Meloni / Altro che abiura del fascismo in tre lingue. Giorgia Meloni ha preso tardivamente le distanze (nel 2022) dagli aspetti più aberranti del fascismo mussoliniano come leggi razziali e dittatura

ALLIEVO DI DE FELICE, È AUTORE DI NUMEROSI VOLUMI SUL VENTENNIO

Lo storico Canali: presa di distanza tardiva e «strategica»

Altro che abiura del fascismo in tre lingue. Giorgia Meloni ha preso tardivamente le distanze (nel 2022) dagli aspetti più aberranti del fascismo mussoliniano come leggi razziali e dittatura. E, vista la sua biografia, se dovesse diventare premier sarebbe paradossale un giuramento di fedeltà a una Costituzione antifascista scritta dai leader della Resistenza e dagli oppositori del regime. Non crede alla scelta della leader di Fdi Mauro Canali, 80 anni, storico, allievo di Renzo De Felice e consulente di Rai Storia. A lungo docente a Camerino, Canali ha dedicato gran parte della sua ricerca storiografica all’Italia del Ventennio. «Quello di Meloni mi pare un tentativo tardivo e opportunistico di prendere le distanze dal fascismo e dalla sua stessa storia personale che la portò ad aderire giovanissima all’Msi, poi ad An e quindi a Fratelli d’Italia di cui è la leader. Mi pare un trucco per presentare in Italia e in Europa credenziali di legittimità a governare sapendo che restano le ombre sulla sua adesione a certe ideologie che fino ai discorsi più recenti non ha mai condannato esplicitamente». Canali, autore del recente volume Gli uomini della marcia su Roma, spiega questo ritardo in modo molto chiaro. «Nel suo elettorato ci sono gruppi che si rifanno esplicitamente alla dottrina fascista e che le hanno dichiarato sostegno. Ma evidentemente oggi Meloni non può presentarsi all’elettorato italiano e all’Ue come erede di movimenti nostalgici. Questo paese, qualora vincesse la destra, per la prima volta nella storia repubblicana sarebbe governato da un personaggio che ha sostenuto la legittimità di certe ideologie condannandone solo gli aspetti più aberranti. È una manovra già vista in passato con Giorgio Almirante». Il leader del Msi fu repubblichino e caporedattore della rivista La difesa della razza. Giorgia Meloni lo ha definito grande politico e patriota. «Ma la nostra Costituzione si basa sull’antifascismo – ribatte lo storico – e Almirante non era certo un padre costituente. Invece lo sono stati i teorici e i dirigenti più importanti della Resistenza, che hanno abbattuto con l’intervento decisivo degli alleati il regime, ponendo al centro del dettato costituzionale l’antifascismo».

A ogni elezione si riflette sulla anomalia italiana dove manca una destra maggioritaria che abbia rinnegato il fascismo. Sulla questione l’allievo di De Felice, considerato lo storico più autorevole sul regime, taglia corto: «Questo paese è fondamentalmente di destra. La prima dittatura moderna di destra è stato il fascismo italiano. I movimenti di sinistra in Italia sono sempre stati minoritari anche nei momenti di maggiore espansione del Pci, che ha assorbito le principali istanze socialdemocratiche. Non fatico a pensare che Meloni esprima istanze esistenti nelle viscere del paese, ce le portiamo dentro dal ’900. E quindi non riesco a collocare Fratelli d’Italia all’interno di un panorama antifascista come quello espresso dalla Carta costituzionale che peraltro vorrebbero cambiare in senso presidenzialista».

Resta la questione dell’adesione alla Ue, che la leader intendeva rassicurare con il suo discorso. Canali indica un’amicizia ingombrante che va nella direzione opposta, ovvero il leader sovranista ungherese Viktor Orbán, membro del gruppo di Visegrad, fautore della democrazia illiberale e teorico della purezza della ‘razza europea’ da difendere dagli immigrati. «In Italia ci sono partiti antieuropeisti e nazionalisti. In questa fase elettorale tacciono su Bruxelles, ma il legame di Meloni con il presidente ungherese è significativo. È un antidemocratico che ha riscritto la costituzione ungherese riducendo l’opposizione a un simulacro. Se Meloni diventasse premier, l’Italia rischia di diventare la prima nazione fondatrice a virare su posizioni sovraniste ». Dunque il fascismo non è mai morto? «Quello storico di Mussolini è morto con lui. Oggi si presenta in altre forme. Davanti alla paura dei grandi cambiamenti e alla crisi della democrazia propone il nazionalismo, un potere forte e il rifiuto della modernità».

