L’eredità pedagogica di Don Milani: attualizzato anche a Domodossola

(La sala del Convegno – Fonte pagina facebook Scuola don Milani)

Sabato 27 Maggio 2023 si è svolto il convegno “I care! Mi sta a cuore”. L’eredità pedagogica di Don Milani. Celebrazioni a cento anni dalla nascita”. Nell’aula magna dell’Istituto Marconi Galletti di Domodossola è stata ricordata la figura del sacerdote docente, scrittore ed educatore cattolico. Il programma della giornata al Marconi Galletti si è aperto alle ore 9 con l’accoglienza e il saluto da parte della dirigente del Primo Circolo di Domodossola Patrizia Taglianetti. Il convegno è stato organizzato con il patrocinio del Comune di Domodossola e dell’Anpe Piemonte, Associazione Nazionale Pedagogisti italiani. Ha aperto i lavori l’intervento delle insegnanti Caterina Brunelli e Sabrina Spadone della primaria Don Milani, dal tema “Un’esperienza di scrittura collettiva”. A seguire: “Sortirne insieme”: la scuola di Barbiana come stella polare della scuola italiana, a cura di Simone Consegnati, coordinatore e formatore di “Tuttoscuola” e docente universitario Lumsa -Roma. Il terzo intervento è stato dedicato a “L’esperienza di Barbiana”, a cura di Paolo Usellini, Dirigente Scolastico Istituto Sacro Cuore di Novara e Presidente regionale di Anpe (Associazione pedagogisti italiani). Infine, “Don Milani, prete tra obbedienza e profezia” a cura di don Andrea Mosca, parroco di Pernate. Come bellissimo gesto è stata consegnata la guida turistica “Domodossola, la città dei bambini” alle autorità presenti.
“Don Milani diceva “I care” e il suo motto è divenuto universale. Il motto di chi rifiuta l’egoismo e l’indifferenza”. Così Sergio Mattarella ha ricordato il sacerdote pedagogo, l’insegnante dei più poveri, ed entra nel dibattito sul merito che tanto sta animando la politica di questi mesi, contrapponendo destra a sinistra. Il presidente della Repubblica ha ricordato la figura di don Milani da Barbiana in Toscana dove aprì una scuola per i giovani del luogo, figli di contadini poveri e con pochi strumenti per emanciparsi. La celebrazione e il ricordo di Don Milani in Italia e nel mondo sono state un invito a riflettere sull’importanza della Costituzione che ci porta a “levare le mani di tasca e ad agire”.  Una profezia religiosa accanto a quella civile con la convinzione che “la mancanza di cultura sia un ostacolo all’evangelizzazione e all’elevazione sociale e civile del popolo”. Non una celebrazione storica scontata. In Lettera a una professoressa, don Lorenzo sottolineava con forza il ruolo fondamentale che l’istruzione ha per la piena umanizzazione e per l’emancipazione dalla povertà e dallo sfruttamento. Certo, una scuola deve in qualche modo valorizzare i meritevoli, cioè riconoscere l’ampiezza dei talenti di ciascuno. È compito sicuramente della scuola, ma per far questo c’è un passo prima da compiere, cioè mettere tutti nelle stesse condizioni di poter realizzare appieno i propri talenti. Agostino Burberi è stato uno dei ragazzi di Barbiana, anzi, il primo. Al microfono di Vatican News ha raccontato ciò che ha vissuto accanto a don Lorenzo. La sua è una testimonianza di come l’esempio del priore continui a sollecitare tanti ad impegnarsi per una scuola diversa e una società migliore. Sul tavolo della scuola di don Lorenzo Milani c’erano sempre due libri, la Bibbia e la Costituzione “anzi c’era sempre il Vangelo, perchè lui sosteneva che il Vangelo è il libro più importante del mondo. Poi c’era la Costituzione che lui diceva essere il compromesso più alto, fatto da ideologie diverse, per andare avanti nel nostro Paese. E l’altra cosa sempre presente erano i libri di Gandhi che ci ha insegnato come è riuscito con la disobbedienza civile, non con le armi, a liberare il suo popolo, l’India, dagli inglesi”.  Oggi oltre al problema di insegnare la lingua il problema vero è quello della cultura. Il segreto della scuola e dell’insegnamento, per riattualizzare oggi dinamicamente don Milani, è “voler bene ai ragazzi”.

Redazione Web a cura di Giuseppe Serrone

Novara ricorda madre Cànopi

Novara ricorda madre Cànopi

Viene presentato oggi a Orta san Giulio (Novara) il libro Anna M. Cànopi. Madre per sempre. Badessa, mistica e poetessa (La Fontana di Siloe, pagine 116, euro 12,00), a cura di Roberto Cutaia e Matteo Albergante, con introduzione del vescovo di Novara Franco Giulio Brambilla e prefazione delle monache benedettine dell’abbazia Mater Ecclesiae. Interverranno oltre ai curatori e a monsignor Brambilla Vincenzo Amato, Biagio Bruno, Alberto Poggia e Laura Travaini.

Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita

di: Franco Giulio Brambilla

betulle

Ho immaginato questa introduzione al testo inviato con il titolo: «Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita. Carta d’intenti per il “Cammino sinodale”» come un momento per illuminare il percorso e scaldare il cuore sulla strada che ci sta davanti.

