L’altra spiaggia. L’ospitalità dentro i monasteri, un’oasi per riflettere e dialogare

Da «Il Carmelo» delle cottolenghine alla comunità di Valserena delle monache trappiste. L’apertura delle porte delle loro case a chi è in ricerca e a chi vuole vivere un periodo di pace e preghiera
La comunità delle trappiste del monastero di Valserena in preghiera

La comunità delle trappiste del monastero di Valserena in preghiera – Collaboratori

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«Il nostro monastero è come una spiaggia che accoglie volentieri le persone» dice madre Maria degli Angeli, priora del monastero cottolenghino «Il Carmelo», in strada Leone Fontana, a Torino, fra il verde e i fiori della collina. La foresteria è una casa colonica ristrutturata con garbo, parecchio frequentata. «Sia d’estate sia lungo tutto l’anno, vengono in molti, assetati di silenzio e di pace. Non tutti sono credenti, ci sono anche persone in ricerca, e noi siamo liete di incontrarle.

Con la preghiera si scopre il volto di Dio che è Padre e poi, pian piano, si comprende anche il volto della Chiesa. Nell’ascolto reciproco, ci aiutiamo nel cammino verso il Signore». Le contemplative cottolenghine ricevono con bontà quanti si rivolgono a loro: giovani che desiderano accostarsi ad un sentire spirituale, e restano colpiti dalla bellezza della vita comunitaria; malati di tumore che, finito il ciclo di chemioterapia all’ospedale Cottolengo, vengono indirizzati al monastero perché possano ritemprarsi; persone sane, ma con l’animo provato da sofferenze e solitudini. Ultimamente le monache hanno accolto ed aiutato una famiglia ucraina.

«Per usare un’espressione di papa Francesco, siamo una carovana che va avanti insieme – sottolinea la priora –. Cerchiamo di prendere a carico con l’incontro, il dialogo e la preghiera queste situazioni. La nostra preghiera altrimenti sarebbe un’alienazione. Così invece portiamo al Signore sofferenze vere e fatiche vere. Nella Vultum Dei quaerere, il Papa ci invita appunto ad essere “come quelle persone che portarono un paralitico davanti al Signore, perché lo guarisse”. Questo allarga i nostri orizzonti e dilata il nostro cuore».

La stessa generosa determinazione a vivere la spiritualità dell’ospitalità anima madre Maria Francesca Righi, badessa di Valserena, una comunità di monache contemplative appartenenti all’Ordine cistercense della stretta osservanza, anche conosciute come trappiste. Il monastero, situato tra i boschi e gli olivi delle colline toscane, nella diocesi di Volterra, nella parrocchia e nel comune di Guardistallo, in provincia di Pisa, riceve nella foresteria, in un clima accogliente e familiare, chi desidera trascorrere alcuni giorni di pace e raccoglimento, condividendo i momenti di preghiera della comunità. C’è spazio anche per gruppi di bambini e ragazzi accompagnati, e di giovani e adulti, per momenti di ritiro, incontro, meditazione e convivialità.

«Dopo le difficoltà legate alla pandemia, ora stiamo riprendendo alla grande l’accoglienza sia dei singoli sia dei gruppi – dice madre Maria Francesca –. Anche tramite la dimensione dell’ospitalità e dell’incontro con varie realtà e sensibilità, viviamo il cammino sinodale. Nella Regola san Benedetto ci esorta con forza: “Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo”. L’Antica e la Nuova Alleanza, con modulazioni simili e consonanti, presentano il mistero dell’ospite. Il termine con cui nella Bibbia si designa questo evento, il verbo paqad, ha molteplici traduzioni che poggiano sul significato di base di “osservare con esattezza, scrutare”. Paqad significa anche “enumerare, passare in rassegna, prendersi cura”. E l’interesse e la cura è in vista della liberazione. La visita dell’Ospite misterioso alla tenda di Abramo e la visita di Gesù alla casa di Betania sono occasioni di grazia. Che questa grazia illumini ogni nostro incontro».

