Gli animali un dono di Dio, nostri “compagni” nel Creato

Il richiamo all’ecologia integrale è la condizione prioritaria per essere buoni amministratori del creato e allontanarsi da una cultura che trasforma gli esseri viventi in oggetti di consumo. Compresi gli animali, messi al centro del messaggio della Commissione episcopale per i problemi sociali, il lavoro, la giustizia e la pace per la 71ª Giornata del Ringraziamento: “Lodate il Signore dalla terra (…) voi, bestie e animali domestici (Sal 148,10). Gli animali, compagni della creazione”.

Ricca di significati la scelta di celebrare in Sardegna la manifestazione che contadini, pastori e allevatori considerano il capodanno delle campagne. L’isola, infatti, l’estate scorsa ha pagato un prezzo ambientale altissimo: 20mila ettari devastati dalle fiamme, centinaia di animali morti, 100 mila alberi d’ulivo inceneriti, con 60 milioni di api uccise, insetti che il documento dei vescovi considera «una benedizione per l’ecosistema e per le attività dell’uomo ». «La prossimità agli animali, che nella tradizione della civiltà agricola ha portato a sentirli e trattarli quasi come partecipi della vita familiare, nella modernità – scrivono i vescovi – è stata abbandonata, riducendo queste creature a oggetti di mero consumo». Un’ecologia anche integrata, che don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per i problemi sociali e il lavoro, ha descritto in apertura del seminario organizzato dall’arcidiocesi di Sassari unitamente a Acliterra, Coldiretti, Fai Cisl, Feder.Agri, Terraviva. La necessità di riconvertire il nostro stile di vita è il filo rosso che unisce la due giorni del Ringraziamento, che si conclude oggi con la Messa (trasmessa in diretta su Rai uno) celebrata dall’arcivescovo Gian Franco Saba, a Portotorres, nella basilica dei Santi Martiri Gavino, Proto e Gianuario, seguita dalle parole di papa Francesco, all’Angelus. Al termine la benedizione dei mezzi agricoli e degli animali.

Di “Benessere animale e benessere dell’uomo nell’attività zootecnica” si è parlato nella tavola rotonda, coordinata da Daniela Scano, caporedattrice del quotidiano La Nuova Sardegna.

«Questa Giornata rappresenta, per la diocesi di Sassari – ha detto don Andrea Piras, responsabile della pastorale del lavoro – l’occasione per consolidare l’alleanza che, tra le componenti ecclesiali, le parti civili, gli organismi sociali, le agenzie culturali della città e del territorio, insieme alle categorie di lavoratori e di tanti giovani studenti, intende favorire una scelta di consapevolezza e di responsabilità perché ciascuno, sentendosi interpellato personalmente, si adoperi come autentico protagonista del cambiamento d’epoca in atto».

«La giornata del Ringraziamento – ha commentato il segretario generale della Fai Cisl, Onofrio Rota – ci consente di rilanciare il percorso verso l’ecologia integrale che ci siamo impegnati a coltivare anche con l’adesione al Manifesto di Assisi e con la nostra campagna Fai Bella l’Italia. Tra gli obiettivi di quell’idea c’è il superamento di un approccio predatorio che per anni ha caratterizzato la crescita, anche nel nostro Paese, svalutando e depauperando il suolo, il paesaggio, gli alvei idrici, le persone, il loro rapporto con l’ambiente e il regno animale». «Per noi – ha aggiunto il presidente di Coldiretti Sardegna, Battista Cualbu – è un orgoglio ospitare in Sardegna, a distanza di pochi anni dalla tappa di Dolianova nel 2015, questa manifestazione nazionale, che dimostra ancora una volta la sensibilità della Cei per la nostra terra, in particolare in quest’anno segnato dai terribili incendi estivi».

