ESPERIENZE DI CHIESA Divorziati risposati: quale accoglienza?

di GIANFRANCO CHIARI
Viene da chiedersi se il vero lavoro pastorale dopo Amoris Laetitia dovesse avere al centro, oltre alle persone risposate, anche l’intera comunità.

L’articolo sulla Via Crucis delle famiglie e le poche righe scritte da papa Francesco in risposta ai quesiti posti da fra James Martin a riguardo dell’accoglienza riservata nella Chiesa alle persone LGBT mi hanno riportato al passato e a parole sentite per anni: la chiesa accoglie tutti e non fa differenze fra i suoi figli; se quindi qualche volta si incontra inospitalità o aperta ostilità, ciò deve essere imputato alle persone che fanno parte della chiesa ma non alla chiesa in se stessa.

Sono divorziato e risposato dal 1997. Il mio status, come fedele, era regolato da quanto stabilito dalla Familiaris Consortio, che, pur con toni garbatissimi, ha imposto fino a tempi recenti gravosi divieti in modo indiscriminato a tutti i risposati, senza eccezione alcuna.

In questo lunghissimo periodo, ho partecipato -prima come fedele e poi come operatore- a tante esperienze pastorali, sempre accettando le condizioni che il magistero stabiliva per me. Non accedevo ai sacramenti, pur avendo incontrato infinite volte sacerdoti pronti a somministrarmeli, ed accettando di conseguenza tutte quelle piccole e grandi discriminazioni che -di tanto in tanto- accadevano nella comunità parrocchiale. Discriminazioni non imputabili solo, soggettivamente, alle persone sbagliate -laici o presbiteri che fossero- ma soprattutto ad un magistero sfornito di misericordia e per nulla accogliente.

Però, ripeto, ho cercato di approfondire le ragioni del trattamento riservatomi, concludendo che forse era il mio orgoglio ad impedirmi di vedere correttamente la mia situazione con il distacco necessario. Del resto, la condizione particolare mia e di mia moglie -entrambi divorziati- rappresentava spesso un unicum nelle comunità frequentate e quindi spesso assumevamo il ruolo di testimoni in incontri di vario genere; quindi questo ci consentiva di avere un ruolo a tratti anche gratificante, al punto di essere coinvolti in progetti diocesani e inter-diocesani. Da un lato quindi, eravamo l’esempio di come il vivere in una oggettiva situazione di peccato grave poteva distruggere la via maestra che porta a Dio, costituita dai sacramenti e dal vivere a pieno la vita comunitaria, dall’altro lato però, fra i peccatori incalliti, eravamo i primi della classe: quelli bravi e buoni che accettavano di buon grado divieti e esclusioni.

Tutto questo è continuato fino alla pubblicazione di Amoris Laetitia. Dopo un breve percorso di discernimento, che tutto sommato avevamo fatto per tanti anni, ci è stata data la possibilità di ritornare ad accedere ai sacramenti. Paradossalmente, nella comunità, questo è stato l’inizio di una rottura.

L’essere ritornati, a pieno titolo, fra tutti i fedeli non ha più permesso alle altre persone di indentificarci come erano soliti fare e cioè un gradino comunque sempre più in basso del loro. Graziosamente, ci concedevano talvolta di salire al loro livello ma era ben chiaro chi fossero i santi e chi i peccatori; di fatto, abbiamo scoperto che la comunità non ci accoglieva a priori ma ci permetteva di farne parte solo dopo aver espresso un giudizio sulla nostra disponibilità a farci umili. E quindi sono iniziati i problemi.

Le coppie con cui si condividevano alcune esperienze pastorali hanno iniziato a porre piccole e grandi distanze. Minimi gesti d’amicizia un tempo usuali, come un caffè o un passaggio in auto, venivano respinti, sempre però con il sorriso, cosa che rendeva il tutto ancor più crudele. Un processo lento, ma che emergeva con evidenza sempre più forte e che, ad un certo punto, è diventata ostilità aperta, addirittura sfacciata, tant’è che io e mia moglie ci siamo dimessi dalle varie attività e ci siamo allontanati.

Ci sono tanti paradossi in questa vicenda: ciò che prima avrebbe dovuto allontanarci, ci ha legati alla chiesa, mentre ciò che avrebbe dovuto certificare una piena accoglienza, ha provocato il nostro ritrarci.

Sono stato diretto testimone del totale smarrimento di parecchi sacerdoti provocato da Amoris Laetitia. Chiedevano regole e manualetti da seguire per condurre il discernimento, sentendosi forse defraudati dal potere di concedere e negare. Tutto deve essere sembrato loro tremendamente liquido, così come spaventosa la prospettiva che tutto diventasse soggettivo, lontano dalla rassicurante oggettività data da norme fisse. Ed anche per questo, nell’incertezza, è stato tutto un pullulare di commissioni diocesane sul come approcciarsi ai risposati che chiedevano la riammissione ai sacramenti.

