Buone pratiche. «Grazie a Tobia capiamo e quindi curiamo anche i disabili più fragili»

Il racconto del dottor Stefano Capparucci che ha portato a Roma al San Camillo/Forlanini il metodo che rende possibili gli esami anche per pazienti autistici non collaborativi. In tre anni 680 casi
«Grazie a Tobia capiamo e quindi curiamo anche i disabili più fragili»

Come ad esempio quel ragazzo di 21 anni, affetto da autismo, che si prendeva a pugni in faccia. Problema psichiatrico, aveva diagnosticato qualcuno, e l’avevano “imballato” di farmaci. Un giorno i genitori sentono parlare di Tobia e portano il figlio al San Camillo-Forlanini: «Ci dicono che digrignava i denti, ingoiava bocconi interi. E si picchiava», racconta il dottor Stefano Capparucci: «Gli diamo un sedativo e approfittiamo del “momento magico” per visitarlo in più specialisti. Per il gastroenterologo non ha nulla. L’odontoiatria invece scopre che ha ben 19 radici dei denti spezzati. E quindi diversi nervi scoperti. Gliene estrae subito 9. Dopo pochi giorni aveva smesso di picchiarsi. Lo faceva per scacciare i suoi dolori con un dolore più grande».

Tobia non è un mago, né un taumaturgo. O forse sì. Tobia è l’acronimo di Team operativo bisogni individuali assistenziali, il progetto creato all’ospedale San Camillo-Forlanini dal dottor Capparucci, fisioterapista, che ha realizzato a Roma un progetto di Sanità pubblica innovativo che ha cambiato la vita in meglio a 680 pazienti con gravi disabilità. E sta per decollare in altri dodici ospedali del Lazio.
«In realtà Tobia esiste – dice Capparucci – ed era un mio amico di 40 anni che quando non riusciva ad andare al bagno si colpiva violentemente sugli occhi. Fu il primo. In ospedale chiesi ai colleghi una corsia preferenziale perché quelli come lui non sono capaci di sopportare il minimo dolore o l’attesa». Poi, tre anni fa, va a studiare il modello che a Milano da anni Filippo Ghelma aveva attivato all’ospedale San Paolo.

«Lo chiamano Dama, Disabled advanced medical assistance. Non mi sono inventato niente – minimizza Capparucci – ho solo adattato questa buona pratica al nostro antico ospedale con dieci padiglioni».
Oggi è un protocollo per un rapporto personalizzato col paziente. «Spesso facciamo esami senza sedazione. Stiamo imparando un nuovo alfabeto della comunicazione, le chiavi giuste. Noi sanitari siamo spesso “analfabeti”, se va bene tutti i disabili vengono trattati come bambinoni. Ma nell’autismo ci sono persone ad alto funzionamento, molto più intelligenti di me. Bisogni farsi guidare dai genitori e dai caregiver».

Tobia è un team di quattro medici, senza grandi mezzi, che però compie miracoli grazie a una sinergia di specialisti. «A mani nude e senza bacchette magiche, riusciamo a fare cose apparentemente difficili. Oggi è arrivato un ragazzo di 18 anni che non aveva mai fatto un prelievo del sangue. In un pronto soccorso l’avevano persino legato con un lenzuolo, senza combinare nulla. In mezz’ora, senza sedarlo ma con procedure relazionali, avevamo finito».

Il creatore di Tobia cita una frase di Edoardo Cernuschi, primo presidente della Lehda, Lega per i diritti delle persone con disabilità: «“Una persona con grave disabilità soffre due volte: per il dolore e per l’incapacità di esprimerlo”. Noi oggi – dice – registriamo un sollievo enorme tra i familiari. Tobia è una stampella importante per il “dopo di noi”. Tanti vorrebbero tenere a casa questi figli ma le difficoltà sanitarie li costringono a istituzionalizzarli. E siamo un punto di riferimento anche per tanti istituti. Ora anche alla Regione Lazio hanno aperto gli occhi» e nel 2023 avvierà la formazione del personale per portare Tobia in almeno altri dodici ospedali, uno per ciascuna Asl. «Cresce una rete nazionale Tobia/Dama, assieme a Milano, Mantova, Empoli, Bari. È un bisogno di salute che va garantito ai sensi dell’articolo 32 della Costituzione. Dobbiamo rafforzare questo anello debole della catena del Servizio sanitario».