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Un momento del Convegno a Sassari per la Giornata del Ringraziamento

DIBATTITO Ebraismo e cristianesimo dal conflitto al dialogo

L’adversus judaeos, ossia l’avversione nei confronti degli ebrei, è stata fino a pochi decenni fa una categoria teologico-politica consolidata. Essa ha accompagnato l’intera storia della cultura occidentale, dagli autori neo-testamentari – o almeno da Giustino e Tertulliano – fino alla vigilia del Concilio Vaticano II. È il senso di quell’adversus in quanto tale, che copre un misto di tragedie storiche già lette in chiave di teologia e di filosofia della storia (si pensi all’impresa agostiniana del De civitate Dei o alla Historia di Eusebio da Cesarea), che qui si vuole reinterpretare, non in generale ma dal punto di vista di chi era “avversato”, ossia percepito e descritto come “avversario” seppur non necessariamente o almeno non sempre come vittima di chi lo avversava. Gli avversari, nella misura in cui sono identificati e riconosciuti come tali, mantengono strutturalmente una loro dignitas, magari negativa, ma pur sempre degna dell’onore delle armi e persino di rispetto. Gli ebrei sono sempre stati questi avversari del mondo cristiano e nella lotta certamente ad armi impari – chiamata per lo più con il generico nome di antigiudaismo (e solo a partire dal XIX secolo di antisemitismo) – essi hanno paradossalmente mantenuto uno status, per quanto negativo, che li rendeva “degni” di essere contraddetti e combattuti, per essere alla fine convertiti. E sempre molto paradossalmente, anche quando convertiti, era in quanto “ebrei” che risultavano degni di considerazione; obliata l’origine ebraica, la nobilitas spirituale originaria che dovevano al contempo “negare” evaporava ed essi perdevano ogni interesse teologico.

È questa lunga vicenda di avversione, oggi ampiamente documentata dagli storici, che costituisce il magnete della presente ricerca, non nella sua dimensione fattuale ma nel bisogno di comprensione – la comprehension inglese – che essa stimola ed esige e reclama, come un senso non ancora sufficientemente esplorato ed eviscerato, come una storia traumatica non anco- ra elaborata e come tale che ancora duole (e come potrebbe non dolere se essa è perdurata fino a pochissimo tempo fa, culminando in quel buco nero, in quell’apice del conflitto – divenuto quasi storia a sé stante in quanto antisemitismo a carattere biologistico – che chiamiamo Shoah?).

Con queste premesse, ideologiche più che metodologiche, mi accingo a raccogliere alcune riflessioni iniziate oltre travvedere – e non è poca ambizione – la vera posta in gioco e le ragioni profonde del contendere, posta e ragioni che sul campo di battaglia della storia sono state spesso occultate, rimosse e rinnegate ma che mantengono, forse, la loro raison d’être. Forse, ripeto. Perché un conflitto di tale portata non può ascriversi alla mera malvagità degli esseri umani o alla sfortuna delle sorti geo-politiche o a qualche genio maligno che cartesianamente si diverte ad aizzare gli umani gli uni contro gli altri armati. Questo conflitto, che sta alla base della storia religiosa dell’occidente e che ne ha condizionato i destini e le idee, e persino molte istituzioni, ha da essere indagato non come un accidente della cui origine si è persa memoria né come una disgrazia oggetto di rammarichi (e sensi di colpa) ma come un coacervo di significati diversi; certo, districando tali significati il conflitto non smette di esistere ma smette di essere mortifero e umiliante per una delle parte (o per entrambe) e diventa – torna a diventare? – un conflitto positivo, una dialettica benefica e arricchente; per dirla in ebraico, ridiverrà «una machloqet (una disputa) per amore del Cielo» a beneficio soprattutto degli antagonisti, dei contendenti, dei belligeranti.