Tutto questo non ha toccato solo i sacerdoti ma anche i tanti laici impegnati, che di norma erano costituiti da coppie regolarmente sposate in chiesa, cresciute all’ombra del campanile. É stata comprensibile la loro difficoltà.

Di per sé, un risposato è una persona che ha scelto di vivere costantemente nel peccato, quindi l’accoglienza precedente ad Amoris Laetitia, rappresentava già un difficilissimo banco di prova per quelle coppie che invece sarebbero state disposte a sacrifici inenarrabili piuttosto che venir meno alla promessa matrimoniale. Si trattava infatti di vedere un fratello o una sorella in chi non si dava affatto pena di porre fine alla situazione gravemente immorale in cui si trovava e che, allo stesso tempo, chiedeva di far parte della comunità.

Peccatori non pentiti ma accolti, in pratica, un ibrido mostruoso. Però, era d’aiuto l’imporre a queste persone limitazioni e divieti: non puoi essere perdonato, non puoi comunicarti, far parte del consiglio pastorale, leggere all’ambone, essere padrino o madrina… insomma questo era il dazio da pagare che metteva bene in chiaro le differenze tra chi siede a pieno titolo nella chiesa e chi no.

Poi tutto si è confuso: i divorziati risposati, pur continuando a vivere nel peccato, potevano ritornare ad essere perdonati così come vengono perdonate le persone che si sforzano in ogni modo d’avere una vita retta. Accettare questo richiede davvero avere assorbito il vangelo fino all’ultimo iota. Ed allora, viene da chiedersi se il vero lavoro pastorale, dopo Amoris Laetitia, non dovesse avere al centro, non solo le persone risposate, ma la comunità per intero proprio in termini di discernimento personale. Comunità che però è stata abituata da sempre a ragionare in termini di merito e di demerito, anche riguardo all’accesso ai sacramenti.

Non so se l’esperienza mia e di mia moglie sia comune ad altre persone, anzi mi auguro che almeno qualcuno sia stato più fortunato di noi. Questo però ci riporta all’assunto inziale. Chi abbiamo incontrato nei tanti anni di cammino prima come utenti e poi come operatori pastorali? Abbiamo incontrato la Chiesa o abbiamo incontrato uomini di chiesa forse poco adatti ai loro compiti? Oppure questa distinzione è solo un modo per cavarsi d’impaccio, rispetto ad una chiesa che -nel suo complesso- non riesce più a leggere la realtà, al punto che da un lato predica il dovere dell’accoglienza e dall’altro si comporta, nel concreto, in modo del tutto opposto? Un tempo punendo con mille divieti i risposati e poi, dopo Amoris Laetitia, non riuscendo ad accettarli come fedeli a pieno titolo?

Preghiera e Liturgia in Parrocchia S. Agostino, S. Stefano e S. Teresa a Reggio Emilia

Preghiera e liturgia nella Basilica di San Prospero
Da lunedì a sabato ore 18 S. Messa
Domenica e festivi ore 9 S. Messa

Preghiera e liturgia nella chiesa di Sant’ Agostino
Mercoledì ore 19 – Inchiostro alla Parola
Giovedì dalle 17:30 alle 18:30 Adorazione Eucaristica

La S. Messa del 13 maggio è sospesa !
Domenica ore 9 – 11:30 S. Messa

Preghiera e liturgia nella chiesa di Santo Stefano
Venerdì Dalle ore 15 alle ore 19 Adorazione Eucaristica
ore 18,30 S. Rosario Ore 19 S. Messa
Sabato ore 19 S. Messa festiva anticipata
Domenica ore 10 S. Messa

Preghiera e liturgia nella chiesa di Santa Teresa
Martedì ore 10 S. Messa
Mercoledì ore 18 Rosario – ore 18:30 S. Messa
Venerdì ore 10 S. Messa 13 maggio sospesa !
Domenica ore 11 S. Messa

Basket & fede. Quando Kobe andava a scuola dalle suore di S. Vincenzo a Reggio Emilia nella Parrocchia di S. Stefano

Christopher Goldman Ward racconta in un libro l’amicizia con il campione di basket scomparso due anni fa, quando il “Mamba” bambino ha vissuto a Reggio Emilia tra sfide a canestro e non solo

Il piccolo Kobe Bryant con gli amici di Reggio Emilia

Il piccolo Kobe Bryant con gli amici di Reggio Emilia – (Baldini + Castoldi)

