Papa Luciani: il nuovo beato nella biografia di Preziosi In libreria “Il sorriso del Papa”, sul Pontefice dei 33 giorni

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(ANSA) – ROMA, 30 AGO – la storia di un Papa che in appena trentatré giorni ha lasciato un segno indelebile nella storia della Chiesa.

La beatificazione di Albino Luciani, il “Papa del sorriso” – domenica 4 settembre in Piazza San Pietro da parte di papa Francesco -, riporta all’attenzione del mondo intero la figura di un uomo di fede e di Chiesa che seppe fare della sua vita un capolavoro di umiltà, di tenacia, di spirito di servizio e di amore per tutti.    Nel suo “Il sorriso del Papa. La vita di Albino Luciani e i trentatré giorni di Giovanni Paolo I” (Edizioni San Paolo 2022, pp. 288, euro 22,00), da ieri in libreria, Antonio Preziosi, con un racconto di stile giornalistico, ricostruisce dettagli ed episodi della vita di Albino Luciani e del pontificato di Giovanni Paolo I, che fu pastore della Chiesa universale per pochissimo tempo, ma seppe tracciare una via ancora attuale con la forza del suo esempio di vita e del suo proverbiale sorriso.

Una biografia aggiornata e attenta a tutti gli aspetti della figura del Pontefice che regnò solo per un mese: teologo, pastore, padre conciliare, uomo di intensa e per alcuni aspetti innovativa spiritualità.
L’autore, Antonio Preziosi è giornalista, saggista e scrittore. Attualmente è direttore di Rai Parlamento. A lungo corrispondente del servizio pubblico da Bruxelles, ha svolto per anni l’incarico di inviato speciale seguendo i principali avvenimenti di politica interna e internazionale. Ha diretto anche Radio Uno, Giornale Radio Rai e Gr Parlamento. Studioso di questioni religiose e vaticane, è stato inoltre Consultore del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali. Per Edizioni San Paolo ha pubblicato nel 2021 “Il Papa doveva morire”, una ricostruzione inedita e intensa dell’attentato a Giovanni Paolo II e delle sue conseguenze, dentro e fuori la Chiesa. (ANSA).

Anticipazione. «Papa Luciani, un umile dalla cultura profonda»

Il ricordo del vescovo Andrich, emerito di Belluno Feltre, raccolto in un volume di testimonianze sulla figura di Giovanni Paolo I, che il 4 settembre verrà proclamato beato

Papa Luciani riceve in udienza i suoi familiari dopo l’elezione

Papa Luciani riceve in udienza i suoi familiari dopo l’elezione – Siciliani

da Avvenire

Pubblichiamo ampi stralci della testimonianza del vescovo emerito di Belluno-Feltre, Giuseppe Andrich, inserita nel libro “Il postino di Dio”.

Sollecitato a presentare la figura di Albino Luciani – papa Giovanni Paolo I – intendo farlo attingendo a conoscenze personali (essendo suo compaesano) e appunti da me raccolti. La bibliografia è abbondante, ma non farò riferimento a essa. Chi era Giovanni Paolo I? Perché affascinò immediatamente non solo i fedeli cattolici? Perché colpì così tanto il suo modo di parlare? Giovanni Paolo I fu l’unico Papa, dei veneti saliti al soglio pontificio dal 1789 in poi, la cui carriera antecedente l’elezione si svolse unicamente nella regione d’origine. (…) L’ambiente di origine di Luciani era popolare e tradizionale e in esso la Chiesa rappresentava il solo punto di riferimento. (…) Luciani entrò in Seminario a undici anni e ne uscì prete a ventitré: vi imparò una severa disciplina di vita e una concezione pastorale della funzione della Chiesa fondata su tre presupposti: distacco dal mondo (contro ogni mondanizzazione), obbedienza ai superiori, fedeltà assoluta all’istituzione; tre presupposti che rimasero il faro di tutta la sua vita fino al papato. Si distinse immediatamente per la sua grande curiosità intellettuale e l’inesauribile interesse per la lettura.