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Il sito che trova gratis un tetto ai rifugiati ucraini in Europa

«Sui social, con i miei tre associati della startup Jobgether, ho consultato una foto di bambine ucraine allineate in un riparo di fortuna e, anche come padri, quella foto ci ha sconvolto. Ci siamo detti così che occorreva assolutamente fare qualcosa». Questo qualcosa, racconta il giovane imprenditore francese Arnaud Devigne, fra i fondatori proprio di un noto portale per la ricerca di lavoro, è la piattaforma ‘Eu4ua.org‘, destinata a mettere in contatto rapidamente delle famiglie europee, disposte ad accogliere dei rifugiati ucraini, con questi ultimi. Un progetto lanciato di slancio in 48 ore appena e che sta incontrando una frequentazione esponenziale: «Ci siamo serviti della potenza della tecnologia per mettere in relazione tutte le solidarietà, convinti che quando si associano la tecnologia e l’amore si possono realizzare delle magie. Per sviluppare e far conoscere il progetto, abbiamo creato un’impresa virtuale internazionale di 200 volontari, fra cui 150 ingegneri». Un sito concepito per adattarsi ai vincoli dell’emergenza: «Siamo consapevoli che non tutte le persone in cerca d’aiuto o disposte ad aiutare sono estremamente a proprio agio con le nuove tecnologie. Per questo, abbiamo concepito qualcosa d’estremamente semplice e solido che possa funzionare soprattutto per la telefo- nia mobile. Naturalmente, si tratta di un servizio totalmente gratuito e che non genera alcun profitto. Abbiamo pure preso delle precauzioni tecniche per prevenire cyber-attacchi o usi distorti del sito». Riempiendo un formulario, tutti possono così rapidamente inserire le informazioni fondamentali da condividere: «Il rifugiato può indicare come si compone la sua famiglia, dove ha superato la frontiera, la sua posizione attuale, dove desidera recarsi e i mezzi di trasporto che eventualmente può prendere. All’altro capo, chi vuole ospitare può indicare la propria capacità di ospitalità, se è preparato per accogliere dei bambini e se ha una preferenza rispetto ad adulti uomini o donne. Spetta poi al rifugiato la scelta di contattare le famiglie potenziali di accoglienza, non più sulla piattaforma, ma con qualsiasi altro canale di comunicazione, per trovare un accordo, inaugurando così una relazione umana e, lo speriamo, una bella storia di solidarietà». Devigne ci spiega che, a sorpresa e in modo felice, i due piatti della bilancia restano in equilibrio: «L’offerta di alloggi e la domanda d’ospitalità stanno progredendo rapidamente e allo stesso ritmo. L’unico vero problema, al momento, è geografico, poiché la domanda e l’offerta non corrispondono ancora davvero. Ma i rifugiati si mostrano flessibili, dato che la piattaforma offre la possibilità di richiedere diversi Paesi, moltiplicando così le opportunità a disposizione. Oggi, la richiesta di un’accoglienza in Polonia è enorme, ma l’offerta d’alloggi sulla nostra piattaforma resta debole, dato che in molte città polacche si è raggiunta una certa saturazione, senza dimenticare che, non solo in Polonia, c’è pure chi sta speculando su questa catastrofe umanitaria ». Ogni giorno, comunque, nuove storie di solidarietà facilitate dalla piattaforma si concretizzano: «Sono già centinaia e centinaia le famiglie di rifugiati che hanno potuto trovare un alloggio. In Italia, manca ancora un numero sufficiente di posti d’accoglienza rispetto alle domande, che superano già le 500. Finora, è vero, abbiamo privilegiato la relazione fra le famiglie. Ma ad esempio, anche un hotel ha la possibilità di registrarsi per offrire accoglienza. Abbiamo già contattato delle catene d’hotel per cercare di stringere accordi, dato che soprattutto in questo periodo, c’è un’enorme disponibilità alberghiera a livello europeo, soprattutto fra Francia, Spagna e Italia che dispongono di milioni di camere». Per Devigne, il successo folgorante del progetto è probabilmente legato pure alla particolare congiuntura generale: «Dopo 2 anni di pandemia e di relativo isolamento, molti manifestano una volontà di comunione e di legame ancor più forte».