Sono consapevole che una simile impresa potrebbe urtare più di una sensibilità, sia da parte ebraica sia da parte cristiana; ma il mio resta resta uno scopo ermeneutico, per così dire, un tentativo cioè di offrire al clima odierno – un clima dialogante e capace di ascolto delle ragioni altrui, sopraggiunto negli ultimi decenni del XX secolo, in un’epoca di conclamata fraternità e sororità – e di sviluppare nuovi approcci e nuove categorie di comprensione del conflitto tra cristianesimo ed ebraismo. L’obiettivo è trovare un’inedita grammatica per decifrare quest’antichissimo corpo a corpo religioso, foriero di enormi conseguenze per la storia umana, certamente il più carico di incomprensioni e di sofferenze per lo più inflitte da parte cristiana al mondo ebraico “dopo il 70”. Da questo preciso punto, dunque, occorre partire.

trent’anni fa sul conflitto tra cristianesimo ed ebraismo, nel tentativo di individuare chiavi ermeneutiche tali che, aiutando la comprensione dei fatti e dei testi “oggetto” peculiare di disputa tra ebrei e cristiani, non tanto leniscano le ferite sul campo (o ancor meno compensino le irredimibili sofferenze dei morti) quanto diano un senso al conflitto stesso e con ciò ne disinneschino la virulenza. Vorrei lasciar in-

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Dall’«adversus judaeos» di Giustino e Tertulliano al Concilio Vaticano II, due millenni di storia di uno scontro teologico spesso agguerrito, ma anche capace di riconoscere alla controparte rispetto e «dignitas». Comprenderli oggi può aiutare a volgerli in dialettica positiva: per dirla in ebraico, in una «machloqet» (una disputa) per amore del Cielo

Papa Francesco al Muro del Pianto nel 2014. Il Muro è ciò che resta del Tempio distrutto nel 70 d.C. / Epa/Osservatore Romano

Società e diritti «Il crocifisso a scuola non discrimina Gli è legata la tradizione di un popolo»

Esporre il crocifisso nelle scuole non è una condotta discriminatoria. Lo ha stabilito la Suprema Corte, che nella sua composizione più autorevole – le Sezioni Unite – con la sentenza 24414/2021 pubblicata ieri mattina ha chiarito definitivamente che il maggiore simbolo del cristianesimo può rimanere nelle aule. Basta che a volerlo sia «la comunità scolastica», la quale può anche decidere di accompagnarlo «con i simboli di altre confessioni presenti in classe – così si esprime il comunicato stampa diffuso dalla Cassazione – e in ogni caso ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi». La questione non è solo religiosa. Per la Corte infatti al crocifisso «si legano, in un Paese come l’Italia, l’esperienza vissuta di una comunità e la tradizione culturale di un popolo». Per questo, a maggior ragione, la sua affissione «non costituisce un atto di discriminazione del docente dissenziente per causa di religione». Sotto il profilo prettamente giuridico, gli ermellini – come vengono chiamati i giudici della più alta corte italiana, per via della toga nelle occasioni più formali – ricordano innanzitutto come un regolamento degli anni Venti, mai abrogato, avesse imposto la presenza del crocifisso nelle aule. «Ogni istituto – si legge in quel testo – ha la bandiera nazionale; ogni aula, l’immagine del crocifisso e il ritratto del Re». È vero, allora il cattolicesimo era ‘religione di Stato’. Ma la Suprema Corte nella sentenza di ieri ha chiarito che la norma di un secolo fa è suscettibile di essere interpretata oggi in senso conforme alla Costituzione. In parole povere: se la scuola nelle sue varie componenti lo vuole, il crocifisso può e deve restare, perché «il venir meno dell’obbligo di esposizione – si legge in sentenza – non si traduce automaticamente nel suo contrario, e cioè in un divieto di presenza del crocifisso nelle aule scolastiche ». Attenzione: se l’istituto, studenti compresi, decide di tenerlo, nessuno può toglierlo a piacere, come invece aveva fatto il docente da cui era scaturito il caso giudiziario.

