Meditazioni quotidiane: “Scolpire l’anima”

La sapienza mattutina del cardinale

Forse non è soltanto per motivi di praticità che il cardinale Gianfranco Ravasi ha voluto allineare nel suo

Scolpire l’anima (Mondadori, pagine 416, euro 22,00) «366 meditazioni quotidiane».

Scolpire l'anima: 366 meditazioni quotidiane di [Gianfranco Ravasi]

Sì: 366, a coprire anche le esigenze di un prossimo anno bisestile, com’è giusto che sia per un volume che si propone come una specie di calendario perpetuo per l’introspezione e la riflessione spirituale.

Ma per quel giorno in più si può trovare un’altra giustificazione, che riguarda in modo più specifico il magistero che il presidente del Pontifico Consiglio della Cultura svolge ormai da molti anni. Si tratta del continuo scambio tra parola degli uomini e Parola di Dio, in una prospettiva di eccedenza – qualcosa in più, appunto – dello spirito rispetto alla lettera che Ravasi ha costantemente alimentato sia nella sua veste di biblista sia in quella di lettore onnivoro e appassionato. Ne è nato un genere letterario a sé stante, che si potrebbe definire del “mattutino”, riprendendo il titolo della fortunata rubrica che Ravasi ha tenuto a lungo sulla prima pagina di “Avvenire” e che ora prosegue, con formula di volta in volta mutata, grazie al contributo di diversi autori. Nella sua struttura originaria, il “mattutino” si compone degli elementi che ora troviamo elencati nell’introduzione (o «guida all’uso») che accompagna Scolpire l’anima. Una citazione, anzitutto, di provenienza spesso sorprendente, di norma più profana che sacra, come conferma una rapida scorsa all’indice dei nomi posto in calce al volume. Si dal premio Nobel Derek Walcott («Lo scopo della poesia è glorificare Dio») al grande matematico Jules-Henri Poincaré (la sua disciplina, assicura, «ha anche uno scopo filosofico»), dall’altrimenti misconosciuta Ada Negri («Tu mi cammini a fianco, o Signore, orma non lascia in terra il tuo passo») all’imperatore Giuliano l’Apostata, stupito dal fatto che «gli empi galilei» si prendano tanta cura dei poveri. Questa minima campionatura aiuta a rendersi conto non solo della vastità di fonti alle quali Ravasi attinge, ma anche della sua capacità di far risuonare ogni parola in maniera che la lettura sconfini nella meditazione. E non sarà casuale, pertanto, il fatto che a metà esatta percorso, nella data del 30 giugno, si trovi una frase, tratta da Gli zii di Sicilia di Leonardo Sciascia, nella quale la dismisura del significato viene messa a tema con esemplare semplicità: «Il libro è una cosa. Ma se lo apri e leggi diventa un mondo». Vale per tutti i libri, vale a maggior ragione per la Bibbia, i cui versetti ricorrono sempre con frequenza negli stringati commenti che Ravasi riserva ai frammenti di testo da lui trascelti. Non per niente quella che per noi è la Scrittura nella tradizione ebraica è semmai miqra’, ovvero la Lettura. È ancora il cardinale a ricordarlo nelle pagine iniziali di Scolpire l’anima, con una precisazione che implicitamente rimanda a un altro suo volume tornato in libreria di recente.

Apparso originariamente nel 1995, Il racconto del cielo (il Saggiatore, pagine 302, euro 20,00) è una personalissima traversata dell’Antico Testamento, condotta integrando la successione cronologica degli eventi con l’analisi dei nuclei tematici portanti. Particolare attenzione è dedicata alla dimensione profetica, della quale ci si avvale già per illustrare il resoconto della Creazione. «Il profeta, più che un uomo annunziatore di un remoto passato, è un uomo di battaglia nel suo presente storico», avverte Ravasi fissando un criterio che sorregge tutto l’impianto del libro, nel quale può capitare di trovare convocati il Milton di Paradiso Perduto e il rivoluzionario Majkovskij, le melodie sacre di Charpentier e le dodecafonie di Schönberg. Ogni risorsa viene messa al servizio di un’interpretazione che ha, a sua volta, nei libri sapienziali della Bibbia (Giobbe, Qoelet, Proverbi, gli stessi Salmi) la sua chiave più caratteristica. Con un dettato più disteso, il metodo rimane lo stesso dei “mattutini”. A proposito: il fatidico 29 febbraio ospita la «regola d’oro» per cui «nessuno di voi è un vero credente fino a quando non desidera per il fratello quello che desidera per sé». Un detto ( hadith) del profeta Muhammad che ha la funzione di un ponte gettato tra Scritture e letture.

Gianfranco Ravasi propone “366 meditazioni quotidiane” facendo della formula inventata per “Avvenire” un vero genere letterario

Le sette parole di Maria

di: Roberto Mela

7 parolemaria

«O Signore, io stessa sarò la tua musica», dice un bel versetto del poeta elisabettiano John Donne (1571-1631) citato dal card. Ravasi nel suo ennesimo volume di riflessioni bibliche, punteggiato come sempre da numerose citazioni letterarie, pittoriche e musicali in specie. Sette le parole di Maria commentate, di cui una fatta di silenzio, espressa con «stava (ritta)» sotto la croce del suo Figlio. L’autore le inquadra brevemente nel loro contesto.