Non fare esami accorcia la vita a molti disabili. «Uno studio del Regno Unito parla di “morti evitabili”, spesso ci si limita a cure sintomatiche, e poi molti muoiono senza apparente motivo». Capparucci tra sei mesi andrà in pensione: «Ho chiesto, ma non mi fanno rimanere. Ma Tobia è ben strutturato e non si torna indietro. Ho realizzato il mio secondo sogno, vedere che in un ospedale pubblico è possibile cambiare l’attitudine per una relazione umana gentile degli operatori. Che poi è l’approccio che vorremmo tutti».

Avvenire

Libro “La spiritualità nella cura – Dialoghi tra clinica, psicologia e pastorale”

Paglia: la spiritualità nella cura non è un generico sentimento ma prossimità concreta
Presentato il libro del dottor Carlo Alfredo Clerici e di don Tullio Proserpio, cappellano all’Istituto di Tumori di Milano. Nella prefazione firmata dal Papa, l’urgenza di un’adeguata formazione sul campo, al capezzale di chi soffre, “per muoversi in profonda sinergia con l’intera comunità curante”. Per il presidente dell’Accademia per la Vita si tratta di compere una vera “rivoluzione culturale”

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Spiritualità della cura è amare

Antonella Palermo – Città del Vaticano

Esiste la possibilità di un’alleanza tra medicina e spiritualità, in una realtà sanitaria sempre più tecnologica e standardizzata su grandi numeri ed efficienza delle prestazioni? È l’interrogativo centrale su cui si è incentrata nel pomeriggio di ieri, 21 ottobre, la presentazione del libro “La spiritualità nella cura – Dialoghi tra clinica, psicologia e pastorale”, di Carlo Alfredo Clerici, associato di Psicologia clinica dell’Università degli Studi di Milano e Tullio Proserpio, cappellano presso l’Istituto dei Tumori di Milano. A firmarne la prefazione, Papa Francesco.

Il Papa: l’aspetto spirituale della cura è stato trascurato
Francesco elogia la scelta del tema scelto per questo libro, la spiritualità nel momento della malattia, considerandolo “particolarmente delicato e importante”. Sottolinea anche come l’aiuto spirituale – riconosciuto da parte della comunità scientifica importante per il bene di pazienti, familiari, personale – “forse in questi ultimi anni è stato un po’ trascurato”. Il pontefice inoltre rimarca, come evidenziato nel volume, che “occorre un’adeguata preparazione e formazione sul campo, cioè concretamente vicino al letto delle persone ammalate, per essere in grado di muoversi in profonda sinergia con l’intera comunità curante”.

Guardare la condizione umana dalla ‘periferia’ della vita è un’opportunità
Nelle sue parole introduttive al testo, il Papa torna poi a ribadire che la pandemia ha mostrato di dover necessariamente porsi in una prospettiva non settoriale per valutare e rispondere ai profondi bisogni dell’uomo. Non bisogna lasciarsi trascinare, ripete Francesco, da sole logiche economiche. Bisogna assumere “lo sguardo dalla periferia della condizione umana, segnata dalla precarietà dell’esistenza”: è quello che infatti “favorisce la costruzione di quei ponti necessari – dice – a non dimenticare l’umano che ci caratterizza e a individuare sempre nuovi, spesso imprevisti percorsi”. L’auspicio è che si generi una sempre maggiore efficacia nel dialogo tra l’ambito teologico-pastorale e quello clinico-psicologico.

Paglia: prendersi cura vuol dire amare
Aprendo gli interventi di presentazione del libro, monsignor Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ha scandito che prendersi cura vuol dire amare. “L’altro ha diritto ad essere amato. Esiste in ogni religione l’indispensabilità di prendersi cura dell’altro. Spiritualità vuol dire non vivere solo per sé stessi”, ha affermato.

