pietro, s. Paolo e s. Giacomo, rimasero solo s. Stefano il 26 dicembre e s. Giovanni apostolo ed evangelista il 27 dicembre.


Autore: Antonio Borrelli