Anniversario. Charles Péguy, fede e realtà contro gli intellettualismi

Per lo scrittore francese, nato il 7 gennaio 1873 e approdato al cattolicesimo dal socialismo, la vita richiede «l’inserzione dell’eterno nel temporale»
Charles Péguy (1873-1914)

Charles Péguy (1873-1914) – archivio

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«La Speranza sola non risparmia nulla». Pur essendo stato un uomo dalla triplice fedeltà, a Dio, alla civiltà contadina e alla nazione, la Fede ricopre un primato, perché esito di un cammino. Essa è testimoniata da Charles Péguy, alla pari della Carità, «il primo movimento del cuore», non in maniera intellettualistica, ancorata com’è al corpo e alla realtà concreta. Ma entrambe perderebbero vigore se non fossero sorrette dalla Speranza, «una bambina da nulla/ che traverserà i mondi» e che «sola guiderà le Virtù», come annunciano i versi di Il Portico del mistero della seconda virtù (1910). Erede della cultura paysanne e campione di una religiosità popolare radicata nel cattolicesimo, lo scrittore e pensatore francese è, secondo Hans Urs von Balthasar, uno dei dodici cristiani essenziali dai tempi di Cristo. E il suo tortuoso cammino esistenziale, che finirà nel 1914 nelle trincee della Grande Guerra, va colto, per il teologo svizzero, in maniera «indivisibile. Esso lo è grazie a un radicarsi nel profondo, là dove mondo e Chiesa, mondo e grazia si incontrano e si compenetrano sino a essere inscindibili».

Dissidente nell’animo, a suo agio nella polemica e nel corpo a corpo, Péguy, sia nell’essere socialista, nazionalista o cattolico, è uno scrittore che risponde costantemente agli eventi e ama essere al centro della mischia. Le idee per lui sono carne e richiedono una pugna spiritualis, anche quando si allontana dalla Chiesa. Egli lotta contro la disincarnazione del mondo moderno, esito di quello spirito di sistema e di quella ragione rigida, che lui osteggiava per la sua «dura arroganza nei confronti della realtà, nell’insolenza verso ogni specie di realtà». «Il mondo moderno avvilisce – scriverà nelle Situations -. È la sua specialità… è il suo mestiere… Avvilisce la città, avvilisce l’uomo, avvilisce l’amore, avvilisce la donna, avvilisce la razza, avvilisce il bambino. Avvilisce la nazione; avvilisce la famiglia. È riuscito ad avvilire ciò che c’è forse di più difficile da avvilire, perché è qualcosa che ha in sé, nel suo tessuto, una sorta di particolare dignità, come un’incapacità di essere avvilita: esso avvilisce la morte».

Péguy nasce il 7 gennaio 1873, esattamente centocinquanta anni fa, a Orléans da una famiglia di piccoli artigiani. Rimasto orfano di padre, morto per le conseguenze dell’assedio di Parigi ai tempi della guerra franco-prussiana, è cresciuto dalla madre, riparatrice di sedie, e dalla nonna, ultima testimone di una Francia oramai sul punto di eclissarsi. Da loro imparerà l’“onore del lavoro”, che permetteva di «impagliare sedie esattamente con lo stesso spirito e lo stesso cuore, e con la stessa mano con cui questo medesimo popolo aveva tagliato le sue cattedrali» scriverà in Il denaro (1913). Alla tradizione paysanne e alla sua terra natale rimarrà sempre legato, non solo perché aveva regalato a Giovanna d’Arco la sua prima vittoria militare, ma anche perché aveva assicurato a lui quel radicamento nella concretezza della vita perso altrove. Anche a causa di quella scuola repubblicana, lontana dalla cultura contadina resa obbligatoria a partire dal 1880, che comunque gli consentirà di entrare addirittura all’École Normale Supérieure. Da questa istituzione di prestigio si dimise nel 1897, dopo l’adesione a un socialismo che sarà, secondo uno dei suoi primi biografi, «più il socialismo di san Francesco che non quello di Karl Marx». Allora Péguy comincerà a scrivere per “La Revue Socialiste” testi intrisi di utopismo, anche se sarà l’affaire Dreyfus a gettarlo davvero nell’arena. A questa battaglia politica e civile dedicherà La nostra giovinezza (1910), il capolavoro del dreyfusismo scritto in polemica con Daniel Halévy, in cui non esitò a mostrare come la vita richiedesse «l’inserzione dell’eterno nel temporale».

