Libri: serve educare alla cultura del rischio

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L’Osservatore Romano

Si parla e si scrive di ambiente, ma si stenta a considerarlo come il luogo in cui hanno da sempre sede quegli eventi sismici da cui ha avuto origine la vita geologica del nostro pianeta: un “paesaggio sotterraneo” che non percepiamo direttamente, se non quando una forte scossa smuove la terra sotto i nostri piedi e ci fa entrare direttamente nella turbolenza di queste dinamiche. Solo allora, puntualmente, gli assestamenti geofisici assumono i contorni della cronaca: una cronaca drammatica, non di rado annunciata, che si arrende alla conta delle perdite, umane e non solo. E, questo, è il triste racconto che giunge, troppo spesso, dalle più lontane, come dalle più prossime, regioni del mondo. «In queste occasioni il disastro sismico — spiega la storica e sismologa Emanuela Guidoboni, (autrice di Storia Culturale del Terremoto, Collana Rubettino) — svela all’improvviso il rapporto fra società umane e natura, un nodo ancora non risolto, che riguarda anche l’intera complessità e varietà, biotica e non, di ciò che definiamo ambiente». Il rapporto uomo–natura, centrale rispetto alla frequenza di eventi naturali estremi, non è tema squisitamente filosofico o da salotti accademici: al contrario, meriterebbe spazi di approfondimento nei dibattiti pubblici, nelle sedi istituzionali e nelle scuole, così da sensibilizzare le nostre comunità, profondamente e direttamente coinvolte da questa problematica. «Proprio la relazione, distorta e miope, tra uomo e natura, riguardo ai caratteri dell’habitat in cui viviamo, ha prodotto nei secoli una drammatica sequenza di sciagure, perché se il mondo abitato è vulnerabile e impreparato, gli effetti sono distruttivi in termini di perdite di vite umane, beni ed interi centri abitati. È una considerazione che vale particolarmente per i terremoti», specifica Guidoboni. Questi, infatti, manifestazione necessaria della vita della Terra, si verificheranno in futuro, come in tutte le epoche passate: eppure, l’incapacità di prevedere e prevenire determina ogni volta l’effetto sorpresa, per cui continuiamo a percepire i terremoti come eventi inattesi. Abbiamo accettato l’impostazione secondo cui la prevenzione inizi solo a disastro avvenuto, nonostante una straordinaria storia sismica testimoni che i terremoti sono stabilmente presenti e connaturati all’ambiente terrestre: l’Italia, ad esempio, è toccata da un evento sismico mediamente ogni quattro. Solo considerando i 160 anni, dall’unità d’Italia (1861) ad oggi, si sono ripetuti 36 gravi episodi sismici, oltre a 86 terremoti di impatto poco inferiore, nel corso dei quali oltre 1.560 comuni, tra cui 20 capoluogo, hanno subito distruzioni gravissime. Dall’inizio del Novecento abbiamo avuto più di 154.000 morti. Numeri impressionanti che si ritrovano in ambito idrogeologico: nell’ultimo secolo il territorio nazionale, interessato per il 7 per cento da frane, è stato sommerso da 1.900 alluvioni. Chiaramente una pioggia intensa assume i contorni di un evento estremo in aree già depredate dal cemento e dalla deforestazione di un’edilizia abusiva e depredatrice. A ciò si aggiunge l’attività vulcanica: il Vesuvio, è silenzioso da 76 anni, ma ha avuto otto importanti eruzioni tra il 1861 e il 1944, e tuttora è un vulcano attivissimo, come lo è l’area dei Campi Flegrei. «Le situazioni critiche sono molte ed estese, e riguardano milioni di italiani. Dagli studi degli ultimi trent’anni, sappiamo che le aree a rischio sismico e idrogeologico sono sempre le stesse — nota la storica — questo dato faciliterebbe interventi efficaci e mirati, e consentirebbe un primo bilancio». Un bilancio sulle dolorose peripezie di territori periodicamente martoriati da