Per trovare un’intuizione che accenda il nostro spirito ho fatto un piccolo esercizio di ermeneutica sull’intervento di papa Francesco all’Azione Cattolica Italiana, lo scorso 30 aprile, ultimo di una serie. Confrontando il testo distribuito in embargo e la trascrizione dell’orale, possiamo notare tre significativi innesti, che ci raccontano il tono dell’intervento. Il testo scritto illumina la mente, le aggiunte a voce parlano al cuore.

Potremmo riassumere le aggiunte a voce con tre espressioni colorite usate da papa Francesco: “togliere dall’archivio”, “non guardarsi allo specchio”, “dal basso, dal basso, dal basso”. Questi tre modi di dire che parlano al cuore rispondono a tre domande che ci indicano la traccia del nostro camminare insieme: il “Cammino sinodale” perchécomecon chi?

La prima domanda riguarda le ragioni e le passioni del “Cammino sinodale”; la seconda lo stile e i modi con cui metterci in viaggio; la terza parla dei compagni e dei tempi del percorso.

“Togliere dall’archivio”: le ragioni e le passioni

All’inizio dell’intervento all’Azione Cattolica, nel terzo punto dove il papa commenta l’aggettivo “italiana”, dopo aver letto il primo paragrafo del testo preparato, aggiunge: «E la Chiesa italiana riprenderà, in questa Assemblea [dei Vescovi] di maggio, il Convegno di Firenze, per toglierlo dalla tentazione di archiviarlo, e lo farà alla luce del cammino sinodale che incomincerà la Chiesa italiana, che non sappiamo come finirà e non sappiamo le cose che verranno fuori. […]. E la luce, dall’alto al basso, sarà il Convegno di Firenze».

Riprendere il Convegno di Firenze, sottrarlo dalla tentazione di archiviarlo! Questa è l’insistente richiesta di papa Francesco. È il filo rosso che dobbiamo prendere in mano per districarci nel tempo presente.

Una delle prime volte che papa Francesco introdusse l’assemblea dei Vescovi ci parlò dell’“eloquenza dei gesti” per cambiare stile di presenza al mondo. Il papa ci disse: «Il vostro annuncio sia poi cadenzato sull’eloquenza dei gesti. Mi raccomando: l’eloquenza dei gesti. Come Pastori, siate semplici nello stile di vita, distaccati, poveri e misericordiosi, per camminare spediti e non frapporre nulla tra voi e gli altri. Siate interiormente liberi, per poter essere vicini alla gente, attenti a impararne la lingua, ad accostare ognuno con carità, affiancando le persone lungo le notti delle loro solitudini, delle loro inquietudini e dei loro fallimenti: accompagnatele, fino a riscaldare loro il cuore e provocarle così a intraprendere un cammino di senso che restituisca dignità, speranza e fecondità alla vita» (66ª Assemblea Generale, 19 maggio 2014).

Il tema del Convegno di Firenze era il seguente: “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”. Papa Francesco è entrato nel tema per una porta apparentemente dimessa. Prendendo spunto dal Giudice misericordioso dell’Ecce Homo della cupola, ha affermato: «Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. È il misericordiae vultus. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo».

La centralità cristologica del suo discorso ne rivela il motore segreto: solo una Chiesa che abita questo roveto ardente trova la casa da cui può partire anche per l’avventura più grande. L’“addomesticamento della potenza del volto” toglie energia a ogni nostro slancio evangelizzatore.

Il papa ne ha declinato tre aspetti con un procedere piano, quasi meditativo: umiltà, disinteresse, beatitudine, ricavandoli sul calco dell’inno della Lettera ai Filippesi (Fil 2,6-11).

Da una cristologia dell’umiliazione ha ricavato lo stile umile della missione della Chiesa. Mi ha fatto sovvenire una pagina memorabile del card. Martini che, nella lettera di presentazione del Sinodo alla sua Chiesa, scriveva: «È il volto dell’umile, che accetta di essere consegnato alla morte per amor nostro. […] In Lui, misericordia fatta carne, siamo chiamati a essere la Chiesa della misericordia; in Lui, povero per scelta, la Chiesa povera e amica dei più poveri; in Lui, appassionato per la comunione del regno, la Chiesa dell’unità intorno ai pastori da lui voluti per noi, nell’attesa fiduciosa e orante del dono della piena comunione tra tutte le Chiese cristiane; in Lui, ebreo osservante, la Chiesa che ama i suoi fratelli maggiori e si nutre sulla santa radice; in Lui, Servo umile e consegnato per amore al dolore e alla morte, la Chiesa che accetta di farsi consegnare dal Padre alla via dolorosa per amore del suo popolo, fino alla fine».[1] Stupenda consonanza di prospettiva.

Anche gli altri due tratti che devono rinnovare il volto della Chiesa approfondiscono la cristologia dell’inno: il disinteresse e la beatitudine.

Vorrei riprendere la bellezza del secondo tratto: quello del disinteresse. In sé la parola “inter-esse” è positiva, significa “stare-tra” e “abitare-in-mezzo” ed è molto vicina a “inter-cedere”, che è l’azione di chi abita tra la gente e ne porta le gioie e i dolori. Nella formula rinforzata del papa essa risuona in modo univoco: «Dunque, più che il disinteresse, dobbiamo cercare la felicità di chi ci sta accanto. L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di se stesso, allora non ha più posto per Dio. Evitiamo, per favore, di “rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli” (EG, 49)». Da ciò consegue che la beatitudine del cristiano «è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care; e anche quella delle proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza e nella misericordia di Dio Padre, alimentano una grandezza umile».