Vatican News

La sfida non è una vita più lunga ma una salute migliore per tutti

L’importanza di politiche sanitarie innovative a beneficio della popolazione mondiale

La sfida non è una vita più lunga ma una salute migliore per tutti

Nel mondo si vive fino a 73 anni, ma tra paesi ricchi e paesi poveri resta un divario di 45 anni Oltre la metà dell’esistenza è però trascorsa in condizioni mediocri. Un piano per intervenire

Nel 1960 un essere umano aveva un’aspettativa media di vita di 54 anni. Con una forbice enorme di differenze tra chi nasceva in contesti segnati da miseria, infezioni e alto tasso di mortalità infantile, e chi godeva di standard “occidentali”. Oggi la vita media di un abitante del nostro pianeta è di 73 anni, 10 in più se quell’abitante nasce in Italia. La forbice si è ridotta ma resta impressionante constatare che, tra la più bassa e alta aspettativa di vita, esiste tuttora un divario di 45 anni. E se risulta innegabile il cammino compiuto per ridurre le morti pediatriche, così come la denutrizione o le ma-lattie infettive – basti pensare alla risposta record della sanità mondiale nel creare vaccini efficaci contro la pandemia da Sars-CoV-2 – fa riflettere invece la mancata diminuzione, da 50 anni a questa parte, della percentuale di vite trascorse in cattiva salute. Lo rivela un’analisi sviluppata dal McKinsey Health Institute (Mhi), organismo della multinazionale di consulenza strategica statunitense, secondo cui, in media, le persone trascorrono circa il 50% della vita in condizioni di salute ‘mediocri’ (cioè «soffrendo di una o più patologie acute o croniche, che hanno un impatto sulla qualità o la durata dell’esistenza», ma senza una rilevante compromissione delle abitudini quotidiane), e il 12% in ‘cattive’ condizioni. In quest’ultimo caso gli interessati accusano una o più problematiche acute o croniche che richiedono un’assistenza costante o almeno frequente. Sono situazioni che hanno un impatto significativo sulle attività quotidiane, sulla qualità e l’aspettativa di vita. M a proprio la risposta messa in campo contro il Covid-19, rileva il Mhi, dimostra che «quando le risorse e la motivazione si fondono, sono possibili scoperte scientifiche e cambiamenti comportamentali su larga scala in periodi di tempo molto brevi».

