BIBBIA E LITURGIA La porta stretta: apre o chiude?

di CHIARA GATTI
Questa è l’ottica angusta dell’uomo di sempre, che per essere trasformata ha bisogno di passare per la porta stretta della rinuncia al proprio punto di vista.

in vinonuovo.it

C’è un grande respiro nelle letture che la Chiesa ci propone questa domenica! Eppure a qualcuno di noi, invece, potrebbe mancare un po’ l’aria, forse potremmo sentire un certo senso di oppressione se consideriamo alcune espressioni con cui Gesù risponde alla fatidica domanda dell’uomo di sempre, qui posta da “un tale”, quindi da un qualcuno che potrebbe essere ciascuno di noi.

E la domanda è “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Di per sé, a me pare, il quesito è già viziato in partenza. Ben altra portata aveva avuto nel Vangelo di Matteo la domanda dei discepoli, dopo l’episodio del giovane ricco che se ne era andato via triste: «Chi si potrà dunque salvare?». Là Gesù aveva risposto: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile». Credo infatti che non si possa capire fino in fondo il vangelo di oggi, se non teniamo conto anche di quest’altra risposta di Gesù che apre all’idea dell’infinita misericordia di Dio nei confronti di ogni uomo, ma soprattutto della sua immensa e straordinaria capacità di sguardo ben diversa da quella ristretta degli apostoli qui e di quel “tale”.

Quell’uomo infatti sembra già mettere la risposta in bocca a Gesù, usando il pronome “pochi”. E possiamo partire da qui: poco forse è quello che concepisce l’uomo, quando pensa da solo, e per quanto si sforzi, pensa sempre in piccolo; se abbandonato a se stesso, sembra non riuscire nel dilatare i propri polmoni, come dicevamo all’inizio. Il Signore infatti a questa domanda, a mio avviso così mal posta e già maliziosa, risponde con una serie di immagini e metafore che solo all’apparenza possono incuterci la paura del giudizio e di una dannazione senza scampo.

C’è un’ottica, invece, che Gesù ci chiede di adottare, parlando di quella porta stretta, ed è la proposta di entrare, certo attraverso un passaggio angusto, nell’immensa ottica del Padre, che ci vuole tutti felici, tutti salvi, cioè tutti con Lui in un progetto di salvezza comune che non escluda nessuno.

E di questo ci parla proprio la Prima lettura, dove alla fine del libro di Isaia ci viene presentata una luminosa chiamata a raccolta di tutti, in una visione finale quasi apocalittica, di una nuova Gerusalemme rigenerata. Chiediamoci allora se riusciamo a credere che quella salvezza sia proprio per tutti. Infatti, in questa lettura, già il popolo di Israele era ritornato dalla terribile prigionia babilonese, e qui ci appare come questa esperienza lo abbia condotto ad abbassare un po’ la cresta. Ora quindi deve riabituarsi a vivere nella propria terra, ma senza più quell’orgoglio e ristretta convinzione di essere l’unico eletto per la salvezza. Proprio su questo infatti insiste il profeta Isaia: l’idea che esistano solo alcuni prescelti che possono salvarsi, e un verbo spicca su tutti: “radunare”!

C’è un grande movimento in entrata ed uscita in quella nuova Gerusalemme, il luogo bello di pace che ancora oggi ognuno di noi si augurerebbe di abitare già su questa terra. E così vengono descritti i superstiti da quel triste esilio che è stato Babilonia, i quali vanno a parlare della bellezza di Dio a tutti, fin nelle isole lontane, a coloro che ancora non hanno visto la gloria del Signore, mentre poi anche gli stessi ebrei, osservanti ed eletti, saranno riportati indietro nella terra promessa proprio da fratelli pellegrini appartenenti ad altre genti, anch’esse radunate e raccolte.

Come non pensare qui alla stessa etimologia della parola “chiesa” che significa proprio “raccolta, raduno…”, quella raccolta che tante volte dimentichiamo, arroccandoci nel nostro diritto di essere cristiani con la precedenza forse proprio perché ci sentiamo più vicini al sacro, più osservanti, proprio come quel popolo rientrato da Babilonia, dove però la certezza dei primi della classe aveva cominciato a vacillare.

Questa è l’ottica angusta dell’uomo di sempre, quella che per essere trasformata ha bisogno di passare per la porta stretta della rinuncia al proprio punto di vista, spesso presuntuoso e supponente. E noi, riusciamo a farlo questo passaggio? Se ancora in questo vangelo ci vengono presentate immagini di persone rifiutate quando ritornano dal padrone di casa, è forse perché non hanno sposato l’infinita magnanimità di chi non fa elenchi di esclusi.