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«Fatico a considerare Fdi antifascista Inoltre, Meloni ha legami con Orbán Se diventasse premier, l’Italia sarebbe la prima nazione fondatrice dell’Ue su posizioni sovraniste»

Il professor Mauro Canali

La memoria può accendere gli sguardi della politica

Che sia una questione d’occhi, il come si affronta la vita? Se penso a De Gasperi e La Pira dico di sì, perché gli occhi della fede fanno guardare al bene comune con una passione civile ben diversa. Ogni mattina si leggono, obtorto collo, le notizie sui movimenti elettorali delle varie coalizioni, ma durante il mio viaggio fra cantine e imprenditori continuo a incontrare un mondo parallelo, preoccupato sì per un futuro incerto, ma determinato nel fare e nel restituire in nome di una memoria che non si è spenta. Caterina Dei è la punta dell’iceberg della produzione di Vino Nobile di Montepulciano e i suoi vini vanno in tutto il mondo. Assaggio il 2017 “Madonna della Querce”, Nobile dedicato al padre Glauco, imprenditore del travertino mancato il 28 maggio del 2018, e Caterina mi racconta che nella medesima data – ha scoperto – è stata posta la prima pietra della Cittadella di Padre Pio a Drapia (VV), voluta da Irene Gaeta, per la quale la famiglia Dei ha offerto tutto il fabbisogno in pietra per costruire una grotta come a Lourdes. Ora, sarà azzardato il paragone, ma nella passione che Caterina mette per ottenere vini unici e caratteristici, ho visto i medesimi occhi con cui i monaci bonificarono la Borgogna e poi fecero il resto.
A Pignola, paese adiacente a Potenza, c’è una chiesa dell’Anno Mille che domina la vallata. E proprio sotto, l’imprenditore Paolo Patrone, coi suoi figli Giovanni e Nicola, ci ha messo 11 anni per ristrutturare un palazzo del ‘600 e costruire uno dei resort più belli che possiate immaginare: Dimora Giorni. Anche lui produce vino (fa il Cabernet in Basilicata) e si applica col variegato mondo del gusto. Però quando sono arrivato, la prima cosa che ha fatto è stata portarmi dal miglior gelatiere d’Italia (questo lo dico io, dopo l’assaggio): Luigi Buonansegna, che ha imparato il mestiere a Firenze andando a scuola dagli stessi gelatieri mitici della città. Ha abbandonato la carriera di avvocato ed è tornato a Pignola a issare la bandiera della qualità. Poco dietro c’è una macelleria elegante e piccola, dove Arcangelo Faraldo fa dei salumi spettacolari (chiedete la gelatina realizzata con le parti meno nobili del maiale) e lavora con la razza podolica di queste zone. Ma ancora più minuscola è la latteria di fianco alla Dimora, che vende il latte fresco e le mozzarelle. Con Paolo, che per 9 anni è stato sindaco di questo paese, ho visto in poche ore un mondo fatto di relazioni e di riscatto. Di una memoria che rende gli occhi vivi, capaci di fare quello che vorremmo anche dalla politica: un patto duraturo per il bene del Paese.

Avvenire

Verso il voto. Calenda strappa col Pd. Letta: così aiuta la destra

A pochi giorni dal patto firmato, il leader di Azione ha fatto retromarcia. Il movito: gli accordi che Letta ha stretto sia con Sinistra Italiana e Verdi sia con Luigi Di Maio e Bruno Tabacci

Calenda strappa col Pd. Letta: così aiuta la destra

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Carlo Calenda rompe l’intesa con Enrico Letta e scatena l’ira dei dem. Il fronte progressista messo pazientemente insieme dal segretario Pd per sfidare FdI, Lega e Fi ha perso un pezzo, quello di centro, che era stato il più corteggiato, il più difficile da convincere. A pochi giorni dal patto firmato, il leader di Azione ha fatto retromarcia.

“È una delle decisioni più sofferte – ha detto – ma non intendo andare avanti con questa alleanza” ha detto Calenda. A fargli cambiare idea, ha spiegato, è stata l’aggiunta dei “pezzi stonati”, cioè gli accordi che Letta ha stretto sia con Sinistra Italiana e Verdi sia con Luigi Di Maio e Bruno Tabacci.