Nel 1900 aveva fondato i “Cahiers de la Quinzaine”, la tribuna da cui condusse le battaglie contro il mondo moderno. La redazione si trovava in rue de la Sorbonne 8, proprio di fronte alla venerabile istituzione, il suo nemico più potente, il difensore del pensiero sistematico che avvilisce la realtà, la casa del “partito degli intellettuali” che alla concretezza dell’esistenza preferisce l’astrattezza della ragione. Esposto per tutta la vita agli attacchi dei corifei del razionalismo scientifico e del positivismo, Péguy incontrerà nella filosofia dell’amico Henri Bergson una percorso che gli consentirà di respingere l’intellettualismo dei professori e dei politici di professione, assicurandogli sempre l’accesso alla realtà. In lui la “durata” del futuro premio Nobel diventa la profondità della storia e l’intuizione l’antidoto all’intellettualismo della sua generazione. In una parola, libertà. La stessa offerta dai “Cahiers” dove non è soggetto ai vincoli dell’editoria, né a quelli del giornalismo. Il periodico, che raggiungerà i 229 numeri, è l’opera della sua vita ma anche un’avventura collettiva. Il numero degli abbonati, che gli assicurerà il supporto economico, oscillerà tra 900 e 1200. Tra loro figureranno Raymond Poincaré, il capitano Dreyfus, Claude Debussy, Joseph Reinach, l’ex capo di gabinetto del presidente del consiglio Léon Gambetta. Per non parlare dei prestigiosi collaboratori, da Daniel Halévy a Julien Benda, da Romain Rolland a Georges Sorel.

Legato alla cultura popolana, la sola a rappresentare l’aristocrazia del mondo del lavoro, dalla tribuna del suo quindicinale, Péguy ingaggiava battaglia contro la mitologia del progresso, perché «la miseria dell’uomo moderno, la sua angoscia, è una delle più profonde che la storia abbia mai registrato», preda com’è del denaro facile e del degrado. Ai pochi testi utopici dell’inizio sono seguiti rapidamente le critiche al mondo moderno, che recano tracce della potente nostalgia per il vecchio mondo. Il suo non è però un requiem per una società cristiana e popolana, in via di disgregazione sotto il regime del denaro. Per essa occorre ancora combattere, essere miles Christi, ma non per salvare se stessi, ma per salvare anche gli altri. «Non si deve salvare la propria anima come si salva un tesoro – dirà in Il mistero della carità di Giovanna d’Arco -. La si deve salvare come si perde un tesoro. Con il buttarla via. Noi ci dobbiamo salvare insieme. Noi dobbiamo arrivare presso il buon Dio insieme. Che cosa direbbe se arrivassimo presso di lui, arrivassimo a casa senza gli altri».

Gli studi di prosperi e Bruno
«Charles Péguy, ci ha lasciato pagine stupende sulla speranza», ha assicurato di recente papa Francesco. E a guidare alla scoperta di questo aspetto del pensiero dello scrittore d’Oltralpe, di cui oggi ricorre il 150° anniversario della nascita, ora arriva in libreria Mistero dei misteri di Paolo Prosperi (Morcelliana, pagine 178, euro 16,00). L’autore apre un varco certo nel pensiero di Péguy per comprendere come la virtù della Speranza, che «vede quello che non è ancora e che sarà / ama quello che non è ancora e che sarà», costituisca l’architrave per la addentrarsi nel mistero della storia e di ogni singola esistenza umana. Ma per inquadrarne, nell’insieme, la biografia, le amicizie, lo stile e le sue battaglie in favore della vita vissuta e non dello spirito di sistema e dell’astrattezza così presenti nel mondo moderno, un ottimo portolano è Charles Péguy. Amico presente di Giorgio Bruno (Ares, pagine 256, euro 16,00).

«Così la filosofia ha riscoperto la realtà»


Realtà

«L’antirealismo era mosso spesso da ragioni intellettuali e politiche, però ha esaurito la sua forza propulsiva e spesso porta a risultati, teorici e pratici, che molti ritengono inaccettabili»

Mario De Caro

Mario De Caro

Avvenire

Da Bentornata realtà, antologia da lei curata nel 2012, a semplicemente Realtà di oggi, una agile monografia che non ha bisogno nemmeno di un sottotitolo. Il realismo è dunque tornato protagonista in filosofia e sulla scena culturale? E che cosa significa questo?

Nell’ultimo paio di decenni il tema della realtà è tornato al centro del dibattito filosofico da cui, per varie ragioni, era stato estromesso nel secolo scorso – risponde Mario De Caro, filosofo con cattedra a Roma Tre e alla Tufts University di Boston, esecutore letterario del grande pensatore americano Hilary Putnam e autore dell’appena pubblicato Realtà ( Bollati Boringhieri, pagine 126, euro 13,00) –. Un fattore fondamentale di quella estromissione fu la cosiddetta “svolta linguistica”, che accomunò il mondo analitico (da Frege e Russell sino a Dummett e Davidson) e quello continentale (con lo strutturalismo, ma in un certo senso anche con Heidegger, il quale con audace metafora georgica aveva proclamato che il linguaggio è “il pastore dell’essere”). Se il punto di partenza dell’indagine filosofica è il linguaggio, la questione della realtà arriva molto dopo – se arriva affatto. Un’altra ragione, parzialmente indipendente, dell’oblio filosofico in cui la realtà cadde per parecchi decenni fu l’avversione verso la metafisica di molti filosofi del secolo scorso: e, di nuovo, ciò avvenne sia in ambito analitico (si pensi al positivismo logico o alla tradizione legata alle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, via via sino a Rorty) sia in quello continentale (con il postmoderno, il decostruzionismo, il pensiero debole). Oggi però, appunto, nelle discussioni filosofiche la realtà è tornata in pompa magna: e ciò soprattutto perché l’antirealismo – che pur era mosso spesso da nobili ragioni intellettuali e politiche – ha esaurito la sua forza propulsiva e spesso porta a risultati, teorici e pratici, che molti ritengono inaccettabili.