Giuseppe Andrich

Giuseppe Andrich – Bratti

Nel 1956, a me sedicenne, regalò alcuni libri da leggere durante le vacanze, ma mi disse che il suo parroco «trepidava» per la sua vocazione, sapendolo appassionato alle letture. (…) Aveva un grande desiderio di leggere, di conoscere e di essere aggiornato, ma non era un sacerdote ultramoderno o di frontiera; aveva un profondo senso dell’obbedienza, della disciplina e della considerazione del Magistero del Papa e dei vescovi. (…) In occasione di una conversazione mi insegnò, tra l’altro, a velocizzare la lettura. Da vescovo, patriarca e Papa, ripropose lo stile comunicativo, i temi e gli atteggiamenti che erano sempre stati suoi da quando era prete a Belluno.

E lo fece consapevolmente: sa- peva valutare le aspettative diverse delle persone nei vari impegni pastorali sempre più estesi. Il primo vero esordio pubblico da Papa avvenne la mattina di domenica 27 agosto 1978. Il discorso ai cardinali fu in latino, un testo in cui le parole erano state ponderate e nel quale usava il noi maiestatico. Completamente «rivoluzionario » fu invece l’Angelus, eccezionalmente pronunciato dalla loggia centrale della basilica di San Pietro. Nessuno dei giornalisti presenti sapeva cosa il Papa avrebbe detto. Il testo non era stato distribuito. Ci si attendeva che qualcuno gli mettesse in mano un discorso già scritto. Invece tutte le previsioni si rivelarono errate: il Pontefice iniziò a parlare a braccio. (…)

Va sottolineato che il brevissimo pontificato di Luciani, con il suo parlare a braccio, ha portato a una trasformazione efficace e irreversibile nei modi della comunicazione pontificia. Sin da giovane iniziò a scrivere. Gli piaceva fare il giornalista. Comunicare con la parola scritta. Era stato allenato già dagli anni del seminario quando scriveva nel Bollettino parrocchiale, poi per L’amico del Popolo, il settimanale diocesano. Nel 1960 scrisse una serie di articoli su «la parola di Dio “incartata”», cioè sull’opportunità di fare dei giornali un canale di evangelizzazione. Un capitolo importante, che andrebbe sviscerato, è il suo impegno per rivalutare il linguaggio dei film.

Sorprendente fu poi la passione per la storia dell’arte, e in modo particolare per la storia dell’arte locale. (…) Luciani sapeva che le sue prese di posizione gli stavano facendo il vuoto intorno, ma non tentennava: «Cosa fareste al mio posto? Dovrei interdirmi ogni accenno agli errori o alle opinioni pericolose messe in giro? Mi pare di no, tradirei la mia missione e il popolo cristiano, il cui primo diritto è di sapere con chiarezza quali sono le virtù rivelate da Dio».

Quando fu nominato vescovo – allora avevo diciott’anni – sono andato nel suo studio in seminario e, prima di poter dire qualcosa, mi prevenne: «Sei venuto a farmi le condoglianze? ». Lo stile di Luciani non fu da crociata; fu uno stile diverso, ma non leggero. Cinque allocuzioni domenicali, quattro catechesi e dodici discorsi costituiscono l’insieme delle quattro settimane di dottrina di Giovanni Paolo I. Ma di tutte le sue parole, la frase che è passata alla storia è l’affermazione contenuta nell’Angelus del 10 settembre: «Dio è papà; più ancora è madre ».

Su questa espressione si è in particolare soffermata con finezza e profondità la storica francese Sylvie Barnay (nata nel 1964): «Colpisce constatare come la rete di metafore che attraversa gli scritti del futuro Giovanni Paolo I privilegi nettamente quelle della paternità, della maternità, della coniugalità e dell’infanzia. Lungi da ogni forma di aneddotismo questa struttura portante sembra testimoniare una più profonda formulazione dottrinale sui rapporti tra Dio e l’uomo, alla luce di un’antropologia della genitorialità. Le due funzioni complementari che ognuna delle figure parentali per tradizione esercita sono qui chiaramente esposte: l’affetto materno e l’autorità paterna (ricordo una lezione di padre Juan Mateos – 1917-2003 – all’Istituto Orientale, (mamma che accoglie, papà che addita).