E il paradosso sta proprio qui: un vangelo che parla tutto di apparente esclusione e punizione è invece un inno all’apertura, all’inclusione più estrema di ogni uomo che abbia insistentemente cercato la costruzione del bene comune. Di ogni uomo che abbia custodito la coscienza di essere fratelli e di valere ugualmente, anche aldilà della stessa consapevolezza di essere figli dello stesso Padre.

Isaia infatti ci annuncia quasi una bestemmia per l’ebreo religioso osservante: anche tra essi (tra gli stranieri, quelli delle isole lontane) mi prenderò leviti. La porta stretta è dunque cominciare a passare per l’idea che possiamo essere tutti sacerdoti e leviti, perché il sacro è dato in mano (questa l’etimologia prima della parola “sacerdote”) a tutti gli uomini e donne di buona volontà che vogliono vita e pace per tutti e non si sentono superiori agli altri per questo.

Natale. A Betlemme con don Tonino Bello

Santi, mistici, poeti ci accompagnano nel cammino verso il Santo Natale. A partire dallo sguardo al presepe, che spiega il Papa, “è come un Vangelo vivo”

a Natività affrescata da Giotto nel transetto destro della Basilica inferiore di San Francesco d'Assisi

(la Natività affrescata da Giotto nel transetto destro della Basilica inferiore di San Francesco d’Assisi)

Il Natale ispira da sempre mistici e poeti. Lo stupore davanti alla follia d’amore di un Dio che decide di farsi uomo, fa cantare e invita alla preghiera. Per capirlo basta fermarsi un attimo in silenzio davanti al presepe. Scrive il Papa nella Lettera apostolica “Admirabile signum”: «Mentre contempliamo la scena del Natale, siamo invitati a metterci spiritualmente in cammino, attratti dall’umiltà di Colui che si è fatto uomo per incontrare ogni uomo. E scopriamo che Egli ci ama a tal punto da unirsi a noi, perché anche noi possiamo unirci a Lui».

In una delle sue pagine più note dedicate al Natale don Tonino Bello il vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi e presidente di Pax Christi morto nel 1993 a 58 anni, scrive, ispirato:

(…) Andiamo fino a Betlemme, come i pastori. L’importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso. Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi della onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l’amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove Egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.
Mettiamoci in cammino, dunque, senza paura. Il Natale di quest’anno ci farà trovare Gesù e, con Lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell’impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.
Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quello della nostra anima sarà libero di smog, privo di segni di morte e illuminato di stelle.
E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.

La riflessione. Tempo di fiamme e poesia (Per il Natale che viene)

La logica estrema del dono ha la sua paradossale e sovrana radice nel giorno dello Straniero Bambino
Da Avvenire

In alto: Marco Lodola, “Natività”, 2021. Scultura luminosa scatolata, in lamiera verniciata di nero illuminata con led e decorata con pellicole colorate. Dalla mostra Admirabile signum, a La Spezia

In alto: Marco Lodola, “Natività”, 2021. Scultura luminosa scatolata, in lamiera verniciata di nero illuminata con led e decorata con pellicole colorate. Dalla mostra Admirabile signum, a La Spezia – Collezione Fondazione Carispezia
Credo che moltissimi tra noi siano rimasti trasecolati dall’esortazione della Commissaria europea all’Uguaglianza, poi formalmente ritirata, a non utilizzare più parole come Natale o Maria per non offendere chi non è cristiano. Non penso che saranno molti ad ascoltare questa perorazione quando, ora che torna il momento di scambiarci gli auguri natalizi, ma non mi sembra tempo perso sostare un attimo col pensiero su ciò che il Natale, per fortuna, continua a significare per noi.

Quale festa sa ancora creare nel mondo – buona parte del mondo, non solo l’Occidente – le risonanze, gli echi, le vibrazioni, le luci, gli aloni del Natale? Nonostante gli attentati allo spirito dello stupore e del dono prodotti senza tregua dalla civiltà del banale e del disincanto, dai colpi di maglio dell’abitudine e dal duro pane del nonsenso quotidiano (fino all’assedio del Covid-19), il Natale resiste come un castello di sogni leggerissimo ma imprendibile nella sua essenza, come l’isola che non c’è di tutte le utopie, come la montagna incantata della bellezza più limpida e tenace. A ogni nuovo Natale che si avvicina quanti sono gli esseri umani toccati da un sentimento di sollievo, grati a una festa capace, nonostante tutto, di farli respirare, di liberarli, almeno per qualche giorno, dai virus dell’angoscia, dell’amarezza, dello spleen? Certamente milioni. Eppure molte persone fra noi non “sentono” il Natale, o nutrono nei suoi confronti dubbi, sospetti, indifferenza, disagio. È in primo luogo per loro che il grande teologo Karl Rahner nel 1962, cioè in un momento in cui l’Occidente era percorso dall’euforia di un rinato benessere materiale, scrisse: .