Viene da chiedersi che cosa sostengono gli anti–realisti e chi sono.

Premessa: ogni filosofo serio è realista su alcune questioni e antirealista su altre. Una filosofia integralmente realista sarebbe trivialmente onnivora, priva di ogni punto di vista; mentre una filosofia integralmente antirealista sarebbe l’equivalente filosofico della pagina bianca di Mallarmé. Ciò detto, con il termine “antirealismo” oggi in genere si intendono le concezioni che, da una parte, rifiutano di considerare l’idea della realtà nel suo complesso come una nozione sensata e, dall’altra, non ritengono che la scienza offra un punto di vista rilevante per le discussioni filosofiche. Queste concezioni hanno avuto una funzione propulsiva e antidogmatica, ma oggi tendono a ripetere stancamente tesi sviluppate nel secolo scorso. E questo è il migliore dei casi, perché nel peggiore l’antirealismo produce forme di irrazionalismo francamente velleitarie e talora pericolose. Spesso, per esempio, il negazionismo rispetto alle questioni sanitarie è prodotto da questo humus filosofico.

La posizione realista non mette tutto a posto. Ci sono domande chiave che il libro affronta. Per esempio: meglio affidarsi ai sensi o alla scienza per indagare la realtà? Che dobbiamo fare con le proprietà qualitative – colori, suoni, odori – che Galileo aveva escluso dalla scienza? Le entità collettive, come le multinazionali, per non parlare di quelle non materiali, come i numeri, che statuto hanno? E i giudizi morali su che cosa si basano?

Un momento cruciale per la discussione su quale sia il migliore realismo filosofico si ebbe tra fine Cinquecento e inizio Seicento, quando l’Italia era ancora il centro della cultura europea (bei tempi). Si sviluppò allora una vivacissima discussione tra un partito culturale di matrice aristotelica e uno di matrice platonica (a cui apparteneva Galileo). Quella discussione riguardava il modo in cui si deve intendere l’idea di realtà naturale. Per i platonici il mondo vero era solo quello delle entità matematizzate di cui ci parlava la nuova fisica: un mondo in cui c’era posto per entità inosservabili (come gli atomi) ma non per le cosiddette “qualità secondarie” (colori, odori, sapori) che sono un prodotto della nostra mente. Questa discussione – con i dovuti aggiornamenti – è viva ancora oggi.

E infatti, in realtà – il gioco di parole è voluto – anche oggi esistono diversi realismi. Definiamo in breve quello ordinario e quello scientifico.

Secondo il realismo ordinario (che è erede del partito aristotelico di cui abbiamo parlato) il mondo reale è sostanzialmente quello che esperiamo con la percezione, mentre la scienza naturale – soprattutto quando fa riferimento a entità inosservabili, come i buchi neri e gli atomi – è un utile strumento di previsione, ma non ci parla veramente del mondo così com’è. Questa opinione è propria della fenomenologia a partire da Husserl e di molta parte della filosofia continentale, ma è anche difesa da uno dei maggiori filosofi della scienza contemporanei come Bas van Fraassen. Il realismo scientifico (difeso, per esempio, da Quine e da Searle) assume il punto di vista opposto. Secondo questa concezione, è la scienza naturale a descrivere il mondo così com’è, mentre la percezione ci mostra un mondo che è nulla più di un’approssimazione di quello reale, perché il mondo reale non è colorato, non ha suoni né odori. Inoltre, mentre oggi i realisti ordinari tendono ad accettare come legittime le pretese oggettive della morale (in fondo, noi percepiamo la sofferenza delle persone e per questo sappiamo che dovremmo aiutarle), molti realisti scientifici sono scettici sull’oggettività dei giudizi morali.

Il più nuovo e interessante è il realismo pluralistico (o naturalismo liberalizzato). Come nasce, che cosa sostiene e come può mettere d’accordo (quasi) tutti?

L’idea fondamentale del naturalismo liberalizzato è che tanto il realismo ordinario quanto quello scientifico sono plausibili nelle rispettive tesi positive ma le accompagnano con tesi negative molto recise e unilaterali. Questa duplice unilateralità dipende da una tendenza intellettuale molto diffusa, ma spesso fuorviante: quella alla semplificazione. La realtà però non è semplice, ma estremamente variegata. Assumendo questa prospettiva, il naturalismo liberalizzato è caratterizzato da un costitutivo pluralismo, sia sul piano ontologico sia su quello epistemologico: accetta, cioè, che sia la percezione sia la scienza parlino della realtà. Ovviamente, è una posizione complessa: ma di soluzioni semplici, nella storia del pensiero, ne abbiamo avute sin troppe.