Una giustificazione che ha fatto infuriare il Pd: “Onore è rispettare la parola data. Il resto è populismo d’élite”. Perché – ricordano i dem – quando è stato siglato quell’accordo con Azione, era inteso che ci sarebbero stati patti anche con le altre forze.

Per Calenda, però, la coalizione del Pd “è fatta per perdere. C’era l’opportunità di farne una per vincere. La scelta è stata del Pd, sono deluso”. La risposta di Letta è stata lapidaria: “Da tutto quel che ha detto, mi pare che l’unico alleato possibile per Calenda sia Calenda. Se lo accetta. Noi andiamo avanti nell’interesse dell’Italia”.

L’annuncio di Calenda è arrivato domenica in tv, a In Mezz’Ora, dopo ore di un insolito silenzio social, che ha lasciato in sospeso i potenziali alleati, reduci dagli accordi firmati il giorno precedente. Letta ha lavorato per mesi a un fronte che fosse il più largo possibile, con l’obiettivo di giocare la difficile partita del 25 settembre, di contrastare un centrodestra dato come favorito nei sondaggi e che si presenterà unito, con una legge elettorale che premia le alleanze.

Il nuovo quadro delle coalizioni

Il quadro delle coalizioni al centro e a sinistra è stato stravolto. Di nuovo e in poche ore. Calenda correrà da solo, a meno che non trovi un’intesa con Matteo Renzi, al lavoro sul Terzo Polo con le liste civiche dell’ex sindaco di ParmaFederico Pizzarotti. Il Pd andrà avanti con Verdi-Si e Impegno civico di Di Maio e Tabacci. Anche con Più Europa,che è federata con Azione ma conferma l’accordo con il Pd.

“C’è grande sorpresa per la decisione unilaterale presa da Calenda – ha detto il deputato e presidente di +Europa, Riccardo Magi – Noi continuiamo a dare una valutazione positiva al patto col Pd”. Nonostante le spinte di Sinistra italiana, sembra escluso un ritorno di fiamma fra Pd e M5s. “È stato Conte a far cadere il governo Draghi – ha detto Letta – È stata un’enorme responsabilità e per noi, questo è un fatto conclusivo”. Anche il presidente Cinque stelle sembra aver chiuso la porta: “A Enrico rivolgo un consiglio non richiesto: offri pure i collegiche si sono liberati a Di Maio, Tabacci e agli altri alleati.Questo disastro politico mi sembra lontano anni luce dal progetto riformistico realizzato durante il Conte II”. Letta su Calenda: “Che promesse può fare agli italiani se sanno che già con gli alleatiha rotto la parola data? Con questa legge elettorale gli italiani dovranno scegliere se essere governati da Meloni, dalle destre o da noi, questa scelta è netta e Calenda ha deciso di aiutare la destra, facendo quello che ha fatto”.

Avvenire

Sogni e speranza, per la politica che verrà

di Stefano Fenaroli – vinonuovo.it

L’improvviso palesarsi all’orizzonte delle elezioni politiche – per certi versi una pratica alla quale non eravamo più abituati – non può che sollevare reazioni, considerazioni e aspettative diverse, dal classico disilluso («tanto non cambia niente») al cittadino impegnato che prende seriamente il proprio dovere civico, preparandosi e informandosi «dalla mattina a notte fonda» (sullo stile, per gli appassionati, del rag. Ugo Fantozzi). D’altra parte, soprattutto di questi tempi, non è facile sentirsi liberi di esprimere un proprio parere, specie se all’interno di una cornice chiaramente di fede, per giunta cristiana. Il riferimento ovviamente è alla non poco velata strumentalizzazione di un certo devozionalismo di matrice cristiana (almeno in superficie), che in maniera grottesca mischia politica e credenza (corrompendo entrambe), facendo così perdere a priori credibilità a qualsiasi parere “dal sapore cristiano” in ambito politico.

Queste poche battute, allora, non vogliono suggerire delle preferenze né tanto meno mettere in luce dinamiche, problematiche o aspettative che da più parti, comunque, in questi giorni potremo sentire, percepire e più o meno condividere. L’intenzione, piuttosto, è esprimere a voce alta una speranza, un desiderio, volgendo lo sguardo «alla politica che verrà».