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LA PIATTAFORMA

Con Eu4ua.org, ideata dall’imprenditore Devigne con tre soci e 200 volontari, le famiglie europee possono dare la propria disponibilità ad ospitare gratuitamente chi fugge dalla guerra

Alexis Rodriguez

Arnaud Devigne

Alexandre Hernandez

Juan Bourgois

Camaldoli, un’oasi di silenzio, preghiera e ospitalità

Ospitalità e accoglienza, ma anche silenzio, preghiera, condivisione della liturgia, approfondimento culturale, dialogo. È il mix vincente di Camaldoli che ogni anno accoglie nelle sue foresterie più di tremila persone. Ricco il calendario delle iniziative proposte anche per quest’estate 2017 tra esercizi spirituali, convegni, settimane teologiche e di studio, corsi di lingue bibliche. «C’è un risveglio di attenzione per i temi monastici e l’approfondimento della spiritualità monastica pur nella diversità dei cammini di fede» ci spiega il priore, padre Alessandro Barban.

Padre Barban, sono tutti «cercatori di Dio» quelli che vengono da voi?

«No certamente.
Oggi le ricerche personali e i cammini di fede sono molto plurali. 
La maggioranza cerca Dio ed ha bisogno di silenzio e preghiera. Chi cerca esercizi spirituali e corsi biblici o teologici di approfondimento, chi viene a Camaldoli per le celebrazioni liturgiche annuali come l’Avvento, il Natale, la Quaresima e la Settimana Santa della Pasqua. Ci sono coloro che sono interessati al colloquio annuale ebraico-cristiano che si tiene in dicembre. Altri vengono e partecipano ai weekend interreligiosi o ai temi di frontiera. Quest’anno abbiamo offerto diversi incontri sulla Riforma di Lutero».

Tra le diverse proposte estive anche dei corsi di ebraico biblico e di greco neotestamentario. Chi li frequenta e perché?

«Sono persone di diversa provenienza geografica e culturale, uomini e donne, direi più laici/che che religiosi/e o preti, che hanno compreso come sia importante conoscere le lingue originarie in cui sono stati scritti i testi biblici. Se uno impara l’ebraico può veramente entrare nel Primo testamento e scoprire tutta la ricchezza di un testo di Isaia, del libro dell’Esodo o i Salmi. Così pure se uno padroneggia il greco biblico può leggere e approfondire i Vangeli o le Lettere di S. Paolo dall’originale dentro la lingua nella quale sono stati scritti. È un mondo inaspettato che si apre… Sono persone che studiano queste lingue antiche non solo per aumentare la loro cultura biblica. Più spesso lo fanno per dare maggiore spessore alla loro esperienza di fede».

La domanda di senso e il bisogno di felicità abitano il cuore di ogni uomo, credente e non. Che risposte o che strumenti di ricerca offrite?

«Oggi l’esistenza delle persone è alquanto impegnativa per cominciare dalla famiglia e dal lavoro. La fede cristiana che ognuno cerca di coltivare e maturare chiede certamente una risposta di bene e comunione. Di pace e di realizzazione personale. Bisogna aiutare a fare un certo discernimento: non confondere o sovrapporre la felicità secolare che spesso si identifica col possesso di cose e di denaro, con la felicità che proviene da un cammino di fede. Come monaci crediamo che sia soprattutto la lettura e la meditazione della Parola di Dio – attraverso la proposta della Lectio divina – a far comprendere e gustare la felicità che giunge come grazia nella vita di un credente. Poi offriamo corsi di meditazione silenziosa, percorsi di accompagnamento spirituale…



».

Di fronte all’odierna povertà materiale, relazionale e di speranza, in che modo un’esperienza di fede condivisa con chi ha scelto una vita di silenzio e preghiera nel celibato e nella dimensione comunitaria può «parlare» all’uomo d’oggi?