Prima del tragico schianto, il 26 gennaio 2020, Kobe Bryant era a Messa con sua figlia. Come ogni domenica. Perché non viene mai ricordato abbastanza ma l’ex fuoriclasse del basket Nba, morto a soli 41 anni, custodiva dentro di sé il dono della fede cattolica. Se non prendiamo in considerazione questa dimensione continueremo a tratteggiare l’identikit di una leggenda della pallacanestro solo come un uomo prigioniero del suo ego e del suo professionismo maniacale. Mentre sappiamo, perché l’ha confidato lui stesso più volte, che la fede lo aveva salvato nei momenti più bui della sua vita. Sia quando per le sue infedeltà aveva rischiato di mandare in frantumi il matrimonio con sua moglie Vanessa, procurandole anche un aborto spontaneo per le tensioni di quel periodo. E sia quando dovette fare i conti con l’accusa di stupro (poi archiviata): «Avevo venticinque anni. Ero terrorizzato. L’unica cosa che mi ha aiutato davvero durante quel processo sono cattolico, sono cresciuto come cattolico, i miei figli sono cattolici – è stato parlare con un sacerdote. E lui mi disse: “Dio non ti darà nulla che tu non possa affrontare, e ora è tutto nelle sue mani. È una cosa che non puoi controllare, quindi lascia stare”. E quello è stato il punto di svolta».

Un ulteriore riscontro dell’educazione ricevuta da Kobe arriva adesso da un libro scritto da un suo amico d’infanzia, Christopher Goldman Ward, nel periodo in cui il piccolo Bryant ha vissuto in Italia. Prima infatti di diventare un campione di fama mondiale, Kobe dai sei ai tredici anni ha vissuto nel nostro Paese. Per via di suo padre Joe, cestista professionista che ha vestito le canotte di Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. In Italia ha imparato a leggere e scrivere e anche a tirare canestro. E non ha mai dimenticato quegli anni. Un passato di cui andava fiero, come testimoniano i nomi delle figlie: oltre a Gianna Maria (scomparsa con lui a soli 13 anni), Natalia Diamante, Bianka Bella e Capri Kobe. E poi la bellezza dei nostri luoghi, il tifo per il Milan, gli amici che aveva lasciato e che spesso tornava per riabbracciare. Un mondo di ricordi che affiora ora anche in questo volume Il mio Kobe. L’amico diventato leggenda (Baldini + Castoldi, pagine 158, euro 17). L’autore, Ward, nato a Varese, da padre americano e madre italiana, racconta il periodo vissuto insieme a Reggio Emilia e un legame rimasto nel tempo. Aveva 11 anni quando in palestra arrivò quel «mingherlino» di un anno più piccolo ma che tutti già descrivevano come un fenomeno del basket. Un ragazzino così determinato, che non aveva dubbi sul fatto che un giorno avrebbe calcato i parquet dei sogni a stelle e strisce. Così come poi fece nel 1996 esordendo con i suoi Lakers, tra la meraviglia e l’orgoglio dei suoi amici italiani di un tempo a cui non sembrava vero fosse proprio il loro Kobe in Tv con la canotta gialloviola. Quante volte, ricorda Ward, si erano sfidati tra di loro in interminabili uno contro uno. Non solo a canestro, ma anche ai migliori videogiochi che impazzavano negli anni Ottanta. E poi i tanti pomeriggi a casa Bryant a Reggio Emilia, dove bastava varcare la soglia per respirare aria statunitense.

Un capitolo curioso, che sembra incidentale, ma si rivela invece significativo, è quello del piccolo Kobe a scuola dalle suore. Perché come annota Ward: «Pam e Joe (i genitori di Kobe, ndr) volevano per i figli non solo un’istruzione ma anche un’educazione ai valori cristiani e scelsero l’istituto San Vincenzo de’ Paoli». È qui che la futura star del basket maturò una solida preparazione culturale oltre a una certa sensibilità per le cose della vita. Mostrava già da bambino un’attenzione per i più deboli e sin da piccolo si vedeva che era un vero perfezionista. Un culto della disciplina quasi ossessivo su cui ha costruito la sua fantastica carriera: cinque titoli Nba con la sua unica squadra, i Los Angeles Lakers, due ori olimpici e una serie impressionante di record personali. Eppure anche il “Black Mamba” (il soprannome che lui stesso si era scelto) aveva dovuto riconoscere che i superuomini non esistono. Prima o poi facciamo tutti i conti con le nostre debolezze. Ma nel momento più duro Kobe aveva colto il segreto del cristianesimo, il pentimento e la forza per rialzarsi. E quella mattina era a Messa ancora una volta per ringraziare Chi gli aveva ridato la gioia di vivere togliendogli dal cuore pesi che sembravano più grandi di lui.

Avvenire


Di seguito la testimonianza di un parrocchiano di S. Stefano (Reggio Emilia città):

“Lo ricordo bene. Era spesso in cortile a giocare a basket. Faceva arrabbiare don Vasco perché si attaccava ai canestri. Giocava in squadra con mio figlio, anche se di un anno più giovane, e a volte noi genitori lo riprendevamo perché era un po’ troppo indipendente. Gia allora aveva un solo obiettivo fisso: andare a giocare in NBA. Ci è riuscito ed è diventato un campione ed anche un padre affettuoso.
Poi il Signore lo ha chiamato!”