calamità naturali, di cui, però, non c’è traccia nei manuali di storia. Analogamente sono assenti le epidemie che nei secoli hanno funestato le società del passato, derivanti dall’interazione con l’ambiente biotico dei virus e dei batteri. «Da medievista, ricordo la pandemia causata dal batterio Yersinia Pestis, che decimò le popolazioni nel vi secolo, al tempo di Giustiniano; poi, alla metà del Trecento, perì di peste circa un terzo degli abitanti dell’Europa medievale — spiega Guidoboni —. Come sappiamo da Boccaccio e da altre fonti, nel 1348 i cittadini abbienti si isolavano nelle ville in campagna, mentre nelle città e nei paesi le epidemie mietevano vittime». Le miniature del tempo testimoniano un traumatico impatto con la morte, che segnò la cultura di quegli anni e di cui abbiamo traccia nelle rappresentazioni su vetrate e affreschi di molte chiese. Tornando ai giorni nostri, le condizioni sono diverse: siamo più sani, meglio nutriti, più informati e più garantiti. Nonostante il riconoscimento dei diritti, tra cui quello alla cura (a cui ha accesso, però, solo parte della popolazione mondiale), l’attuale sistema mostra diverse fragilità, a livello globale, nella crescita incontrollata di differenze e ingiustizie sociali, nel pericolo di impoverimento economico, ma anche educativo e culturale, e nello svuotamento del significato di diritti universalmente estesi. «Limitandosi al nostro paese, emerge un’Italia che, rispetto alle politiche di prevenzione, non è riuscita a maturare la consapevolezza dell’importanza del buon governo, non valutando le conseguenze di alcune scelte», si rammarica la storica, pur notando che non sono mancate «manifestazioni di forza in reazione alle drammatiche perdite prodotte da eventi estremi». Come inaugurare una nuova stagione, dunque? Qualsiasi percorso si intenda intraprendere, occorre chiamare in gioco quella che finora è stata la grande assente, ovvero, la cultura del rischio. Una cultura, basata sulla conoscenza e su un approccio positivo, fiducioso e teso ad un futuro più civile e sicuro. Una cultura che non nasce e si diffonde da sé: va coltivata, formata e incentivata. «I disastri naturali sono costantemente raccontati all’opinione pubblica come cronaca, per lo più di eventi casuali e isolati dal contesto storico in cui andrebbero letti», spiega Guidoboni. Questo giustifica perché vengano rapidamente archiviati dalla memoria collettiva, ignorati nelle scuole e perché nelle università, sedi per eccellenza della formazione di insegnanti e amministratori (tra cui ingegneri, architetti, ambientalisti), non si dia spazio alla storia di tali eventi, ai metodi scientifici di valutazione, alla ricerca delle cause o al peso dell’intervento dell’uomo. Una mancanza di visione del fenomeno, nel suo complesso, destinato a ripercuotersi in una tragica sequenza di episodi drammatici che ciclicamente si ripetono nelle diverse regioni del pianeta. «Gettare le fondamenta della cultura del rischio implica affrontare la multidisciplinarietà e la trasversalità dei saperi, e mettere al centro la società. È un investimento che porterebbe ad una consapevolezza sociale e civile più ampia e a nuove istanze politiche», conclude Emanuela Guidoboni. I presupposti tecnico-scientifici per procedere ad un serio piano di prevenzione non mancano: manca, probabilmente, l’impegno a condividere, all’interno delle diverse comunità, una strategia chiara e concreta che restituisca centralità alla società civile, rendendola protagonista di una incalzante e fattiva domanda di sicurezza. La stessa che avanza e cresce, però, solo sull’onda della conoscenza dei rischi a cui si è esposti, della portata distruttiva di un cataclisma, dei costi e dei disagi enormi che, per decenni, si riversano sulle future generazioni.

di Silvia Camisasca