Una delle trasformazioni epocali è alle porte perché il Mhi crede che nel prossimo decennio «l’umanità potrebbe guadagnare fino a 45 miliardi di anni in più di vita di qualità superiore», 6 anni in media a persona, con punte di gran lunga maggiori in alcuni Paesi e popolazioni. Non proprio un dato trascurabile in un periodo in cui l’Eurostat, a prescindere dalla qualità dei nostri giorni, calcola in calo la speranza di vita nel 2021 (secondo anno di pandemia), in quasi metà degli Stati dell’Unione Europea, stimando i risultati peggiori in Slovacchia e Bulgaria (-2,2 anni rispetto al 2020), seguite da Lettonia (-2,1) ed Estonia (-2). Mentre l’Italia registra una risalita di 0,6 anni, dopo la flessione che l’anno prima aveva visto scendere l’aspettativa di vita dagli 83,6 anni del 2019 agli 82,3 del 2020. M a torniamo al rapporto Mhi. L’obiettivo del “guadagno”, a breve, in media, di 6 anni di esistenza di migliore qualità, è ambizioso ma raggiungibile per McKinsey, le cui stime assicurano che il 45% del volume globale delle ma-lattie potrebbe essere affrontato applicando trattamenti già consolidati nella pratica clinica delle nazioni più avanzate. Insomma, tra le sei trasformazioni sostanziali suggerite da Mhi, c’è anche quella di applicare strategie e interventi collaudati in modo equo in tutti i Paesi, «riducendo così il carico globale delle malattie (cioè l’impatto negativo che esse hanno su una popo- lazione in termini di cattivo stato di salute, rischio di decesso, costo delle cure o altri indici, ndr) di circa il 40%». Un esempio concreto? «L’86% del carico di malattia per la diarrea e le infezioni intestinali potrebbe essere ridotto entro il 2040». Quella che McKinsey propone è una mobilitazione pubblica, privata e sociale che, in una concezione «moderna » di salute, abbracci «l’aspetto fisico, mentale, sociale e spirituale». E le altre cinque trasformazioni? Per la società americana occorrono maggiori investimenti sulla «prevenzione e sulla promozione di uno stato di salute ottimale», che includono anche aree come educazione, nutrizione, ricerca, prodotti di consumo, servizi finanziari e tecnologia. La spesa sanitaria è infatti da considerare «un investimento, non un costo», e la prevenzione, nei Paesi Ocse, vale solo il 2,8% del budget sanitario. Terzo: migliorare «la misurazione della salute», perché oggi ci sono ancora «enormi lacune nei dati comparativi» e nella «trasparenza». Quarto punto: bisogna innovare di più, più velocemente e ovunque: modelli di business, politiche governative, farmaci, standard clinici, applicazioni mobili, prodotti medici, fino ai processi e alle nuove applicazioni tecnologiche, perché «tecnologia, dati e analisi» fanno progredire la salute. Quinto punto: per Mhi, le istituzioni al di fuori del tradizionale settore sanitario dovrebbero perseguire «opportunità di business legate alla salute, anche abilitando e responsabilizzando meglio i propri dipendenti, definendo e onorando gli impegni ambientali, sociali e di governance relativi alla salute». D’altra parte i datori di lavoro influiscono sulla salute dei dipendenti e la salute dei dipendenti influisce sulle loro prestazioni. Anche dal punto di vista economico si tratta di un tema di enorme rilevanza, visto che la cattiva salute dei dipendenti «costa circa 3,5 trilioni di dollari all’anno». Nel report McKinsey viene pure calcolato che le aziende sanitarie rappresentano il 10-15% dello S& P 500 (il più importante indice azionario nordamericano), e un altro 40-45% è costituito da imprese che offrono prodotti o servizi legati alla salute. U ltimo punto, ma non in ordine gerarchico: è necessario responsabilizzare gli individui nella gestione della propria salute. I comportamenti individuali «sono i più grandi motori della salute» già in molti Paesi. Stiamo assistendo, spiega il report, a un’esplosione di soluzioni digitali in questo ambito. Un esempio significativo arriva dalla Cina, dove 200 milioni di consumatori hanno utilizzato la piattaforma mobile Good Doctor di Ping An per ricevere consulti, e gestire appuntamenti. Governi, fornitori e innovatori, conclude Mhi, hanno l’opportunità di mettere in sinergia dati e tecnologie per aiutare le persone a migliorare il controllo della salute. Da subito. Perché prevenire resta la migliore cura.

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Un’analisi del McKinsey Health Institute indica la necessità e la possibilità di investimenti diffusi per aumentare di 6 anni in media il tempo vissuto in buona salute Le misure: più prevenzione, trasparenza dei dati sanitari, innovazione, responsabilità personale, attenzione nei luoghi di lavoro

Salute. Vaiolo delle scimmie, 545 casi: contagiosità, sintomi, categorie a rischio

L’identikit del malato: ha un’età media di 38 anni ed è quasi sempre di sesso maschile. Generalmente la malattia non ha un decorso grave
Vaiolo delle scimmie, 545 casi: contagiosità, sintomi, categorie a rischio

Ansa

Fonte: Avvenire

Sale il numero di casi accertati di vaiolo delle scimmie in Italia. Sono 545 i casi confermati dal ministero della Salute (dati aggiornati ad oggi) con un incremento di 40 contagi rispetto alla precedente rilevazione del 2 agosto. Collegati a viaggi all’estero sono 159 casi. Si conferma l’identikit del malato, che ha un’età mediana di 38 anni ed è qausi sempre di sesso maschile: sui 545 casi registrati, solo 5 sono donne. La regione con più contagi è la Lombardia (250), seguita da Lazio (109), Emilia Romagna (62), Veneto (37) Piemonte e Toscana (entrambi 21).