Il linguaggio non è tecnico filologico-esegetico, ma riflessivo e generale. Ravasi nota come le parole Maria siano «marginali» nei testi evangelici: 16 versetti con 154 parole greche (di cui 102 espresse nel Magnificat) sulle 19.404 del Vangelo di Luca e sulle 15.416 di Giovanni. Ravasi ne ripercorre “cronologicamente” l’espressione, seguendo Maria nel suo cammino di fede.

La prima parola (Lc 1,34) è la domanda di chiarificazione della modalità di realizzazione del piano di Dio all’interno del progetto matrimoniale di Maria. Pronta in Lc 1,38 l’espressione della piena disponibilità della «serva/doulē del Signore», come “servi di YHWH” erano stati vari personaggi dell’AT (per lo più maschili), con grandi compiti nella storia della salvezza. Ricordo però che solo qui c’è l’espressione «la serva» di YHWH con l’articolo, caso unico nella Bibbia.

Alla visitazione, in cui Maria è proclamata da Elisabetta «la credente», segue l’esplosione del canto del Magnificat. Alla terza parola di Maria (Lc 1,46-55) Ravasi dedica le pp. 49-90, proponendone un’analisi letteraria generale, a cui seguono alcune considerazione versetto per versetto.

Anche se frutto della pietà della comunità primitiva e intessuto di riferimenti all’AT, il cantico di addice bene a Maria. Ella canta la grazia immeritata di YHWH sulla sua piccolezza e la scelta paradossale di YHWH, ma costante nella storia della salvezza, di strumenti “deboli” per realizzare i suoi piani. Nel Magnificat si canta il ribaltamento della mentalità umana tipica del regno di Dio, ma che inizia già fin d’ora. I setti aoristi impiegati come un martello indicano la puntualità di attuazione ma, essendo secondo Ravasi anche aoristi gnomici, attestano pure ciò che è il modo solito di agire di YHWH nei confronti dell’umanità.

La ricerca addolorata e penosa (odinōmenoi, Lc 2,48) – più che di due «angosciati» (così CEI 2008) – da parte dei due genitori verso Gesù «impegnato nelle cose del Padre suo», mostra la loro fatica nel comprendere la persona e il cammino del Figlio di Dio, che però verrà sempre accompagnato nella sua vita dall’affetto e dalla fede di Maria e di Giuseppe.

A Cana di Galilea (Gv 2,1-11) Maria svolge non tanto una funzione provvidenziale di soluzione del dramma di due giovani sposi rimasti senza vino durante la festa, ma quella di favorire l’instaurazione della nuova alleanza della Chiesa-sposa (mai nominata) con il vero Sposo nella celebrazione dell’abbondanza delle nozze messianiche. Maria è invitata da Gesù a uscire dal piano dei rapporti familiari e della ricerca di segni prodigiosi a quello dell’attuazione della storia della salvezza, che vede a Cana scoccare l’inizio (così il benemerito Segalla) di quell’Ora (che viene solo per volontà del Padre…), che troverà il suo apice al Golgota. In quel momento ricorrerà per la seconda volta il termine «donna», al vocativo gynai. Col suo brusco «che cosa c’è fra me e te, o donna?» Gesù non si mostra scostante nei confronti di Maria, ma con un fraseggio tipicamente ebraico rivela la diversa prospettiva di vedute e invita la madre a raccordarsi con la sua.

Da parte sua Maria invita con la sua sesta parola i «diaconi» a fare tutto quello che Gesù eventualmente dirà (Gv 2,5). Con ciò l’evangelista Giovanni allude alla funzione provvidenziale di Giuseppe in Egitto e alla volontà di Israele di “ascoltare e fare” le dieci parole che YHWH donerà al Sinai durante la stipulazione della Prima alleanza.

Sotto la croce (Gv 19,26-27) accade una scena di rivelazione-vocazione-missione che non tende tanto a ricordare cronachisticamente un testamento filiale e un affidamento di Maria alla custodia umana del Discepolo Amato, quanto la rivelazione del volto della Chiesa madre che nel momento dell’abbandono/distacco da Gesù morente diventa feconda di sempre nuovi figli. La donna/gynai diventa madre feconda in modo nuovo (cf. Ap 12).

È una parola silente quella settima di Maria sotto la croce. È espressa nel suo «stare ritta» in modo continuo e stabile. Stabat Mater dolorosa, onoreranno con pietà gli autori in un’infinità di opere musicali la madre che contempla il Figlio, nella costanza di chi non fugge ma raccoglie il mandato del Figlio di Dio.

La tradizione popolare e la pietà verso la madre Maria hanno voluto esplicitare il silenzio dell’Addolorata. Jacopone di Todi in questo è un maestro: «Figlio bianco e vermiglio,/ Figlio senza simiglio/ Figlio a chi m’apiglio?/ Figlio, m’hai lassato./ Figlio bianco e biondo/ Figlio, volto iocondo,/ Figlio, perché t’ha ’l mondo,/ Figlio così sprezzato?/ Figlio dolze e placente,/ Figlio de la dolente,/ Figlio, hatte la gente/ malamente trattato» (cit. a p. 131).

Noto en passant a p. 46 r 3 che hóti non è un avverbio, ma una congiunzione causale. Utile la bibliografia utilizzata dall’autore (pp. 147-149).

  • Gianfranco RavasiLe sette parole di Maria (Lapislazzuli s.n.), EDB, Bologna 2020, pp. 152, € 12,00, ISBN 978-88-10-56964-1.
  • Fonte: Settimana News

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