La linea di pensiero papa Francesco è disarmante nella sua semplicità. «Umiltà, disinteresse, beatitudine: questi i tre tratti che voglio oggi presentare alla vostra meditazione sull’umanesimo cristiano che nasce dall’umanità del Figlio di Dio. E questi tratti dicono qualcosa anche alla Chiesa italiana che oggi si riunisce per camminare insieme in un esempio di sinodalità». Da Cristo alla Chiesa: per la Chiesa italiana e il suo stile pastorale.

A partire da questo punto, il Discorso di Firenze ha cominciato a infondere passione ai presenti. Ad esempio, con questo passaggio, che è il punto di svolta del Discorso in Santa Maria del Fiore: «Questi tratti ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione».

Possiamo immaginare l’eco nei presenti del passo appena citato, ingigantito subito con la ripresa di un brano molto noto di Evangelii gaudium: «L’ho detto più di una volta e lo ripeto ancora oggi a voi: “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti” (EG 49)».

Vi fu allora chi parlò di “sferzata” alla Chiesa italiana! Qualcuno oggi forse pensa che non abbia avuto molto effetto, anche se mi sembra ingiusto sorvolare sul molto che si è fatto in questi cinque anni e mezzo in tante diocesi d’Italia.

In ogni caso, una Chiesa che si lascia sporcare la veste, perché condivide la fatica degli uomini, fa risuonare un famoso testo dell’allora card. Montini, nella lettera per la Quaresima del 1962, intitolata Pensiamo al Concilio: «Per questo [la Chiesa] cercherà di farsi sorella e madre degli uomini; cercherà di essere povera, semplice, umile, amabile nel suo linguaggio e nel suo costume. Per questo cercherà di farsi comprendere, e di dare agli uomini di oggi facoltà di ascoltarla e di parlarle con facile ed usato linguaggio. Per questo ripeterà al mondo le sue sapienti parole di dignità umana, di lealtà, di libertà, d’amore, di serietà morale, di coraggio e di sacrificio. Per questo, come si diceva, vedrà di “aggiornarsi” spogliandosi, se occorre, di qualche vecchio mantello regale rimasto sulle sue spalle sovrane, per rivestirsi di più semplici forme reclamate dal gusto moderno».[2]

Montini è stato definito il “poeta della modernità”, cioè colui che s’è lasciato permeare dal linguaggio moderno così profondamente da immettervi la forza vitale del lievito evangelico, in un processo di prodigioso scambio. Non possiamo noi oggi patire e sentire la stessa onda calda per iniziare il nostro “Cammino sinodale”?

“Non guardarsi allo specchio”: lo stile e i modi

Il secondo innesto di papa Francesco nell’intervento all’Azione Cattolica è il più lungo e riveste una duplice funzione: liberarci dai nostri timori e delle nostre paure e aprirci una strada praticabile. Ascoltiamolo: «In effetti, quello sinodale non è tanto un piano da programmare e da realizzare, ma anzitutto uno stile da incarnare. E dobbiamo essere precisi, quando parliamo di sinodalità, di cammino sinodale, di esperienza sinodale. Non è un parlamento, la sinodalità non è fare il parlamento. La sinodalità non è la sola discussione dei problemi, di diverse cose che ci sono nella società… È oltre. La sinodalità non è cercare una maggioranza, un accordo sopra soluzioni pastorali che dobbiamo fare. Solo questo non è sinodalità; questo è un bel “parlamento cattolico”, va bene, ma non è sinodalità. Perché manca lo Spirito. Quello che fa che la discussione, il “parlamento”, la ricerca delle cose diventino sinodalità è la presenza dello Spirito: la preghiera, il silenzio, il discernimento di tutto quello che noi condividiamo. Non può esistere sinodalità senza lo Spirito, e non esiste lo Spirito senza la preghiera. Questo è molto importante».

Lo stile sinodale – dice il papa – non è solo discussione, non è solo maggioranza, non è solo convergenza pratica su scelte pastorali, ma un evento spirituale, un’azione dello Spirito Santo nel cuore della Chiesa, fatto di preghiera, silenzio e discernimento. Basterebbero questi elementi per dirne il carattere di evento eucaristico, ecclesiale e spirituale! L’espressione più famosa è quella di Crisostomo e ricorre nel commento al penultimo salmo del salterio. Definisce l’essere stesso della Chiesa: «Chiesa è il nome del convenire e del camminare insieme» (Ekklesía gár systématos kaí synódou estìn ónomaEx. in Psalm. 149,2; PG 55,493).

Questo mette in luce il duplice aspetto della sinodalità, il “convenire” (liturgico) e il “camminare” (evangelizzante).

Il primo dice il rapporto della Chiesa con la liturgia eucaristica, sorgente della communio. Il secondo la modalità evangelica e fraterna con cui la communio si attua nel “camminare insieme”. Potemmo dirlo in forma semplice: la comunione senza la sinodalità resta un cuore senza un volto; e viceversa: una sinodalità senza Spirito può ridursi a una forma di retorico populismo.

L’insistenza del papa sul fatto che molti immaginano una sinodalità senza Spirito Santo mi ha fatto ricordare che nella Summa Theologiae di Tommaso (STh II-II, qq. 47-52) la “sinodalità” è riconducibile al “consiglio”, come dono dello Spirito Santo, e corrisponde alla virtù cardinale della prudenza.[3]

Per Tommaso d’Aquino la prudenza cristiana è la virtù necessaria per decidere, e si applica all’ambito del bene proprio (prudenza personale), del bene della famiglia (prudenza domestica) e del bene della comunità (prudenza politica): è il primo gradino dell’agire morale equo e giusto. La prudenza (che si avvicina al tema moderno del “discernimento”) è l’arte di decidere il giusto e il bene per sé (persona), per la comunità (famiglia e Chiesa), per la società (politica).

