Nel discorso di fine anno, il presidente della Repubblica evoca gli esempi virtuosi di tanti italiani che si dedicano agli altri

 Nel discorso di fine anno, il presidente della Repubblica evoca gli esempi virtuosi di tanti italiani che si dedicano agli altri, dalla gente di Cutro ai volontari che sono andati ad aiutare l’Emilia Romagna devastata dall’alluvione. Poi invita a restare «uniti» e lancia un appello al voto: «Per definire la strada da percorrere, è il voto libero che decide. Non rispondere a un sondaggio, o stare sui social»

Famiglia Crisitiana

Un discorso rivolto più ai cittadini che ai palazzi della politica. Un discorso che ricorda gli esempi virtuosi e di civismo di tanti italiani che spesso in silenzio, lontano dai riflettori, si prendono cura degli altri e si adoperano per un futuro migliore e per tutelare i diritti dei più fragili, poveri, indifesi. Un discorso contrassegnato da un afflato civico e da un senso di ottimismo non generico ma profondamente radicato in quello che il presidente della Repubblica vede nei suoi viaggi in giro per l’Italia, da Cutro all’Emilia Romagna devastata dall’alluvione e soccorsa da tanti volontari ai luoghi dove associazioni, parrocchie, comitati civici impiegano e utilizzano, ad esempio, i beni confiscati alle mafie.

Ma, al contempo, è come se il Capo dello Stato avvertisse un senso diffuso di sfiducia, di stanchezza, di rabbia, una disillusione generale di cui sono esempi la scarsa partecipazione alle elezioni («Votare, partecipare alle scelte della comunità, è un diritto di libertà»), alle degenerazioni del dibattito in rete e sui social media e ad alcuni problemi che sembrano incancrenirsi anziché risolversi: il lavoro povero, i femminicidi, gli affitti esorbitanti chiesti agli studenti soprattutto nelle grandi città e che molte famiglie non possono sostenere, la mancata parità tra uomo-donna, («non solo sul lavoro anche nel carico delle responsabilità familiari»), le liste di attesa nella sanità, le periferie dimenticate dallo Stato piene di «risentimento».

Sergio Mattarella parla per sedici minuti nella sala Tofanelli alla Vetrata, in piedi, con l’albero di Natale sullo sfondo. È il suo nono discorso da Capo dello Stato. Evoca l’unità della Repubblica che, precisa, «è un modo di essere. Uno stato d’animo; un atteggiamento che accomuna; perché si riconosce nei valori fondanti della nostra civiltà: solidarietà, libertà, uguaglianza, giustizia, pace. I valori che la Costituzione pone a base della nostra convivenza». Questi valori Mattarella, «nel corso dell’anno che si conclude» li ha visti testimoniati da tanti nostri concittadini «incontrati», spiega, «nella composta pietà della gente di Cutro, riconosciuti nella operosa solidarietà dei ragazzi di tutta Italia che, sui luoghi devastati dall’alluvione, spalavano il fango; e cantavano “Romagna mia”». LI ha letti «negli occhi e nei sorrisi, dei ragazzi con autismo che lavorano con entusiasmo a Pizzaut. Promossa da un gruppo di sognatori. Che cambiano la realtà. O di quelli che lo fanno a Casal di Principe. Laddove i beni confiscati alla camorra sono diventati strumenti di riscatto civile, di impresa sociale, di diffusione della cultura. Tenendo viva la lezione di legalità di don Peppe Diana».

Mattarella tocca i temi più stringenti e ringrazia papa Francesco per il suo «instancabile magistero» a favore della pace. Su questo tema, il presidente invita a cambiare mentalità: «È indispensabile fare spazio alla cultura della pace. Alla mentalità di pace. Parlare di pace, oggi, non è astratto buonismo. Al contrario, è il più urgente e concreto esercizio di realismo, se si vuole cercare una via d’uscita a una crisi che può essere devastante per il futuro dell’umanità. Sappiamo che, per porre fine alle guerre in corso, non basta invocare la pace. Occorre che venga perseguita dalla volontà dei governi. Anzitutto, di quelli che hanno scatenato i conflitti».