Con la pronuncia di ieri, sotto il profilo tecnico-giuridico, le Sezioni Uni- te hanno dato risposta alle questioni contenute nella cosiddetta ‘ordinanza di rimessione’, quella cioè in cui una singola sezione della Suprema Corte – nel nostro caso la sezione lavoro –, ritenendo che la questione a essa sottoposta sia molto controversa e di particolare importanza, chiede che sia decisa in composizione plenaria. L’anno scorso, nel devolvere la vicenda alle Sezioni Unite, la Cassazione aveva preso le mosse da una sentenza pronunciata nel 2011 dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu): il crocifisso, avevano scritto i giudici di Strasburgo, è «un simbolo essenzialmente passivo», per cui «dalla sua sola esposizione […] non deriva la violazione del principio di neutralità dello Stato ». Ciò premesso, la sezione lavoro della Suprema Corte riteneva che il caso su cui ha poi deciso fosse un poco diverso: a contestare il simbolo cristiano non era uno studente ma un professore. Non dunque un utente del servizio, ma un educatore. E proprio per questo, temeva la Corte, «l’esposizione del simbolo» avrebbe rischiato di attribuire «uno stretto collegamento tra la funzione esercitata e i valori fondanti il credo religioso che quel simbolo richiama». Le Sezioni Unite, però, hanno sgombrato il campo da questo timore. D’altronde, già nel 2006, il Consiglio di Stato aveva visto nel crocifisso «un simbolo idoneo a esprimere l’elevato fondamento di valori civili (tolleranza, rispetto reciproco, valorizzazione della persona, affermazione dei suoi diritti…)» che «delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato». La sentenza di ieri precisa che «la laicità italiana non è ‘neutralizzante’: non nega le peculiarità e le identità di ogni credo e non persegue un obiettivo di tendenziale e progressiva irrilevanza del sentire religioso, destinato a rimanere nell’intimità della coscienza dell’individuo». Ciò anche per via del fatto che «il principio di laicità – spiega la pronuncia – non nega né misconosce il contributo che i valori religiosi possono apportare alla crescita della società». Secondo la sentenza, dunque, esporre il crocifisso a scuola non è (più) un obbligo di legge, ma se le singole classi rappresentate dai loro organismi ritengono di farlo, la presenza del simbolo non può più essere tolta a piacere. Se non, ovviamente, con una successiva delibera.

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Cassazione, in aula crocifisso se comunità scuola d’accordo. Eventualmente con altri simboli fedi e cercando intesa tra tutti

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– L’ aula di una classe “può accogliere la presenza del crocifisso quando la comunità scolastica interessata valuti e decida in autonomia di esporlo, eventualmente accompagnandolo con i simboli di altre confessioni presenti nella classe e in ogni caso ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi”. E’ quanto ha stabilito la corte di Cassazione (sentenza n.

24414, pubblicata oggi) che a Sezioni Unite, si è occupata dell’affissione del crocifisso nelle aule scolastiche.
In particolare, la questione esaminata dalla Cassazione riguardava la compatibilità tra l’ordine di esposizione del crocifisso, impartito dal dirigente scolastico di un istituto professionale statale sulla base di una delibera assunta a maggioranza dall’assemblea di classe degli studenti, e la libertà di coscienza in materia religiosa del docente che desiderava fare le sue lezioni senza il simbolo religioso appeso alla parete. La Corte ha affermato che la disposizione del regolamento degli anni Venti del secolo scorso – che tuttora disciplina la materia, mancando una legge del Parlamento – è suscettibile di essere interpretata in senso conforme alla Costituzione. “L’aula può accogliere la presenza del crocifisso quando la comunità scolastica interessata – spiega la Cassazione – valuti e decida in autonomia di esporlo, eventualmente accompagnandolo con i simboli di altre confessioni presenti nella classe e in ogni caso ricercando un ragionevole accomodamento tra eventuali posizioni difformi”. (ANSA).