Non esiste, tuttavia, decisione saggia e prudente, se non si nutre del dono del “consiglio”. Questo processo implica due cose: la capacità di ben consigliare in coloro che sono chiamati a dare consiglio e la docilità in coloro che devono rendersi disponibili a quanto viene consigliato. Per san Tommaso il consiglio è il dono di percepire ciò che va fatto per raggiungere un fine soprannaturale, rimane anche nella vita eterna e si può chiedere con la preghiera nella comunione dei santi. Il dono del consiglio è, infine, collegato alla beatitudine della “misericordia”. È bello vedere che virtù cardinali (prudenza), doni dello Spirito (consiglio) e beatitudini evangeliche (misericordia) siano tra loro intimamente connesse.

Il tema della sinodalità può, dunque, essere svolto illustrando queste tre dimensioni: la radice della sinodalità nella liturgia eucaristia, la sinodalità intesa come forma di corresponsabilità al governo nella Chiesa e la sinodalità come processo spirituale di comunione.

Possiamo riprendere il nesso tra prudenza-consiglio-misericordia, che mi sembra perfettamente in sintonia con l’intervento di papa Francesco. La relazione tra virtù di prudenzadono del consiglio e beatitudine della misericordia, forma rispettivamente la dimensione antropologica, teologica e cristologica della sinodalità.

La virtù di prudenza è la radice antropologica della sinodalità. La prudenza richiede un discernimento che si distende nel tempo, si confronta con gli altri, si colloca nel fiume della memoria (di una comunità, di una Chiesa locale, di una città, di un paese), sfugge all’idealizzazione e sa assumere il rischio di decidere ciò che è buono qui e ora.

La prudenza è tutt’altro che “prudente”, timorosa, reticente. Esige coraggio, lungimiranza, sguardo aperto.

La prudenza appartiene al sapere pratico, e per questo non è possibile senza il concorso di molti, soprattutto di coloro che in qualche modo sono coinvolti nel discernimento di particolari ambiti dell’agire pastorale della Chiesa. Si pensi solo alla famiglia, all’educazione, alla professione, alla vita civile. La possibilità di una decisione saggia del ministero ecclesiale non può escludere l’apporto competente per l’annuncio evangelico e la pratica pastorale del popolo di Dio, delle famiglie e dei laici. Questo apporto può essere competente solo come atto della libertà che si lascia animare dallo Spirito.

Il dono del consiglio accompagna l’esercizio della virtù di prudenza: è la dimensione teologale di ogni percorso sinodale. Il dono del consiglio è reso presente nella liturgia, la quale è il momento sorgivo di ogni “evento” sinodale, tanto che è richiamata come costitutiva nell’Ordo ad synodum.[4]

Un “Cammino sinodale” non deve perdere la connotazione “spirituale” dei modi con cui la Chiesa approda alla decisione pastorale e articola le sue scelte pratiche. Altrimenti la sinodalità corre il rischio di diventare una pura operazione organizzativa e programmatica che non esprime il mistero che è e fa la Chiesa.

Se il “consiglio” è il “dono di percepire ciò che va fatto per raggiungere un fine soprannaturale”, possiamo dire che il “consigliare nella Chiesa” è l’atto spirituale per eccellenza con cui si “immagina” la Chiesa in modo corrispondente alla sua natura eucaristica.

La sinodalità è il cammino per “immaginare la Chiesa”, le sue azioni e i suoi gesti, come plebs adunata de unitate Patris, Filii et Spiritus Sancti (san Cipriano, citato in LG, 4). Solo come plebs adunata dall’Eucaristia può diventare ecclesia synodalis, comunità che “cammina insieme” sotto l’ispirazione del dono del consiglio. Ma l’intreccio tra virtù di prudenza e dono del consiglio non basta.

La beatitudine della misericordia sta al crocevia tra virtù e dono. La finezza dell’intreccio di san Tommaso rivela ora la sua bellezza e la sua concretezza. Virtù e dono trovano nella beatitudine la via storica su cui camminare insieme. Per esprimerci con un’immagine, sono la “segnaletica” con cui la Chiesa “fa sinodo”, cioè “fa-strada-insieme”.

Se dobbiamo rispondere alla domanda “Chi è la Chiesa nel mondo?”, essa non può essere che l’intreccio tra mistero e storia, tra comunione e popolo di Dio, tra plebs adunata ed ecclesia synodalis. La figura storica del rapporto tra virtù e dono è la beatitudine della misericordia: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Mt 5,7). La sinodalità assume i tratti dell’inclusione, dell’accompagnamento, dell’integrazione (solo per ricordare le tre parole chiave del Sinodo sulla famiglia). Questo evento di Chiesa può diventare paradigmatico della Chiesa come evento per il tempo a venire.

Quanta misericordia è necessaria anche oggi per fare della Chiesa il luogo dei buoni legami, perché i credenti portino la gioia del Vangelo agli uomini del nostro tempo! Da tutto ciò viene naturale la conclusione di papa Francesco: «Fare sinodo non è guardarsi allo specchio, neppure guardare la diocesi o la Conferenza episcopale, no, non è questo. È camminare insieme dietro al Signore e verso la gente, sotto la guida dello Spirito Santo»!