Per parte mia non ho dubbi: coloro che non sentono, che non “capiscono” il Natale sono gli stessi che non amano la poesia, che non intendono come la poesia non sia un lusso ma un bisogno primario per l’anima. Simile alla carità nella sua forza profonda – nella sua capacità, per dirla con Paolo di Tarso, di perdonare, credere, sperare senza riserve –, la poesia resiste a ogni genere di distruzione perché sa cogliere “l’altro lato” della realtà, il nocciolo segreto della vita, la ricchezza delle cose anche più comuni. Ogni vera poesia è, in germe, una specie di vangelo, cioè un annuncio del carattere miracoloso del mondo: i grandi poeti, da Francesco d’Assisi a Giovanni Pascoli ad Attilio Bertolucci, sanno ricordarci il miracolo supremo – il fatto che il mondo esiste, che non c’è solo il nulla – con parole spesso semplicissime, con immagini che sembrano fiorire dal lapis di un bambino. A sua volta l’annuncio dei Vangeli è essenzialmente poesia: Cristo non è solo un filosofo rivoluzionario (un maestro in grado di pensare in modo radicalmente “altro”, come ha evidenziato Frédéric Lenoir in uno splendido libro), è soprattutto uno straordinario poeta. Cosa ci rivelano le sue parole, le sue metafore, i suoi apologhi? Forse il senso ultimo del suo insegnamento è inattingibile, ma almeno questo è chiaro e comprensibile a tutti: che nel Regno di Dio le cose e le creature più sublimi sono le più piccole, fragili e inappariscenti: che la Verità sfugge ai concetti, alle idee rigide, alle categorie (ecco perché in certi momenti il modo migliore per testimoniarla è il silenzio): che c’è un legame essenziale tra il visibile e l’invisibile, la realtà e l’Altrove, la povertà e la ricchezza, la morte e la vita. Di questa immensa rivelazione il Natale è il fulcro, il punto di convergenza e di irradiazione, il “fuoco” vivo, la fiamma umilissima e abissale. Nel racconto natalizio di Luca trionfa ciò che i giapponesi chiamano wabi: la bellezza del frugale e del povero, la gloria dello spoglio, del minimo, della nudità, del delicato, del nascosto. Mostrare, come fa il racconto del Natale cristiano, che nell’ombra si manifesta la luce più grande (quella che nel Prologo del Vangelo di Giovanni riapparirà nella sua splendente purezza metafisica) è possibile solo nel vortice inebriante, rapinoso del paradosso. Nessun messaggio, nessuna creazione è così profondamente paradossale come la poesia evangelica, e così capace di far fluire lo spirito del paradosso in altri testi, in altre poesie, in altre creazioni. Da Efrem il Siro che nel suo inno sulla Natività scrive fino all’Andrej Rublëv che dipinge la culla del Dio neonato con la forma di un sarcofago; dai cortocircuiti teologici del Paradiso dantesco () fino all’Ungaretti che in una poesia del Sentimento del tempo evoca un Dio piccolo e sorridente () come figura suprema di quei momenti in cui , cos’è stata la vicenda dell’arte, della letteratura e della musica cristiana se non una straordinaria Via del Paradosso?

Il Paradosso è traboccato oltre i domini della creazione estetica, ha invaso anche le sterminate terre dell’esperienza mistica. Ma nemmeno le cattedrali della filosofia ne sono rimaste immuni. Per uno dei più mirabili filosofi cristiani, Agostino d’Ippona, , secondo la folgorante sintesi di Jeanne Hersch. Per Lev Šestov, spirito intrepido e ribelle, ostinatamente dissidente nella storia della filosofia moderna, segnato dalla Bibbia in un modo tutto suo, sono i risvegli improvvisi da quel sonno che ci rinchiude nell’illusione della ragione.