Conciliarle è indispensabile. Nessuna affermazione dottrinale può essere fatta senza il ricorso alternativo a questi due atteggiamenti di genitorialità, facendo attenzione a non confondere i ruoli e i generi». E ancora: «Introducendo la visione di un Dio madre “ancor più” che padre, Luciani non omologò in nulla le teologie femministe, ma si inserì invece – come ha dimostrato la Barnay – nel solco di una tradizione antica (sembra sia stato Clemente Alessandrino il primo padre della Chiesa a stabilire un parallelismo tra paternità e maternità di Dio).

Utilizzando un’analogia familiare – e avendo probabilmente in mente l’esempio materno (mamma Bortola) – propose innanzitutto un’immagine di Dio che scaturisce da un’immagine dell’umanità nella sua totalità, comprendendo le caratteristiche dei due sessi. Dio è padre e madre nel rapporto con le sue creature». Una tematica di grande attualità e affrontata con decisione da papa Luciani fu quella inerente al Concilio Vaticano II. (…) Quel periodo vissuto in prima persona incise sulla sua personalità. «Io sono un convertito del Concilio», era solito ripetere ai suoi diretti collaboratori. Era un vescovo che confidava nel Concilio, ma ne respingeva le esuberanze; che interpretava l’autorità con educazione e cortesia, ma senza rinunciare a nessuna delle sue prerogative di sacerdote e pastore. (…) Chi fu dunque davvero Giovanni Paolo I? Chi, come me, l’ha conosciuto personalmente fin da quando era prete tra noi, insieme ai suoi inconfondibili occhi vispi e profondi, lo ricorda per le parole accorte che usava nei nostri riguardi; non ci si può mai dimenticare come ci faceva sentire a nostro agio.

Don Albino era un sacerdote umile, dimesso, gentile e poco appariscente, ma nascondeva in realtà una personalità originale, una cultura solida e profonda, una non comune curiosità intellettuale, un’apertura alla modernità elaborata attraverso una vita intellettuale intensa in tutte le età. Era un vescovo tradizionale, ma capace di guardare con occhio lucido al nuovo che veniva avanti: assicurare il rinnovamento della Chiesa, nella continuità storica dell’istituzione. «Albino Luciani è stato davvero un uomo “magis ostensus quam datus”. È stato, nella sua brevissima apparizione, una visita di Dio alla sua Chiesa», come ha detto il patriarca Francesco Moraglia. Sono convinto che questo figlio del cattolicesimo veneto sarebbe stato un incisivo uomo di governo, come Pio X, un acutissimo riformatore come Giovanni XXIII e un Pontefice che, come Gregorio XVI, avrebbe guidato la Chiesa privilegiando l’impegno missionario. Ricordando con affetto personale e venerazione papa Luciani, futuro beato, faccio mie le parole del cardinale brasiliano Paulo Arns.

Appena dopo il conclave dell’agosto 1978 volle venire a Canale a visitare il paese natale e testimoniò che Luciani era conosciuto e stimato dai vescovi sud-americani come uomo di fede: «È proprio questo che la nostra Chiesa desidera. E Luciani, forse più noto da noi che in Italia per le sue prese di posizione dettate da grande fede, è apparso il Papa ideale, non diplomatico, non politico, non curiale. E poi un Papa che sorride, anzi che ride (Chopin diceva: “Chi non ride mai non è una personalità seria”). A voi sembrerà secondario, per i popoli poveri un Papa che sorride è già un grande dono. Sappiamo del resto che dietro quel sorriso c’è una grande spiritualità, una tempra forte, un cuore generoso».

vescovo emerito di Belluno-Feltre

Il ritratto / Albino Luciani, un Papa «apostolo del Concilio»

Stefania Falasca

Avvenire, 25 agosto 2016

Alla vigilia della sua elezione, citando Avito di Vienne – santo vescovo del VI secolo – Albino Luciani appuntava nella sua agenda personale: «Se il Vescovo di Roma è messo in discussione, non è il Vescovo, ma l’intero episcopato che vacilla». In un’omelia inedita, l’esatto momento della sua elezione a Vescovo di Roma, il cardinale argentino Eduardo Francisco Pironio lo ricordava così: «Ero proprio di fronte a lui, e lo guardavo. Ed eravamo tutti i cardinali in attesa del suo sì. Il suo sì a Cristo, un sì alla Chiesa come servitore, un sì all’umanità come pastore buono. Io l’ho visto con una serenità profonda, che proveniva da una interiorità che non si improvvisa».