“Dal basso, dal basso, dal basso”: i compagni e i tempi del percorso

Sorprende che, fin dall’inizio, quando papa Francesco immagina lo svolgimento del “Cammino sinodale”, lo indichi con una frase, accompagnata dal gesto della mano che sale gradualmente dal basso verso l’alto: «Il cammino sinodale, che incomincerà da ogni comunità cristiana, dal basso, dal basso, dal basso fino all’alto».

Viene spontaneo chiedersi: quanto “dal basso”? Si potrebbe rispondere: sempre più nella profondità della vita degli uomini e delle donne.

Vi sono però due indicazioni che illuminano la richiesta del papa. La prima è riferita alla laicità e si trova nel discorso all’Azione Cattolica: «Il vostro contributo più prezioso potrà giungere, ancora una volta, dalla vostra laicità, che è un antidoto all’autoreferenzialità. È curioso: quando non si vive la laicità vera nella Chiesa, si cade nell’autoreferenzialità. […]

Laicità è anche un antidoto all’astrattezza: un percorso sinodale deve condurre a fare delle scelte. E queste scelte, per essere praticabili, devono partire dalla realtà, non dalle tre o quattro idee che sono alla moda o che sono uscite nella discussione. Non per lasciarla così com’è, la realtà, no, evidentemente, ma per provare a incidere in essa, per farla crescere nella linea dello Spirito Santo, per trasformarla secondo il progetto del Regno di Dio».

La laicità è evocata come rimedio all’autoreferenzialità e all’astrattezza, cioè a una visione della missione che non assume l’umano e non scende nel concreto della vita e della storia. È un richiamo che si comprende bene in presenza di un’associazione laicale.

Nel Discorso di Firenze, però, c’è un altro passaggio, ancora più arioso, in cui il “dal basso” assume una dimensione non solo spaziale, ma culturale: «La società italiana si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali possono dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella accademica, quella giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica, quella politica, quella dei media… La Chiesa sia fermento di dialogo, di incontro, di unità. Del resto, le nostre stesse formulazioni di fede sono frutto di un dialogo e di un incontro tra culture, comunità e istanze differenti. Non dobbiamo aver paura del dialogo: anzi è proprio il confronto e la critica che ci aiuta a preservare la teologia dal trasformarsi in ideologia» (corsivo mio).

Questa vasta rete di scambi non potrebbe riportare la Chiesa nello spazio pubblico con un metodo nuovo e con la presenza decisiva dei laici cristiani? Pensiamo che cosa significhi tutto ciò nella rete intricata delle risorse e delle persone della Chiesa italiana.

Ecco i compagni di viaggio del cammino sinodale! Ciò potrà avvenire secondo uno stile che papa Francesco collega alla categoria di “incontro”: «Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel conflitto. Nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che sia così. E non dobbiamo temerlo, né ignorarlo, ma accettarlo. “Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo” (EG, 227)».

Sotto l’apparente semplicità dell’indicazione che “dialogare” non è “negoziare” per portarsi a casa ciascuno la propria fetta dalla torta comune, sta una concezione alta del dialogo e dell’incontro (EG, 226-230). Con una precisazione inusuale per la nostra tradizione: quella di un dialogo-incontro, non solo culturale, ma che opera con altri soggetti sociali anche sulle prassi concrete: «Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà. E senza paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo».

È forse questo il punto più avanzato del Discorso di Firenze, che mi sembra richieda una profonda conversione di mentalità. La potenza creativa del genio italiano va liberata in modo nuovo, ma ciò non può avvenire senza la corresponsabilità e il concorso di molte forze sociali, culturali e caritative.

Papa Francesco lo riprende nella perorazione finale: «Perciò siate creativi nell’esprimere quel genio che i vostri grandi, da Dante a Michelangelo, hanno espresso in maniera ineguagliabile. Credete al genio del cristianesimo italiano, che non è patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese».

Ciò non esclude che la Chiesa debba offrire anche un “contributo critico” agli aspetti della cultura e della prassi che rappresentano una minaccia per l’ecologia integrale dell’uomo, com’è disegnata nella Laudato si’. Tuttavia, il necessario elemento critico del confronto con le visioni e le prassi culturali cambia totalmente di segno, come appare in questo passo: «Lo dico qui a Firenze, dove arte, fede e cittadinanza si sono sempre composte in un equilibrio dinamico tra denuncia e proposta. La nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose». E non è un caso che a questo punto viene fatto appello soprattutto ai giovani per costruire in modo corale il futuro del Paese, prospettando davanti a loro la sfida del nuovo, perché «oggi non viviamo un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento d’epoca».

Lo scambio simbolico tra il lievito del Vangelo e la pasta dell’umano, nelle sue variegate componenti culturali e sociali, nella vita personale e nelle comunità ecclesiali, apre un compito immenso ed affascinante, per cui merita veramente dedicare il tempo necessario per un coraggioso salto di qualità nelle Chiese italiane.

La «Carta d’intenti per il “Cammino sinodale”», inviata in anticipo, suggerisce il contesto del tempo di pandemia, il cambiamento di prospettiva e i tempi del percorso sinodale. La recente pubblicazione da parte della Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi è armonizzabile con il “Cammino sinodale” delle Chiese in Italia. Infatti, la XVI Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi del 2023, dal titolo: “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”, disegna un percorso di ricerca e confronto sulla “sinodalità” che riflette sul metodo con cui si svolgerà anche il “Cammino sinodale” italiano, il quale si colloca nell’orizzonte più vasto dell’annuncio del Vangelo in un tempo di rinascita.