«La nostra vita monastica suscita sempre molta attenzione. Già venendo a Camaldoli, in questo posto circondato da una foresta secolare, si percepisce e si entra in una atmosfera di silenzio e di pace che aiuta molto a ritrovare se stessi. Oggi c’è un grande bisogno di fermarsi: di decelerare i ritmi di vita, famigliari e di lavoro, di ascoltare se stessi facendo silenzio, di fare il punto della situazione del proprio cammino esistenziale, di ritornare alle domande di fondo e di trovare delle risposte autentiche e profonde.
Ma la nostra vita monastica “parla” soprattutto con la preghiera e nella preghiera.
Tutti coloro che arrivano a Camaldoli – sia all’eremo, sia al monastero – chiedono se possono partecipare alla nostra preghiera comunitaria nelle diverse ore della giornata. È questa l’esperienza di fede maggiormente condivisa che, dopo alcuni giorni, comincia a segnare una traccia nella coscienza e nella propria interiorità».

«Alla scuola di Gesù» è il titolo del corso di esercizi spirituali da lei guidato qualche settimana fa. Che senso e che valore ha oggi parlare di umiltà e mitezza?

«Gesù si presenta nel Vangelo di Matteo come colui che è mite e umile di cuore. Questo non significa remissività o neutralità. Anzi, Gesù è in qualche modo la sintesi delle stesse Beatitudini. Gesù era presente con un temperamento e una fisionomia molto precisi e direi significativi a cominciare dalla sua preghiera, dallo stile della sua accoglienza verso tutti, dalla proposta dei suoi discorsi che orientavano al regno di Dio. Ma tutto era vissuto e condiviso con una mitezza che esprimeva la bontà e la misericordia di Dio; tutta la sua persona doveva esprimere umiltà, cioè la semplicità/bellezza della terra, della relazione umana, del sensibile e della tenerezza. Ma egli sa anche presentare una parola forte in merito alla povertà, al perdono, alla giustizia. Ogni cristiano dovrebbe tenere uniti dentro di sé la mitezza e l’umiltà evangelica, e allo stesso tempo il riverbero significativo di coerenza delle scelte a cui impegna la fede pasquale».

Sono in corso le Settimane teologiche della Fuci; tra qualche settimana si svolgerà la Settimana teologica del Meic. Il vostro monastero ha visto la nascita del Codice di Camaldoli: in che modo la ricerca di spiritualità e la riflessione sulla fede può orientare l’impegno civile e politico?

«Credo che una fede e una spiritualità che non diventino Politica con la maiuscola, rischiano di cadere in un’estraneità dalla storia degli uomini, che trasforma la fede in superstizione e devozione, e la spiritualità in spiritualismo. Nei decenni sono passate a Camaldoli generazioni di giovani che hanno capito quanto fosse importante impegnarsi in politica per il bene comune di tutti… e come fosse la carità più grande, il servizio discepolare più cruciale. Quando Papa Francesco ci invita ad uscire, a vivere con gli altri condividendo la nostra fede cristiana ci dice di imparare a vedere e ad aiutare i poveri, coloro che sono scartati dalla nostra società, a tenere presente i giovani e gli anziani spesso ridotti ai margini, ci dice che è possibile in nome della nostra fede di impegnarci per un mondo più umano e più giusto.
Io credo che una fede non declinata con la giustizia finisca poi per diventare insignificante. Si svuoti e non sia più attrattiva.
Il problema è duplice: per quanto riguarda la fede bisogna ritrovare la sorgente del Vangelo e tutta la sua forza profetica; per quanto riguarda la politica, abbiamo bisogno di un nuovo impegno che nasca dal bene comune, che non tema di ipotizzare modelli alternativi di economia, di scuola e di formazione, di cura ecologica del nostro mondo.
Oggi la politica è solo politicante… deve ritornare ad essere pensiero, visione, progetto
per i molti che abitano e vivono nel nostro Paese e in Europa, in un rapporto di collaborazione e di sviluppo di una nuova umanità tra Nord e Sud del mondo».

Fonte: Sir