Mattarella ricorda che «Impegnarsi per la pace significa considerare queste guerre una eccezione da rimuovere; e non la regola del prossimo futuro. Volere la pace non è neutralità; o, peggio, indifferenza, rispetto a ciò che accade: sarebbe ingiusto, e anche piuttosto spregevole. Perseguire la pace vuol dire respingere la logica di una competizione permanente tra gli Stati. Che mette a rischio le sorti dei rispettivi popoli. E mina alle basi una società fondata sul rispetto delle persone», sottolinea il Capo dello Stato, «per conseguire la pace non è sufficiente far tacere le armi. Costruirla significa, prima di tutto, educare alla pace. Coltivarne la cultura nel sentimento delle nuove generazioni. Nei gesti della vita di ogni giorno. Nel linguaggio che si adopera. Dipende, anche, da ciascuno di noi. Pace, nel senso di vivere bene insieme. Rispettandosi, riconoscendo le ragioni dell’altro. Consapevoli che la libertà degli altri completa la nostra libertà». E ricorda che «la guerra non nasce da sola. Non basterebbe neppure la spinta di tante armi, che ne sono lo strumento di morte. Così diffuse. Sempre più letali. Fonte di enormi guadagni. Nasce da quel che c’è nell’animo degli uomini. Dalla mentalità che si coltiva. Dagli atteggiamenti di violenza, di sopraffazione, che si manifestano».

 

Niente sfida. Musk: Zuckerberg rifiuta il combattimento da antichi Romani

Rispondendo a un tweet del ministro Sangiuliano, Musk lo ringrazia e mette la parola fine all’ipotesi di sfida in un sito archeologico italiano
Elon Musk e Mark Zuckerberg

Elon Musk e Mark Zuckerberg – Fotogramma

avvenire.it

Non ci sarà nessun combattimento fra Elon Musk e Mark Zuckerberg. O almeno non nello stile e nell’ambientazione dell’antica Roma. Né a Roma, né a Pompei né altrove in Italia. A mettere fine alla questione è un tweet del numero uno di Twitter, Tesla e Space X, che riferisce il diniego del fondatore di Facebook e numero uno di Meta.

“Voglio ringraziare il ministro Sangiuliano – scrive Musk il rispondendo a un post del ministro della Cultura – per la gentilezza e la disponibilità nel voler organizzare un evento di intrattenimento, culturale e di beneficenza in Italia. Volevamo promuovere la storia dell’Antica Roma con il supporto di esperti e allo stesso tempo raccogliere soldi per i veterani americani e gli ospedali pediatrici in Italia. Zuckerberg ha rifiutato l’offerta perché non è interessato a questo approccio. Vuole solo combattere se è la Ufc organizzare l’incontro. Io comunque sono sempre pronto a combattere”.

La Ultimate Fighting Championship (Ufc) è un’organizzazione di arti marziali miste statunitense, con sede a Las Vegas.

Pupi Avati su Dante, suo valore è poesia non politica

 © ANSA

– Il suo Dante ha fatto commuovere 1.000 studenti di Civitanova appena ieri in una delle decine di proiezioni scolastiche con cui il film di Pupi Avati prolunga la sua vita oltre la proiezione in sala.

Il regista, che si è documentato per mesi diventando ancora più di prima un grande appassionato del Sommo Poeta, interpellato sulle dichiarazioni del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano giudica l’uscita, “sia detto senza alcuna polemica, un po’ pretestuosa.

Nel senso che il valore di Dante, il motivo per il quale è sopravvissuto fino ad oggi e oltre oggi è la sua dismisura poetica, immensa, misteriosa, non certo la sua posizione politica”. Avati riflette e aggiunge: “è anacronistica, visto che parliamo di 700 anni fa e di un contesto completamente diverso. Non la sua posizione politica nè la sua omniscienza lo ha reso immortale, considerato il tempo medioevale, e neppure l’uso del volgare, ma semmai il volgare applicato ad una opera poetica cosi vasta”. Nel film, con Sergio Castellitto-Boccaccio e Alessandro Sperduti-Dante, “mi sono ben tenuto alla larga dall’attribuirgli una posizione politica. Alcuni dantisti lo hanno analizzato per le sue scelte, ma Dante ‘si mise in proprio’, disgustato da tutto e il periodo peggiore della sua vita al quale attribuisce le sue disgrazie furono i due mesi in cui fu priore ‘scendendo’ in politica”. “Se penso a Dante – aggiunge Avati – e all’ideologia non mi verrebbe mai in mente la destra ma diciamo ad onore del vero che la visione delle cose del mondo di Dante è totalmente inapplicabile all’ oggi, con un mondo davvero diverso”. (ANSA).