Roma, 25 maggio 2021

Franco Giulio Brambilla,
vescovo di Novara,
vicepresidente della Conferenza episcopale italiana


[1] C.M. Martini, Lettera di presentazione alla Diocesi, Diocesi di Milano, 47° sinodo, Centro Ambrosiano, Milano 1995, 15-46: 21.

[2] G.B. Montini, «Pensiamo al Concilio», in Giovanni Battista Montini, Arcivescovo di Milano, Discorsi e scritti sul Concilio (1959-1963), a cura di A. Rimoldi, Presentazione di G. Cottier (Quaderni dell’Istituto 3), Brescia – Roma, Istituto Paolo VI – Studium, 1983, pp. 102-103 (n. 55).

[3] Ha svolto in modo mirabile questo intreccio, in un intervento divenuto famoso, C.M. Martini, «Il consigliare nella Chiesa», in Consigliare nella Chiesa. Organismi di partecipazione nella diocesi di Milano, Centro Ambrosiano, Milano, 2002, 13-25.

[4] G. Alberigo, «Sinodo come liturgia?», in Il Regno-Documenti LII (2007) 13, 443-456: 450-453.

Alla tua cena mirabile: lettera pastorale 2020-2021 del Vescovo di Novara Mons. Brambilla

L’opera è una riflessione in «quattro tempi» con il primo  dedicato a una lectio sul capitolo VI del vangelo di Giovanni «in cui campeggia il discorso su Gesù pane di vita».

Il secondo mette in discussione la separazione tra esistenza e rito: «non c’è vita dell’uomo senza rito e non c’è vita cristiana senza eucaristia». Nel terzo, uno sguardo attento e profondo alla liturgia come forma pulsante della preghiera della chiesa.

Infine, l’approdo del quarto capitolo, con una catechesi comunitaria che colloca l’eucaristia nel cuore della domenica, il giorno del Signore, tempo della festa e della comunità.

La lettera è in distribuzione nelle librerie e negli store on-line. Per parrocchie, associazioni e gruppi è ancora possibile acquistarla contattando la Stampa Diocesana Novarese.

– Con un’e-mail scrivendo a abbonamenti@sdnovarese.it

– Via Whatsapp contattando il 338.9485747

– Telefonando al 0321.661669 oppure al 338.9485747, in orari di ufficio.

un breve schema che riassume l’itinerario della lettera (scaricabile da questo link), che pubblichiamo di seguito.

 

Schema di Presentazione della Lettera pastorale

ALLA TUA CENA MIRABILE

L’eucaristia nella liturgia della Chiesa

Premesse

3 motivi per una Lettera pastorale:

  • La focalizzazione sul momento costitutivo della vita spirituale del cristiano
  • La pubblicazione della terza edizione italiana del Messale Romano
  • La sollecitazione derivante dal digiuno eucaristico nel tempo del coronavirus

Le articolazioni della Lettera pastorale:

3 articolazioni di una Lettera + una cornice

La prima articolazione contiene la Lectio di Giovanni 6 (capitolo 1)

  • Un vangelo che ricorre in cinque domeniche dell’anno B (e quindi il prossimo anno)
  • Un testo che consente un percorso spirituale di introduzione all’eucaristia come “mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo e di porgerlo ai fedeli” (DV 21)
  • Un percorso che parte dalla dimensione antropologica dell’uomo come desiderio e, passando per la dimensione teologica (“pane dal cielo”), ci fa incontrare il pane di vita nella storia di Gesù (dim. cristologica) e mangiare la sua carne e il suo sangue (dim. eucaristica) per approdare al volto della chiesa come chi dona il pane per la vita del mondo.

 

La seconda articolazione ci fa guardare al contesto socio-culturale (capitolo 2):

  • Per illustrare il rapporto tra la vita cristiana come culto spirituale e il culto rituale
  • La chiave di lettura è il rapporto tra uomo e rito: non c’è uomo senza rito e non c’è rito senza uomo
  • La crisi del rito negli anno 70-80 e la sua ripresa con una devozione/ritualità fai da te
  • riti omologanti e riti identificanti nella società di massa
  • la svolta del social media con una “ritualità proiettiva”

 

La terza articolazione è la proposta di catechesi e di riflessione che è svolta per due destinatari diversi: la prima pista per sacerdoti, gruppi liturgici, ministri della comunione, catechisti e consigli pastorali (capitolo 3); la seconda pista per la comunità cristiana e la catechesi a tutti durante l’anno, utilizzandolo come guida per la Lettera (capitolo 4).

  • La prima pista ripercorre tre temi: la liturgia “grammatica” della preghiera della chiesa, in cui si invita a custodire con cura la celebrazione della messa, con il suo programma rituale; l’“accordo rituale” con cui preparare e vivere una buona celebrazione dei testi, dei gesti e degli attori (ars celebrandi); l’“actuosa participatio” di cui dare una lettura profonda e non superficiale.
  • La seconda pista prevede una catechesi su tre punti: 1) l’eucaristia al centro 2) della domenica, 3) fonte di carità e missione (questa è la grande catechesi per il popolo di Dio):

La cornice si apre e si chiude con due testi della tradizione: dalla liturgia bizantina (e ambrosiana) del Giovedì Santo; della bolla Transiturus che istituisce la festa del Corpus Domini.

Gli Adempimenti (fascicolo a parte) sono indirizzati a diversi destinatari (parrocchie, UPM, Formazione Permanente, Diocesi) che dovranno scegliere, insieme nell’UPM e nel Vicariato, con sapienza un programma coerente.