Con un consenso unanime, «che aveva il sapore dell’acclamazione» – secondo l’espressione attribuita al cardinale belga Léon-Joseph Suenens -, dopo un Conclave rapidissimo, durato soltanto ventisei ore, il 26 agosto 1978, Albino Luciani saliva al soglio di Pietro. O meglio, vi discendeva, come Servus servorum Dei, abbassandosi al vertice dell’autorità che è quella del sevizio voluto da Cristo, se nella agenda personale del pontificato siglava in calce, con queste parole, l’essere ministri nella Chiesa: «Servi, non padroni della Verità».

Non fu dunque senza significato quella convergenza massiccia e spontanea dei centoundici elettori, per la maggior parte dei quali si trattava della prima esperienza di Conclave, e che non parevano disposti a sbrigare solo un ‘cambio della guardia’. Quanto basta per dire che quella scelta era stata espressione di una comune mentalità ecclesiale ed era arrivata come frutto di una più lontana e attenta riflessione. E proprio questa unanimità rivelava che non era un Papa programmato per un determinato progetto politico. Il Conclave che elesse il successore di Paolo VI è stato il primo dopo la conclusione del Concilio ecumenico Vaticano II. E quell’elezione voleva significare la volontà di progredire nell’attuazione degli orientamenti. I cardinali avevano mirato pertanto alla virtù dirimente della pastoralità. E avevano scelto il pastore. Non ci fu bisogno di particolari valutazioni o compromessi sul suo nome. Il valore di Luciani, riconosciuto da tempo, era tutto nella sua fisionomia incentrata sull’essenziale. Era il pastore nutrito di umana e serena saggezza e di forti virtù evangeliche, che precede e vive nel gregge con l’esempio, senza alcuna separazione tra la vita personale e la vita pastorale, tra la vita spirituale e l’esercizio di governo, nell’assoluta coincidenza tra quanto insegnava e quanto viveva.

Esperto di umanità e delle ferite del mondo, delle esigenze dell’immensa moltitudine dei derelitti che vivono fuori dall’opulenza, un sacerdote di vasta e profonda sapienza che sapeva coniugare in felice e geniale sintesi nova et vetera. E se il Concilio voleva essere «un segno della della misericordia del Signore sopra la sua Chiesa», come prospettato nella giovannea Gaudet Mater Ecclesia – ed effettivamente è stato la sede in cui la Chiesa ha scelto ‘la medicina della misericordia’ -, era stato eletto un apostolo del Concilio, che aveva fatto del Concilio il suo noviziato episcopale, di cui spiegò con cristallina lucidità gli insegnamenti e ne tradusse rettamente in pratica, con coraggio perseverante, le direttive. Anzi le incarnava. Naturaliter et simpliciter. In primis nella povertà, che per Luciani costituiva la fibra del suo essere sacerdote e nell’essere propter homines, nella feriale, evangelica carità.

Con l’inedita scelta del binomio ‘Giovanni Paolo’, aveva eretto l’arco di congiunzione di coloro che erano stati le colonne portanti di tale opera. Colonne che furono da taluni giudicate staccate. Luciani conosceva questo dissidio serpeggiante in seno alla Chiesa e lo considerava offensivo della verità e nemico dell’unità e della pace. La scelta del binomio è stata pertanto una delle espressioni non rare dell’intuito geniale con cui il Papa di origini bellunesi sapeva con prontezza afferrare le questioni, vedendone con sicurezza il fondo, e sciogliere il nodo delle situazioni e dei problemi difficili nella Chiesa.

