Ricominciare dalla preghiera dei fedeli

Nel clima di dibattito attorno alla nuova traduzione del Messale pubblichiamo un contributo comparso come editoriale sul sito della Rete delìi Viandanti (www.viandanti.org) il 29 novembre scorso. (fonte Adista)

lo ha scritto Roberto Boggiani, Medico, operatore in una comunità di accoglienza a Parma.

La preghiera dei fedeli fu ripristinata dal Concilio Ecumenico Vaticano II con la Costituzione Sacrosanctum Concilium (n. 53), riguardante la riforma liturgica. Sembrava essere il primo strumento messo in mano ai laici per dar loro voce in seno alla celebrazione eucaristica, in ossequio al riscoperto carattere sacerdotale di tutto il popolo di Dio.

Di spontaneo è sortito ben poco

Si tratta di una sequenza di invocazioni, di richieste di aiuto, di ispirazione, di grazie, posta giusto al termine della Liturgia della Parola e appena prima della Liturgia Eucaristica.

Essendo, almeno in linea di principio, a disposizione dei fedeli poteva assumere il carattere della spontaneità come, per fare un paragone un po’ ardito, l’omelia è a discrezione del singolo celebrante o comunque del presbitero o del diacono demandato. Come per l’omelia, ancor più per le preghiere dei fedeli è naturale che esistano delle linee guida.

Le intenzioni di preghiera seguono uno schema fisso, cui possono essere aggiunte altre a discrezione, spazio di solito poco utilizzato, se non in circostanze particolari. Lo scopo è di pregare per le necessità della Chiesa e del mondo e la successione di solito è la seguente: la Chiesa universale nella varietà dei ruoli e dei carismi, i governanti che presiedono alle sorti degli abitanti della terra, le categorie di persone in circostanze particolarmente critiche, l’assemblea eucaristica particolare e la comunità locale.

Come possa essere successo che, in oltre cinquant’anni, di spontaneo sia sortito ben poco e che le varie assemblee particolari preghino solitamente seguendo delle formulazioni preconfezionate diffuse mediaticamente, seppur da più fonti, lascia allibiti ma è nella realtà dei fatti.

Le preghiere dei “foglietti”: aride acrobazie linguistiche

Una generazione come la mia non riesce tanto a digerire le formulazioni auliche, prolisse, con sintassi spesso articolata, a contenuti sempre molto elevati, che ci propinano i foglietti distribuiti fra i banchi, i quali hanno sì lo scopo di favorire una migliore partecipazione personale, soprattutto alle letture, e di poterne fare memoria lungo la giornata o magari lungo la settimana, ma nessuno ripeterà le preghiere dei fedeli ivi riportate.

Sentirsi esclusi dall’esternazione orante personale è forse per la maggioranza una rassegnazione: è sempre stato così. Alla faccia dei segni dei tempi che vedono l’Eucaristia, fonte e culmine della vita cristiana, sempre meno frequentata e, fuori, una società sempre più secolarizzata.

La posta in gioco è la vita di fede dei fedeli stessi. Se essi vedono così contratta la loro possibilità di espressione dentro l’Eucaristia, come potranno prorompere nell’annuncio alla gente di fuori, in mezzo a chi non conosce, non accetta, non può godere della bella notizia che i cristiani non annunziano più, che si tengono gelosamente per loro, che non ha più attrattiva, specialmente per le giovani generazioni?

Liberare la preghiera dei fedeli

Esprimendo se stessi nella preghiera, arricchirebbero pure la visuale del pastore sui fedeli affidati alle sue cure. Ciò fungerebbe di verifica di quanto da essi raccolto dall’ascolto della Parola di Dio, dentro e al di là dalla sua personale predicazione, e della risonanza da essa provocata.

Si pensa che il pastore conosca già le sue anime nella confessione. Nulla di più vero. O forse no? Ma le anime poi si conoscono spiritualmente fra di loro? Ho l’impressione che le espressioni di fede, con tutto il corteo verbale e gestuale che comportano, restino troppo confinate allo spazio intimo pastore/fedele. Mi pare che all’interno della comunità, e nella celebrazione eucaristica in particolare, non si riesca ad apprezzare quello spirito di apertura reciproca che dovrebbe sommamente rappresentarla. Le relazioni tra i fedeli sempre riguardano più il da farsi che l’essere autentici testimoni.

Non sarà certo la preghiera universale restituita ai fedeli a riempire di nuovo le chiese per la messa, ritengo, però, che la restituzione al popolo della preghiera dei fedeli sarebbe già una notevole conquista.

Condividere anche la Parola

Nell’ottica di una rivitalizzazione della celebrazione eucaristica, bisogna pensare anche ad ulteriori spazi partecipativi, senza possibilmente stravolgere l’attuale assetto.

Ultimamente un accorato intervento di Enzo Bianchi su Jesus del marzo scorso si domandava: “Quanti presiedono l’eucaristia dovrebbero porsi una domanda: l’assemblea che sta loro di fronte, di quale azione liturgica ha bisogno per potervi partecipare? Come quest’assemblea può riconoscere in ciò che celebra la Pasqua del Signore e la sua presenza viva di Kýrios, di Signore su di essa? Le domande sono molte, a partire da quella che ripeto spesso: quando la chiesa permetterà a dei fedeli, uomini e donne, preparati, scelti e riconosciuti nel carisma di spezzare la Parola, di intervenire con ordine nell’omelia presieduta dal presbitero?”. Personalmente lo vedo un traguardo lontano, stando così chiuse e sedimentate le cose.

Penso piuttosto al dopo-comunione quale momento opportuno, vorrei dire, di Condivisione della Parola (ma ben più forte è lo “spezzare la Parola” di Enzo Bianchi!), ben spaziato temporalmente dal Ministero della Parola (l’omelia presbiterale). Si potrebbe dare seguito al silenzio (spesso troppo breve) di preghiera intima individuale che segue la comunione con più voci che comunicano ai fratelli il proprio messaggio di entusiasmo personale, di incoraggiamento, di vita, in un particolare momento in cui forte è l’ardore di fede, l’anelito di speranza, il vigore di carità che la comunione suscita.

Muti in chiesa, loquaci sul sagrato

Ciò potrebbe creare una bella aspettativa nell’assemblea, che altrimenti opta per una conclusione rapida e il passaggio alle esternazioni sul sagrato. Quel che di empatico e informale, di faceto e – perché no – di profano, che fa seguito ad una scena sostanzialmente muta durante la celebrazione. Che resta ordinariamente muta nel seguito.

Al più si indugia in apprezzamenti generici della performance omiletica del celebrante, dove fra la mitizzazione e la squalifica solitamente non esiste nulla. Forse si sovrapporrebbero dei preziosi richiami a quel che l’uno o l’altro ha espresso, spunti anche di meditazione che poi emergerà nella condivisione successiva, con un’auspicabile progressione sia qualitativa che quantitativa della partecipazione.

Due pratiche (la spontanea preghiera dei fedeli e la condivisione della Parola) che, credo, sarebbero di aiuto per essere lievito che fa fermentare tutta la pasta, per renderci capaci di dare sapore a questa società spiritualmente scipita.