Disabilità: quello che resta da fare

di: Samuele Pigoni
settimananews.it

Come vengono rappresentate le persone con disabilità nel mondo dei media? -  AccessiWay

Oggi siamo lontani dalla segregazione e dalla violenza che portarono alla chiusura dei manicomi e alla rivoluzione di Franco Basaglia, ma il percorso per promuovere i diritti, il benessere e la piena dignità delle persone con disabilità è una rivoluzione non ancora terminata.

Il 3 dicembre si è celebrata in tutto il mondo la Giornata dedicata alle persone con disabilità, per promuoverne i diritti, il benessere e la piena dignità. È una data della quale tendenzialmente si accorgono e celebrano solamente le persone con disabilità, i familiari, gli addetti ai lavori, gli e le attivisti/e.

Eppure sono passati ormai 60 anni dai primi movimenti per i diritti delle persone con disabilità, dai primi disabilitiesstudies che hanno chiarito come le disabilità non siano più un ambito relegabile alla dimensione medica della cura e della protezione, essendo prima di tutto una questione di ordine sociale e di cittadinanza.

Va ricordato che con la Legge 3 marzo 2009, n.18 il parlamento italiano autorizzava la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità sottoscritta dall’Italia il 30 marzo 2007 e che la Convenzione, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006, rappresenta un risultato definitivo raggiunto dalla comunità internazionale in quanto strumento internazionale vincolante per gli Stati.

La Convenzione si inserisce nel più ampio contesto della tutela e della promozione dei diritti umani e conferma una volta per tutte in favore delle persone con disabilità i princìpi fondamentali di pari opportunità, di non discriminazione, di esigenza di pieni diritti di cittadinanza sulla base dei princìpi di autodeterminazione e uguaglianza con tutti. A tal fine la Convenzione modifica alla radice la definizione di disabilità promuovendone una diversa concettualizzazione che si fa mobile, sociale e relazionale.

Mobile perché si definisce come “un concetto in evoluzione” (preambolo), non definita a partire da un qualche ancoraggio bio-medico ma sottoposta al variare dello sguardo storico che la anima (il disabile è stato nelle epoche “mostruoso”, “deforme”, “subnormale”, “handicappato”); sociale, laddove dichiara che «per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con tutti» (art. 1 comma 2); relazionale, in quanto territorio di relazioni di potere tra lo sguardo abile della maggioranza disciplinante e il corpo disabile, disabilitato e discriminato (quando non segregato) da barriere materiali e immateriali.

E su questo la Convenzione è chiara, per “discriminazione fondata sulla disabilità” – infatti – si intende: «qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo» (art. 2).

È discriminante tutto ciò che preclude il set di opportunità concrete che permettono di desiderare e vedere realizzata una vita nel mondo di tutti, a prescindere dalle caratteristiche individuali.

La Convenzione dispone che ogni Stato presenti un rapporto dettagliato sulle misure prese per adempiere ai propri obblighi e sui progressi conseguiti al riguardo. La legge italiana di ratifica della Convenzione ha istituito l’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità che ha, tra gli altri, il compito di promuovere l’attuazione della Convenzione ed elaborare il rapporto dettagliato sulle misure adottate di cui all’art. 35 della stessa Convenzione, in raccordo con il Comitato interministeriale dei diritti umani (Cidu).

Siamo lontani dalla segregazione e dalla violenza che portarono alla chiusura dei manicomi e alla rivoluzione di Franco Basaglia, ma il percorso di de-istituzionalizzazione fisica e immaginale, il riconoscimento alla persona con disabilità del diritto a una vita indipendente e progettata sulla base dell’uguaglianza con tutti, è una rivoluzione non terminata.

Un percorso che oggi è attuale e necessario e che investe i temi della casa in cui vivere, del lavoro cui aspirare, dell’affettività e della sessualità, del rapporto con la famiglia e dei dispositivi attuativi a disposizione dei sistemi socio-sanitari.

Siamo di fronte a un cambio di passo decisivo nella rappresentazione culturale delle disabilità (e per converso: delle abilità), nel riassetto dei servizi e dispositivi giuridici preposti alla tutela dei diritti di cittadinanza delle persone con disabilità, nei dispositivi pratici, educativi, relazionali con i quali costruire le capacità dei contesti (lavoro, scuola, quartiere) di eliminare le enormi barriere materiali e soprattutto immateriali residue. Barriere che abbiamo conficcate nello sguardo, molto spesso, anche in quello animato dalle migliori intenzioni.

Pubblicato sul sito della rivista Confronti. L’autore è direttore della Fondazione Time2, si occupa di management, progettazione sociale e filosofia.