Che malattia è?

Il vaiolo delle scimmie è una malattia infettiva già conosciuta e diffusa in Africa, e piuttosto rara negli esseri umani, causata dall’infezione da monkeypox virus, “cugino” del vaiolo umano ma molto diverso per diffusività e gravità. Nonostante la malattia riguardi prevalentemente gli animali, poiché il virus ha la capacità di infettare specie differenti il monkeypox è arrivato all’uomo: il primo caso è stato registrato nel 1970 nella Repubblica Democratica del Congo.

Come si trasmette?

A differenza del Covid non è sufficiente aver condiviso l’ambiente, serve un contatto stretto. Quindi il virus può essere trasmesso per via sessuale, baciandosi, attraverso lesioni contagiose o per contatto con indumenti e biancheria utilizzati da una persona infetta.

 

Quali sono i tempi del contagio?

La contagiosità non inizia da quando la ​persona ha contratto il virus ma da quando ha iniziato a manifestare i sintomi. Il periodo di incubazione è generalmente compreso tra i 5 e i 21 giorni

Quali sono i sintomi della malattia?

I sintomi sono febbre, mal di testa, dolori muscolari, mal di schiena, brividi e linfonodi ingrossati. Caratteristica della malattia è però una eruzione cutanea che dal viso si diffonde alle altre parti del corpo, principalmente mani e piedi. L’eruzione tende poi a modificarsi nel corso della malattia fino a formare una crosta che poi cade.

Si può morire?

Il vaiolo delle scimmie ha generalmente conseguenze lievi, con la maggior parte dei pazienti che guarisce entro poche settimane senza trattamento. Tuttavia l’infezione può avere un decorso più grave. In Africa esistono due ceppi del virus: quello del Congo letale in una persona ogni 10 e quello dell’Africa occidentale che uccide in un caso ogni 100 riportati. Gli esperti sottolineano tuttavia che nei Paesi occidentali il tasso di mortalità risulterebbe inferiore, per via dell’assistenza sanitaria e migliore dieta nutrizionale.

Quali sono le categorie più a rischio?

Secondo i dati documentati dall’Oms il 98% dei contagi riguarda uomini adulti e omosessuali. Per ridurre il rischio di contagio l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), come si legge sul suo sito, reputa necessario “aumentare la consapevolezza sulla trasmissione del virus del vaiolo delle scimmie, sulle relative misure di prevenzione e protezione e sui sintomi e segni del vaiolo delle scimmie tra le comunità che sono attualmente colpite altrove in questa epidemia multi-paese (come ad esempio, ma non esclusivamente, gay, bisessuali e altri uomini che hanno rapporti sessuali con uomini (Men who have sex with men-MSM, individui con più partner sessuali, ndr) nonché tra altri gruppi di popolazione che potrebbero essere a rischio (ad esempio prostitute, persone transgender)”. Il vaiolo delle scimmie può colpire, in rari casi, anche donne e bambini.

Esiste una cura specifica?

In genere non serve ed è sufficiente una terapia a base di antiepiretici. Nei casi più gravi possono essere somministrati antivirali e sangue raccolto da individui vaccinati contro il vaiolo.

Il vaccino contro il vaiolo previene la malattia?

Le cure contro il vaiolo sembrano funzionare anche nelle persone che hanno contratto il vaiolo delle scimmie. In particolare il vaccino Jynneos, autorizzato negli Stati Uniti ma non in Gran Bretagna, parrebbe efficace nel 85% dei casi nel prevenire il vaiolo delle scimmie.

Dobbiamo preoccuparci?

Gli esperti sottolineano che la velocità di circolazione del virus non è minimamente paragonabile a quella del Covid.