 

 

 

Alla tua cena mirabile. L’eucaristia nella vita della chiesa


Il vescovo di Novara Franco Giulio ha presentato nella mattina di sabato 27 giugno, in un incontro con sacerdoti e diaconi diocesani presso il Santuario di Boca, la sua lettera pastorale per l’anno 2020-2021 Alla tua cena mirabile. L’eucaristia nella vita della chiesa.

L’opera è una riflessione in «quattro tempi» con il primo dedicato a una lectio sul capitolo VI del vangelo di Giovanni «in cui campeggia il discorso su Gesù pane di vita».

Il secondo mette in discussione la separazione tra esistenza e rito: «non c’è vita dell’uomo senza rito e non c’è vita cristiana senza eucaristia». Nel terzo, uno sguardo attento e profondo alla liturgia come forma pulsante della preghiera della chiesa.

Infine, l’approdo del quarto capitolo, con una catechesi comunitaria che colloca l’eucaristia nel cuore della domenica, il giorno del Signore, tempo della festa e della comunità.

Durante la mattina il vescovo ha anche consegnato un breve schema che riassume l’itinerario della lettera (scaricabile da questo link), che pubblichiamo di seguito.

 

Schema di Presentazione della Lettera pastorale

ALLA TUA CENA MIRABILE

L’eucaristia nella liturgia della Chiesa

Premesse

3 motivi per una Lettera pastorale:

  • La focalizzazione sul momento costitutivo della vita spirituale del cristiano
  • La pubblicazione della terza edizione italiana del Messale Romano
  • La sollecitazione derivante dal digiuno eucaristico nel tempo del coronavirus

Le articolazioni della Lettera pastorale:

3 articolazioni di una Lettera + una cornice

La prima articolazione contiene la Lectio di Giovanni 6 (capitolo 1)

  • Un vangelo che ricorre in cinque domeniche dell’anno B (e quindi il prossimo anno)
  • Un testo che consente un percorso spirituale di introduzione all’eucaristia come “mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo e di porgerlo ai fedeli” (DV 21)
  • Un percorso che parte dalla dimensione antropologica dell’uomo come desiderio e, passando per la dimensione teologica (“pane dal cielo”), ci fa incontrare il pane di vita nella storia di Gesù (dim. cristologica) e mangiare la sua carne e il suo sangue (dim. eucaristica) per approdare al volto della chiesa come chi dona il pane per la vita del mondo.

 

La seconda articolazione ci fa guardare al contesto socio-culturale (capitolo 2):

  • Per illustrare il rapporto tra la vita cristiana come culto spirituale e il culto rituale
  • La chiave di lettura è il rapporto tra uomo e rito: non c’è uomo senza rito e non c’è rito senza uomo
  • La crisi del rito negli anno 70-80 e la sua ripresa con una devozione/ritualità fai da te
  • riti omologanti e riti identificanti nella società di massa
  • la svolta del social media con una “ritualità proiettiva”

 

La terza articolazione è la proposta di catechesi e di riflessione che è svolta per due destinatari diversi: la prima pista per sacerdoti, gruppi liturgici, ministri della comunione, catechisti e consigli pastorali (capitolo 3); la seconda pista per la comunità cristiana e la catechesi a tutti durante l’anno, utilizzandolo come guida per la Lettera (capitolo 4).

  • La prima pista ripercorre tre temi: la liturgia “grammatica” della preghiera della chiesa, in cui si invita a custodire con cura la celebrazione della messa, con il suo programma rituale; l’“accordo rituale” con cui preparare e vivere una buona celebrazione dei testi, dei gesti e degli attori (ars celebrandi); l’“actuosa participatio” di cui dare una lettura profonda e non superficiale.
  • La seconda pista prevede una catechesi su tre punti: 1) l’eucaristia al centro 2) della domenica, 3) fonte di carità e missione (questa è la grande catechesi per il popolo di Dio):

La cornice si apre e si chiude con due testi della tradizione: dalla liturgia bizantina (e ambrosiana) del Giovedì Santo; della bolla Transiturus che istituisce la festa del Corpus Domini.

Gli Adempimenti (fascicolo a parte) sono indirizzati a diversi destinatari (parrocchie, UPM, Formazione Permanente, Diocesi) che dovranno scegliere, insieme nell’UPM e nel Vicariato, con sapienza un programma coerente.

 

fonte: diocesinovara.it

Come sogni la Chiesa di domani?

Lettera pastorale

di Mons. F.G. Brambilla, vescovo di Novara

«Anche per questa seconda lettera pastorale la nostra domanda di partenza è semplice e immediata: come sogni la Chiesa di domani?». A un anno dalla sua prima lettera, in occasione dell’Anno della fede (cf. Regno-doc. 3,2013,92ss), mons. Brambilla si rivolge ancora alla Chiesa di Novara per «delineare le linee di forza» di un nuovo slancio missionario, «che diventa ogni giorno più urgente». L’icona biblica fondativa (1Ts 1,1-10) suggerisce uno «stile ecclesiale di marca fortemente comunionale» e un’evangelizzazione capace di «assumere l’alfabeto della vita umana» per far risuonare «in essa la Parola cristiana». Attenzione antropologica che vede nei laici i «portatori di una competenza singolare» e, quindi, di una responsabilità specifica con cui la Chiesa deve «confrontarsi coraggiosamente». Nella terza e ultima parte, Brambilla indica le direttrici per la Chiesa di domani: il «volto missionario» della parrocchia – che deve «mutare forma storica», mantenendo gli «elementi fondamentali» –; il cambiamento, graduale ma deciso, del panorama dei «ministeri», che deve «accelerare l’ora dei laici»; la cura per le «nuove famiglie» (primi anni di matrimonio) e l’impegno rinnovato nella «pastorale giovanile».