Il carattere, paradossale fino alla provocazione, dello spirito cristiano è sempre stato scandalo per il mondo, ma i Vangeli ci dicono che solo chi non è disposto a spingersi fuori, lontano dalle abitudini, affidandosi alla “lucida manía” dei profeti, può credere che la via inaugurata dal Natale sia soltanto una forma di follia. Certo, il Dio che Cristo ci ha rivelato non è solo il bambino indifeso, dolcissimo del presepe ma anche lo Straniero, . (Questo aspetto di Cristo è stato colto assai bene da Pasolini nel suo “Vangelo secondo Matteo”: qui Gesù non è solo umanissimo e ; spesso la sua predicazione ha qualcosa di irto, di lancinante e quasi di selvaggio anzitutto per gli apostoli.) Ma lo Straniero è anche il Dio vicinissimo a noi, colui che ci salva con la forza inaudita della gratuità, con la bellezza del dono puro, senza perché.

L’aspetto più autentico del dono in certe culture arcaiche è, secondo Marcel Mauss, il suo carattere eccessivo, cioè la tendenza del donatore a dare “tutto” ciò che possiede, senza temere di rovinarsi. Sommersi dai vacui eccessi del consumismo, storditi dalle troppe offerte di oggetti da acquistare, soprattutto nel periodo natalizio, non siamo più in grado di capire la generosità, la magia, la poesia umana delle forme “primitive” di eccesso. Il Dio dei Vangeli, però, pratica proprio l’eccesso senza misura nel momento in cui dona: se interviene a un pranzo di nozze, come a Cana, offre ai commensali una quantità enorme di vino (secondo le indicazioni di Giovanni potrebbero essere stati più di settecento litri); se uno degli esseri più reietti, un brigante crocifisso, ha un disperato bisogno del suo perdono, glielo concede subito, addirittura gli schiude il Paradiso senza chiedergli nulla in cambio.

Tenersi pronti all’incontro con un Dio che si china sull’uomo

XIX Domenica Tempo ordinario – Anno C

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno.
Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.
Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (…).

Tre volte è ripetuto un invito: siate pronti, tenetevi pronti. A che cosa? Allo splendore dell’incontro. E non con un Dio minaccioso, ladro di vita, che è la proiezione delle nostre paure e dei nostri moralismi violenti; ma con l’impensabile di Dio: un Dio che si fa servo dei suoi servi, che «li farà mettere a tavola e passerà a servirli». Che si china davanti all’uomo, con stima, rispetto, gratitudine. Il capovolgimento dell’idea di un Dio padrone. Il punto commovente, sublime di questa parabola, il momento straordinario è proprio quando accade l’inconcepibile: il Signore si mette a fare il servo, si pone a servizio della mia vita!
Ed ecco Gesù ribadire, perché si imprima bene, questo atteggiamento stravolgente del Signore: «E se giungendo nel cuore della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro». E passerà a servirli. Perché è rimasto incantato.
Che i servi restino in attesa, svegli fino all’alba, non è richiesto; è “un di più” non dettato né da dovere né da paura, si attende così solo se si ama e si desidera, e non si vede l’ora che giunga il momento degli abbracci: «Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore». Un padrone-tesoro verso cui punta diritta la freccia del cuore, come fosse l’amato del Cantico: Dormo, ma il mio cuore veglia (5,2).
Per il servo infedele invece il tesoro è il gusto del potere sugli altri servi, approfittando del ritardo del padrone «cominciare a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere, a ubriacarsi».
Per quel servo, che ha posto il tesoro nelle cose, l’incontro alla fine della notte con il suo signore sarà la dolorosa scoperta di avere mortificato la propria vita nel momento in cui mortificava gli altri; la triste sorpresa di avere fra le mani solo il pianto, i cocci di una vita sbagliata.
La nostra vita è viva quando coltiva tesori di speranze e di persone; vive se custodisce un capitale di sogni e di persone amate, per le quali trepidare, tremare e gioire.
Ma ancora di più il nostro tesoro d’oro fino è un Dio che ha fiducia in noi, al punto di affidarci, come a servi capaci, la casa grande che è il mondo, con tutte le sue meraviglie.
Che fortuna avere un Signore così, che ci ripete: Il mondo è per voi! Potete coltivarne e goderne la bellezza, potete custodire ogni alito di vita. Siete custodi anche del vostro cuore: coltivatelo al gusto del bello, alla sete della sapienza.
Mio tesoro è il volto di Dio, l’immagine straordinaria, clamorosa, che solo Gesù ha osato: Dio nostro servitore, che ha nome Amore, pastore di costellazioni e di cuori, che viene, chiude le porte della notte e apre quelle della luce, ci farà mettere a tavola, e passerà a servirci, le mani colme di doni.
(Letture: Sapienza 18,6-9; Salmo 32; Ebrei 11,1-2.8-19; Luca 12, 32-48).

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