Come ben sanno gli specialisti, il periodo storico nel quale viviamo veniva definito, almeno fino a qualche anno fa, come post-moderno, vale a dire un tempo che si è ormai distaccato e lasciato alle spalle l’epoca moderna. Il principale carattere di questo nostro tempo, e quindi della sua società, è quello che Baumann definì come «liquidità», declinata a suo modo da Benedetto XVI come «relativismo», e che per intenderci – senza voler entrare nei dettagli – potremmo definire come “mancanza di” o “difficoltà nel darsi” un’identità chiara e distinta. Non è un caso che proprio la definizione stessa di post-moderno, in effetti, definisca il nostro presente ma a partire dal passato. «Noi» siamo ciò che viene «dopo il moderno»; ma cosa siamo «noi»? È un po’ come se i medioevali fossero stati in grado di definirsi tali, paradosso che nasce proprio dal fatto che un periodo, in realtà, lo si può “de-finire” solo nel momento in cui è “finito” (come il Medio-evo, per l’appunto).

Tornando al nostro discorso originario, questa «liquidità» intesa come difficoltà a darsi un’identità è tutt’altro che vista come un ostacolo o un difetto. Al contrario, essa nasce dall’aver felicemente lasciato da parte quelle che Lyotard ha definito le «grandi narrazioni», vale a dire le grandi ideologie del Novecento (fascismo, nazionalsocialismo, comunismo ecc.). Con la caduta del muro di Berlino, anche l’ultimo di questi grandi “-ismi” è terminato, si è letta l’ultima pagina anche di questa “grande narrazione” e si è rimesso al centro ciò che più conta e che sempre dev’essere tutelato: la libertà (sia essa politica, economica, culturale ecc.). «Liquidità», quindi, è sinonimo di «libertà».

È proprio qui, tuttavia, che, alla luce degli effettivi sviluppi della storia politica italiana, sorge un dubbio e quindi una speranza. Potremmo dire così: non sarà che insieme all’«acqua sporca» delle ideologie abbiamo anche buttato «il bambino» dell’ideale? In senso stretto, l’ideo-logia è un discorso razionale e argomentato circa un’idea o un ideale. Assodato il fatto che le concretizzazioni del secolo scorso di determinate idee (o ideali) andavano e vanno tutt’oggi archiviate, sorpassate e condannate (con buona pace di certi orientamenti politici attuali), resta il fatto che un discorso serio a partire da determinati ideali è o, per lo meno, dovrebbe essere il terreno fecondo dal quale partire per “fare politica” oggi. Non è questo, d’altra parte, ciò che si intende quando si sente auspicare una politica capace di costruire alleanze e coalizioni di larghe intese, con programmi condivisi di ampio respiro?

Qualcuno saluta con entusiasmo l’abbandono, il tramonto degli antichi schieramenti di destra e di sinistra (che effettivamente sembrano essere venuti radicalmente meno). Ma si può davvero riconoscere in questo un effettivo vantaggio, se insieme alla sterile etichetta (di cui certo si può fare a meno) si è perso anche l’interesse per quei valori che, certo, saranno astratti, spesso utopici ed evanescenti, ma sapevano guidare l’azione, l’impegno e romanticamente il cuore di chi si schierava da una parte o dall’altra? Se oggi, al loro posto, non ritroviamo valori condivisi (perché pur sempre di ideali si tratterebbe) ma semplicemente l’interesse economico, il tornaconto personale, il favoritismo clientelare, cosa ne ha guadagnato effettivamente il Paese? Se tutto si gioca nel qui e ora, in soluzioni (spesso neanche tali) a breve termine, in programmi di corto cabotaggio, dove si può trovare la passione, l’entusiasmo e (perché no) la capacità di sognare che dovrebbero muovere l’impegno e il lavoro di un vero statista?

Il mondo cambia velocemente, e qualcuno dice che la dizione da noi ricordata di «post-moderno» potrebbe già essere “antiquata”. Ebbene, di cosa possiamo discutere o su cosa possiamo costruire qualcosa, se il nostro orizzonte è limitato alla situazione qui e ora, che oggi c’è e domani potrebbe essere spazzata via da una guerra improvvisa o da una pandemia mondiale? Il nostro presente concreto, sociale e politico, dovrebbe essere il palcoscenico sul quale mettere in scena sempre nuovi drammi che nascono da una regia che condivide determinati ideali; il luogo in cui trova determinazione concreta e attiva una politica che nasce dal confronto e dall’elaborazione di un programma di ampio respiro, capace di entusiasmare, risvegliare le passioni e, come si diceva, far sognare. Perché nemmeno tutti i soldi di questo mondo valgono una politica che nasce da e sa dare concretezza a un vivere sociale e civile umano, giusto, disponibile, accogliente, aperto e fraterno. Ripensandoci bene, tutta quella spettacolarizzazione del religioso che abbiamo citato in precedenza, non sarà forse il tentativo proprio di colmare, malamente e rozzamente, questo vuoto “ideologico” che abita la politica, servendosi di facili stereotipi vecchi di duemila anni, per giunta falsificati e per nulla compresi, sperando che almeno questi scaldino e attirino qualche animo più nostalgico o semplicemente (e realmente) credente?