Così titola la sua lettera pastorale Mons. F. G. Brambilla, Vescovo di Novara. A me piacerebbero tante cose nella “mia” Chiesa di domani. Provo ad elencarne due.

Per andare in paradiso

Un uomo andò in paradiso. Appena giunto alla porta coperta di perle incontrò S. Pietro che gli disse: “Ci vogliono 1.000 punti per essere ammessi. Le buone opere da te compiute determineranno i tuoi punti”. L’uomo rispose: “A parte le poche volte in cui ero ammalato, ho ascoltato la Messa ed ho cantato nel coro”. “Quello fa 50 punti”, disse San Pietro. “Ho sempre messo una bella sommetta nel piatto dell’elemosina che il sacrestano metteva davanti a me durante la Messa”. “Quello vale 25 punti”, disse San Pietro. Il pover’uomo, vedendo che aveva solo 75 punti, cominciò a disperarsi. “La domenica ho fatto scuola di Catechismo -disse- e mi pare che sia una bella opera per Iddio”. “Sì – disse san Pietro – e quello fa altri 25 punti”. L’uomo ammutolì, poi aggiunse: “Se andiamo avanti così, sarà solo la Grazia di Dio che mi darà accesso al paradiso”. San Pietro sorrise: “Quello fa 900 punti. Entra pure”.

Non c’è Chiesa senza Cristo. Lui è la “pietra angolare” su cui poggia ogni forma e stile di Chiesa. La Chiesa non crollerà perché c’è Lui alle fondamenta. Solo la Grazia di Dio salverà la Chiesa e noi con lei; non i papi e i vescovi, non le grandi opere o le cattedrali, non i catechismi che si fanno o si sacramenti che si amministrano, non le offerte o le adozioni a distanza… Tutte cose buone e sante. Ma siano noi a compierle, e il rischio è di puntare su di noi, sulle nostre buone opere, quasi come una carta-password per assicurarci un posto. Ricordi la scenetta del fariseo che va davanti all’altare ed esalta enumerandole una a una tutte le sue buone azioni, i suoi fioretti? Niente da fare. Un pubblicano là in fondo si batteva il petto. Questi si salva perché poggia su Cristo. Costruire la Chiesa è costruire su Cristo. “Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale” (1Pt 2,4-5). Questo testo famoso afferma la stretta relazione tra Cristo “pietra viva” e noi che siamo edificati come “pietre vive” del tempio santo di Dio.

La Chiesa non è mia ma del Signore

Lo ha detto Benedetto XVI il giorno prima di lasciare il suo ministero. “La Chiesa, la diocesi, la parrocchia, non è nostra, ma è del Signore. Si deve sperimentare che la Chiesa è uno spazio di libertà e di amore, di prossimità e di vicinanza. È un luogo dove la gente trova casa, dove respira, per ritornare a vivere la famiglia e il lavoro, l’impegno sociale e la vita di carità, con più scioltezza e speranza”. Solo se è del Signore, la Chiesa e la parrocchia non sono un “recinto chiuso”, ma hanno le porte aperte agli altri. Ama la parrocchia vicina come se fosse la tua! Camminiamo insieme sul territorio per servire meglio le persone… Dobbiamo lasciarci edificare da Cristo come “edificio spirituale”. La casa spirituale si costruisce come un “tempio” di “pietre vive”. La pietra è un materiale inerte, amorfo, sovente senza forma, spigoloso e ruvido. Ha bisogno di lasciarsi sagomare, lisciare, scolpire, lavorare perché ciascuna pietra trovi il suo posto per costruire la grande cattedrale. Edificare la grande chiesa con pietre vive, ben compaginate, dove ci sono i massi portanti, le colonne slanciate, i capitelli preziosi, le statue, i decori, le guglie, esige che ciascuno trovi la propria vocazione e s’inserisca nella sinfonia della comunione. È un’opera comune di Dio che esige di lasciarsi continuamente posare sul fondamento che è Cristo. La chiesa di domani potrà sopravvivere non come l’opera di un solista, ma come una musica corale e sinfonica. “. Così il Vescovo.

Soprattutto uomini, semplicemente santi

Mons. Tonino Bello rivolgendosi si ragazzi dell’A. C. nel 1990 diceva: “Siate soprattutto uomini. Fino in fondo. Anzi, fino in cima. Perché essere uomini fino in cima significa essere santi. Non fermatevi, perciò, a mezza costa: la santità non sopporta misure discrete. E, oltre che iscritti all’A.C., siate esperti di cattolicità attiva: capaci, cioè, di accoglienze ecumeniche, provocatori di solidarietà planetarie, missionari “fino agli estremi confini” profeti di giustizia e di pace. E, più che tesserati, siate distributori di tessere di riconoscimento, per tutto ciò che è diverso da voi, disposti a pagare con la pelle il prezzo di quella comunione per la quale Gesù Cristo, vostro incredibile amore, ha dato la vita”.

Sogno una Chiesa piena di uomini e donne in pienezza, fino in cima! Non mezze cartucce che si strusciano intorno al prete di turno mettendosi gli uni contro gli altri, non bigotti che vivono soltanto di ripetizione di riti e processioni a uso personale, ma uomini veri preoccupati soprattutto che tutti possano essere uomini veri. Così sogno la Chiesa di domani: una pietra angolare e tante pietre vive! che sia la casa e la scuola della prossimità!

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