Nel corso del pur breve pontificato si sono così manifestate le priorità di un Pontefice che ha fatto progredire la Chiesa lungo la dorsale di quelle che sono le strade maestre indicate dal Concilio: la risalita alle fonti del Vangelo e una rinnovata missionarietà, la collegialità, il servizio nella povertà ecclesiale, il dialogo con la contemporaneità, la ricerca dell’unità con i fratelli ortodossi, il dialogo interreligioso, la ricerca della pace. In ognuna di queste priorità lo abbiamo visto esprimersi, nei gesti e nelle parole dei trentatré giorni di pontificato. Come frutto di un lavoro da tempo cominciato, attraverso un magistero inauditamente suadente e attrattivo, piantato nella radicale scelta teologica di un linguaggio semplice, conversevole e accessibile, di quel sermo humilis canonizzato da sant’Agostino, che è comprensivo del mondo e degli uomini ed è con essi dialogante e comprensibile, affinché il messaggio della salvezza possa giungere a tutti. Ed è proprio sull’espressione di queste priorità il filo diretto con il presente.

La stringente e provocante attualità di Luciani. Non occorre perciò chiedersi quale sarebbe stata la strada che con lui avrebbe percorso la Chiesa. L’immagine che della Chiesa nutriva Giovanni Paolo I è quella del discorso delle Beatitudini, dei poveri di spirito, più vicina al dolore delle genti e alla loro sete di carità, che non si nasconde né si confonde con la logica degli scribi e dei farisei, né con quella dei manipolatori ideologici o degli spiriti mondani mischiati nella trama dei partiti. È quella che affonda le radici nel mai dimenticato tesoro di una Chiesa antichissima, senza trionfi mondani, che vive della luce riflessa di Cristo, vicina all’insegnamento dei grandi Padri, e alla quale era risalito il Concilio. È qui che va riconsiderato lo spessore della sua opera. È qui che va ripresa la valenza storica del suo pontificato. Quella che è stata ignorata, sminuita e persino ridicolizzata, perché sfuggente ai riscontri in chiave ideologica di quanti allora, come oggi, non solo nella stampa, confrontano i gesti e le parole con la tabella dei valori stabiliti o dai progressisti o dai conservatori, per decidere come incasellare la figura, come darle una connotazione ideologica, perché appunto è reale, e invece conta solo ciò che diventa ideologico, solo ciò che può ridursi alle alternanze del gioco politico destra-sinistra, progresso-reazione, tradizione-rivoluzione. Non la sua morte repentina, ma la fumettistica sulla sua morte ha liquidato Luciani dalla dignità storica. Una dignità storica che è ancora tutta da riconsegnare, riscoprire e studiare. Per ricomprendere anche il presente.

«Tutti noi, specialmente noi di Chiesa, dobbiamo chiederci: Abbiamo veramente compiuto il precetto di Gesù che ha detto: ‘Ama il prossimo tuo come te stesso?’». Si definì «povero Cristo» e arrivò a quell’inaudito «Dio è madre» per esprimere il viscerale amore di Dio. «Che io vi ami sempre più» sono state le sue ultime parole. Non è stato forse Luciani il Papa per eccellenza della misericordia? Quanto alla collegialità, che era stata materia argomentata del suo intervento scritto al Concilio, tornò insistentemente sulla fraternità episcopale.

All’udienza con i cardinali, il 30 agosto, in riferimento alla Lumen gentium 22 toccava uno dei punti chiave dell’ecclesiologia del Concilio. «I vescovi – disse a braccio – devono pensare anche alla Chiesa universale… dietro voi vedo i vostri vescovi, le Conferenze, che nel clima instaurato dal Concilio devono dare forte appoggio al Papa… Ecco, questo è vero, però oggi c’è un gran bisogno che il mondo ci veda uniti… Abbiate pietà del povero Papa nuovo, che veramente non aspettava di salire a questo posto. Cercate di aiutarlo e cerchiamo insieme di dare al mondo spettacolo di unità, anche sacrificando qualche cosa alle volte; ma noi avremmo tutto da perdere se il mondo non ci vede saldamente uniti».

Con la sua repentina morte si è interrotta questa storia della Chiesa, piegata a servire così il mondo? La sua elezione fu il segno di uno scandalo. Uno scandalo salutare, che doveva sollevare attorno al seggio di Pietro un’ondata antichissima di emozioni e di fede in tutto il mondo. Quella fu la prova che il sovrannaturale non abbandona la Chiesa lasciandone intravvedere il mistero della sua presenza storica.

