Il vino del Papa “salvato” dal prete contadino

Un romanzo di recente pubblicazione ambientato nell’Astigiano, nei luoghi da cui partirono il nonno e il padre di Papa Francesco, racconta la storia del Ruché e di don Giacomo Cauda il sacerdote vignaiolo che ne rilanciò la produzione. Sono in molti, nei sette comuni della denominazione d’origine, ad essere riconoscenti nei suoi confronti. Oggi la produzione tocca le 800mila bottiglie all’anno
Michele Luppi
Papa Francesco non ha ancora messo piede, da pontefice, nella provincia di Asti, da cui nel 1929 partirono il nonno e il padre alla volta dell’Argentina, e già la fantasia degli scrittori ha partorito – su quella visita – un romanzo di recente pubblicazione dal titolo “Il vino del Papa – l’avventurosa storia del Ruché e il mistero della bottiglia scomparsa”. Un volume (edito da Wingsbert House, 240 pg, 14 euro) scritto a sei mani da tre giovani giornalisti: Ilario Lombardo, Francesco Moscatelli e Giacomo Fasola.

Il Piemonte aspetta Papa Francesco.
 Il libro prende le mosse dalla realtà per tramutarsi in un giallo di finzione in cui vero e verosimile corrono fianco a fianco dalla prima all’ultima pagina. A partire dalla visita stessa di Papa Francesco che ha annunciato di raggiungere Torino in occasione della prossima ostensione della Sindone prevista dal 19 aprile al 24 giugno 2015. Il programma del viaggio non è ancora stato comunicato dalla Santa Sede, ma – da più parti – si racconta che il Papa potrebbe approfittare della sua presenza in Piemonte per far visita alla terra da cui partì la famiglia Bergoglio – padre compreso – alla volta dell’America Latina. Il nonno di Papa Francesco, Giovanni Angelo, nacque nel 1884 al Bricco Marmorito in una cascina che oggi fa parte della frazione di Portacomaro Stazione (Asti), al confine con il comune di Portacomaro e distante pochi chilometri da Castagnole Monferrato, uno dei sette comuni in cui è possibile produrre il Ruché, vino oggi considerato fiore all’occhiello della viticoltura astigiana. “Lo stesso nonno di Papa Francesco prima di lasciare Asti – racconta al Sir Giacomo Fasola, uno dei autori – produceva vino con le viti del suo terreno. È da queste storie di vita contadina e dall’imminente visita del Papa che è nata l’idea di ambientare qui un romanzo in cui ripercorrere l’avvincente storia del Ruché”.Dalla fantasia alla realtà. La storia vede protagonista Manuel Favaro, un giornalista argentino di stanza a Roma, che arriva ad Asti una settimana prima della visita del Papa, mentre i produttori si preparano alla gara che sceglierà la bottiglia da servire sulla tavola di Bergoglio. Qui si imbatte nel Ruché, un vino dalle origini misteriose, il rosso della festa di Castagnole Monferrato, scomparso negli anni ’30 e poi recuperato negli anni ’60 da un prete-contadino. “Qui la fantasia torna a mischiarsi alla realtà – racconta Fasola – perché la figura del sacerdote produttore di vino è reale: si tratta di don Giacomo Cauda che, per primo, ricominciò a coltivare questo vitigno autoctono della zona, in alcuni terreni di proprietà della curia, rilanciandone la produzione”. Un vino – oggi prodotto in 800mila bottiglie all’anno – che ha ottenuto nel 2010 il riconoscimento Docg (Denominazione d’Origine Controllata e Garantita) e viene esportato in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al Giappone.

L’eredità del sacerdote vignaiolo. “Proprio per il suo ruolo decisivo – spiega Fasola -, nel libro abbiamo deciso di mantenere il vero nome del sacerdote anche se poi, sulle sue imprese, ci siamo permessi di ricamare non poco. Anche perché quando si parla di storie del passato, specialmente nel mondo legato al mondo contadino, realtà e leggenda si mescolano fino a confondersi: sono molte le storie che si raccontano su di lui e ancora oggi a Castagnole Monferrato esiste la ‘Vigna del Parroco’, la vecchia tenuta appartenuta al sacerdote dove, un produttore locale che ne ha raccolto l’eredità, continua a produrre il Ruché”. Ma don Cauda non ha lasciato solo una vigna in perfetta salute. Sono in molti, nei sette comuni della denominazione d’origine, ad essere riconoscenti nei confronti del sacerdote vignaiolo. “La caparbietà e la passione del vicario (modo con cui era comunemente chiamato don Cauda) – racconta Luca Ferraris, presidente del Consorzio di Tutela del Ruché – non ha portato solo al rilancio di questo vitigno e alla rinascita delle aziende vinicole della zona, ma ha innescato la nascita di un’intera industria legata al turismo enogastronomico di cui oggi beneficia l’intero territorio”.

agensir