Concludendo, questa è la nostra speranza. Non una politica ideale (che in quanto tale non esisterebbe) quanto una politica dell’ideale, solo così capace di dare forma al reale. Quelli che abbiamo voluto offrire sono solo alcuni spunti, su cui tuttavia credo sia necessario riflettere, per recuperare una dimensione più alta e costruttiva della politica, quale autentico interesse per la polis. E se qualcuno si domandasse da dove partire, qualche buono spunto potrebbe ancora venirci da un’idea, da un motto non solo precedente il nostro tempo post-moderno, ma anzi proprio all’origine della Modernità: libertà, uguaglianza e fratellanza (parole che, tra l’altro, potrebbe suscitare anche un sano interessante teologico: e se Dio stesso, nel suo essere Trinità, potesse essere pensato proprio così, in sé libero, uguale e fraterno?). Certo, niente di originale. Eppure, se davvero ripartissimo da qui per fondare la nostra repubblica (visto che di «lavoro» ce n’è sempre meno…), forse molti problemi potrebbero trovare una strada per iniziare a essere risolti.

Crisi di governo, Famiglia Cristiana: “Vincerà il buon senso”?

Crisi di governo, Famiglia Cristiana:

«È preoccupante apprestarci a vivere una campagna elettorale, che durerà fino alle elezioni del 25 settembre, e una successiva fase di governo, dove un risuscitato populismo rischia di distrarre dai veri problemi dell’Italia». Sul n. 31 di Famiglia Cristiana, in edicola dal 28 luglio, nella rubrica Colloqui col padre il direttore, don Stefano Stimamiglio, risponde a due lettrici («due tra le tante lettere giunte in redazione») sulle imminenti elezioni politiche.

Per il direttore del settimanale cattolico, populismo e astensionismo sono i due veri problemi su cui riflettere. «Il populismo, infatti, è uno dei nodi fondamentali dell’attuale fase politica, non solo in Italia. Esso non rappresenta niente di nuovo – sia chiaro –: riemerge regolarmente come un mostro nei momenti faticosi della storia, cavalcando crisi politiche ed economiche, proponendo facili soluzioni a colpi di spugna e giocando sulla memoria corta dei cittadini. Riusciranno i partiti a resistere alla tentazione di caderci dentro?»

«L’altra faccia del problema, però, sono gli elettori», prosegue don Stimamiglio: «Il 25 settembre troveranno motivazioni sufficienti per andare a votare andando in controtendenza rispetto alle ultime elezioni amministrative di giugno, in cui hanno votato solo il 54% degli aventi diritto? Avranno discernimento sufficiente per esprimere un governo credibile per il nostro Paese?»

In generale, don Stimamiglio fa sua l’analisi del politologo gesuita padre Francesco Occhetta: «Conte ha aperto la crisi, Salvini l’ha cavalcata, Meloni l’ha capitalizzata e Berlusconi l’ha avvallata, svuotando per sempre le attese moderate e liberali di cui Forza Italia era portatrice. È stato sacrificato così Mario Draghi, il presidente riformatore che, nei suoi 523 giorni di governo, ha svolto il ruolo di garante del Paese grazie a tre caratteristiche determinanti: credibilità, competenza e rigore morale».
Adista 

CRISI Economia a picco, la folla caccia il presidente Sri Lanka, l’assalto ai palazzi del potere

Migliaia di manifestanti spinti dalla rabbia per la grave crisi economica, nella capitale Colombo, hanno preso d’assalto la residenza del presidente dello Sri Lanka, Gotabaya Rajapaksa (nella foto), costringendolo alla fuga e all’annuncio delle dimissioni. Lascia il premier Ranil Wickremesinghe dopo le richieste dei partiti che intendono formare un governo di unità nazionale.

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