Albino Luciani non è passato come una meteora, il suo passaggio ha lasciato un segno duraturo e bruciante con la sua sconvolgente pietà. Non explevit tempora multa. È rimasta nel tempo come la brace sotto la cenere, forte e indeclinabile testimonianza di ciò che è l’essenza, il fondamento autentico del vivere nella Chiesa e per la Chiesa. Non si è chiuso perciò con lui un capitolo della storia dei Papi, non si torna indietro, non si incomincia da capo. Ciò che la Chiesa sta rivivendo nel suo interno da Giovanni XXIII, dal Concilio Vaticano II, da Paolo VI, non è una parentesi.

Se il governo di Albino Luciani non poté dispiegarsi nella storia egli ha concorso più di ogni altro a rafforzare oggi e a testimoniare oggi il disegno di una Chiesa che con il Concilio è risalita alle sorgenti, più essenziale, più evangelica. Non parrà poco. Perché il segno di questa storia è quello della Grazia che entra nel mondo, e per vie misteriose lo compenetra per vincere, come l’alba la notte, le ipocrite finzioni, le inenarrabili alienazioni di questa nostra umanità lacerata. Fuori e dentro la Chiesa.

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Il 26 agosto 1978 veniva eletto Papa il cardinale patriarca di Venezia

di Vincenzo Bertolone

Il 26 agosto 1978, eletto in ventiquattro ore al secondo giorno di conclave, Albino Luciani, patriarca di Venezia, sceglie di chiamarsi Giovanni Paolo, accomunando nel nome Giovanni XXIII e Paolo VI. Dio lo chiamerà a sé poche settimane dopo, il 28 settembre. Dell’intenso e indimenticato settembre di Papa Luciani, vanno soprattutto ricordati i momenti bellissimi delle udienze generali del mercoledì, nelle quali sembra riprendere, in qualche modo, la sua Catechetica in briciole.
Nell’opera edita nel dicembre 1949, il giovane prete raccomandava al catechista l’entusiasmo, la convinzione, l’amore, e non soltanto la scienza e la conoscenza, ma soprattutto la capacità di essere comunicatore. Un trentennio più tardi, appena eletto Pontefice, sulla scia del suo predecessore, avrebbe voluto fare delle sue udienze – come disse il 6 settembre – “una vera catechesi adatta al mondo moderno”: quella di un Papa catechista, appunto.
Quasi trasformando quegli incontri partecipatissimi in quattro stazioni di accostamento al nucleo centrale del cristianesimo, la prima volta chiamò accanto a sé un chierichetto. Il “catechista si preoccupa non solo di fare e parlare lui, ma soprattutto di far fare agli alunni e di farli parlare”, recitava infatti la sua Catechetica (4, 6).
La settimana dopo, la tonalità emotiva ed esistenziale dell’atto di fede, sulla base di Trilussa, di san Paolo e di sant’Agostino, fu efficacemente da lui descritta come un “arrendersi a Dio, ma trasformando la propria vita”, sapendo cioè che Dio ha “più tenerezza ancora di quella che ha una mamma verso i suoi figlioli”. Il 20 settembre, mentre a Friburgo un consesso internazionale discuteva sul “futuro della speranza”, fu la volta appunto della speranza, da lui assimilata alla iucunditas di Tommaso d’Aquino e alla hilaritas di Agostino. Infine, il 27 settembre, riprendendo testualmente l’Atto di carità insegnatogli dalla mamma quando era piccolo (in veneto, un bocia), parlò dell’amore, che non solo rimane nella memoria e nella mente come un qualunque dato dell’apprendimento, ma che attrae ogni volta che ci si pensa, come un “correre con il cuore verso l’oggetto amato”.
Quattro udienze generali, caratterizzate sempre da un’atmosfera di fraternità palpabile, con citazioni non soltanto dei Padri e dei teologi, ma anche di pensatori e letterati: la seconda volta fu il turno di Ozanam e Lacordaire; la terza di Saint-Beuve e dello scozzese non cattolico Andrea Carnegie; la quarta di un suo imprecisato professore di filosofia e di Jules Verne. Momenti quasi di contatto diretto con i propri confratelli nell’episcopato e con tanti laici. Un momento di famiglia, percepito come se si fosse alla presenza, nel modo più tenero, del Signore, come capita a un bambino quando sta di fronte alla mamma: “Come un bambino davanti alla mamma crede alla mamma, io credo al Signore”.