#noirestiamovulnerabili è il titolo della lettera che l’arcivescovo di Trento, Lauro Tisi, ha scritto alla comunità sull’esperienza Covid-19

di: Lauro Tisi

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#noirestiamovulnerabili è il titolo della lettera che l’arcivescovo di Trento, Lauro Tisi, ha scritto alla comunità sull’esperienza Covid-19.

Nemmeno un grammo. L’ho cercato per settimane nell’angolo dello scaffale, con un gesto istintivo, destinato a rimanere frustrato a lungo. Ciò che sembrava così secondario nella normalità piena di tecnologia e di cibi preconfezionati, diventava all’improvviso merce preziosa. Il lievito era introvabile, nemmeno fosse oro. Così come la sua inseparabile alleata: la farina. Tutti a fare scorta di due generi alimentari che improvvisamente si sono rivelati indispensabili.

Radici

Quasi una razzia di manzoniana memoria, in ricerca di ingredienti semplici, per preparare il più popolare degli alimenti. Fame di lievito e farina: fame di pane. Simbolo di una più profonda fame esistenziale: proprio questa emergenza l’ha rivelata, perché ci ha spogliati delle nostre false sicurezze. Tutto, attorno, è sembrato sfaldarsi, sotto l’incubo di una malattia imprevista e subdola che ti lascia in sospeso e poi come vento impetuoso – scena già vista – abbatte gli alberi più vecchi.

Di fronte a ciò, la nostra vita ha mostrato, con ansia inaudita, la ricerca dell’essenziale. Abbiamo avuto l’ennesima conferma che siamo inesorabilmente vulnerabili e non possiamo bastare a noi stessi: siamo sorretti da chi è venuto prima di noi, ma al contempo siamo ciò che seminiamo. A fare la differenza è la cura delle radici.

Universo fragile

La metafora dell’unica barca, descritta da papa Francesco nella solitudine di piazza San Pietro nei giorni più drammatici della pandemia, ha raccolto consenso al di là delle appartenenze. Un’immagine efficace per raccontare un’umanità che non può essere frammentata in tante parti, anche se la pandemia ha inciso in maniera diversa a seconda della latitudine e dello stato sociale. A bordo ci siamo tutti resi conto di essere allo sbando, su una nave senza timone e timoniere.

«L’interdipendenza – commenta Vittorio Emanuele Parsi – ci ha presentato il conto, ci ha mostrato il suo lato oscuro, davanti al quale ci sentiamo persi e impotenti come uomini e donne del Trecento».

Il mito della velocità ha subìto un improvviso rallentamento. La legge del movimento è diventata eccezione quando tutto si è fermato.

L’imperativo della scienza si è trasformato in dubbio: «Ci salveremo? E come? A chi spetta la priorità delle cure?».

Abbiamo esasperato un modello di sviluppo fondato sulla ricerca del profitto e dell’efficienza a qualunque costo, con la presunzione di essere già “vaccinati” contro ogni imprevisto. Vivevamo nell’illusione di poter tenere il tempo sotto controllo. La nostra forza è stata messa sotto scacco. Il nostro sistema si è dimostrato vulnerabile proprio a partire dal fattore critico per definizione: quello umano. Abbiamo continuato a concepire un mondo “per le cose”, più che “per gli uomini”.

Ma quest’ora della storia riconsegna una grande verità: la sicurezza non può prescindere dall’attenzione verso i più indifesi. Non solo per renderli meno deboli, ma per elaborare strategie di crescita proprio a partire da quelle stesse fragilità. Non basteranno, allora, l’armamentario della tecnica, le alchimie finanziarie o l’opportunismo politico.

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Aiuterà unicamente il senso di responsabilità nell’abitare il limite, prendendo atto che ne verremo fuori solo insieme, senza erigere muri, senza ostentare supremazia, senza lasciare indietro nessuno. La pandemia rimette infatti in prima pagina una fragilità universale, ma fortemente diversificata.

Se in Africa anche una semplice frattura ad una gamba diventa un problema sanitario insormontabile, se in Perù, come nella foresta amazzonica, un ammalato di Covid è condannato a morte pressoché certa, è palese che la crisi sanitaria non peserà ovunque allo stesso modo. Le pur gravi difficoltà economiche che toccano tante famiglie, messe in ginocchio dall’emergenza anche in Trentino, non autorizzano a fingere che il tema delle disuguaglianze sociali a livello globale non ci riguardi.

L’ONU ha già prospettato carestie di proporzioni bibliche entro pochi mesi nei Paesi più poveri, con un aumento delle potenziali vittime per fame da 135 a 250 milioni di persone. Non sono cronache di un altro mondo. Sono stretta attualità.

Smemorati

Nei giorni più oscuri della crisi sanitaria e dell’isolamento tutti abbiamo avuta, nettissima, la percezione di uno scatto di umanità impensabile. Lo abbiamo riconosciuto nel dolore indicibile di fronte a vite spezzate, private dell’ultimo saluto, nei volti tumefatti di medici e infermieri, nei tanti operatori e volontari di Caritas e di altre associazioni che si sono fatte carico di una moltitudine di poveri, nella fedeltà di coloro che ci hanno permesso di continuare a godere dei servizi essenziali.

Abbiamo detto – applaudendo dai balconi e dipingendo arcobaleni – che nulla avrebbe potuto essere più come prima, pena il ripiombare nell’incubo di un’emergenza imprevedibile e sconvolgente. Sembravamo essere d’accordo sul fatto che non saremmo potuti ripartire, se non prendendoci a cuore le nostre e altrui vulnerabilità.

Ora, più di un indizio rivela il reale pericolo di disperdere troppo in fretta quel bagaglio di sofferenza. Di dimenticare la lezione di questi mesi di pandemia, nei quali si è continuato a ripetere, dentro e fuori la Chiesa, che non possiamo prescindere dalle relazioni, dalle persone, dall’amare. Un vero e proprio mantra che però si sta già raffreddando in modo inquietante.

Coloro che abbiamo chiamato “eroi” rischiano addirittura di finire sul banco degli imputati. Crescono le semplificazioni della realtà, si sbandierano facili soluzioni e si procede, non raramente, l’un contro l’altro armati. Sembra svanire la memoria delle bare allineate in modo anonimo e caricate come in guerra sui camion militari, degli ospedali trasformati quasi integralmente in terapie intensive, delle strutture di assistenza per anziani, dove al lamento in solitudine dei morenti faceva eco la splendida dedizione degli operatori.

Abbiamo appreso, non senza sconcerto, che un’organizzazione sanitaria aziendalista – oggetto negli ultimi anni di un costante depauperamento delle risorse pubbliche a favore di una crescente privatizzazione – aveva preventivamente individuato una serie di requisiti dei soggetti da sottoporre o da escludere alle terapie, mettendo l’età al primo posto, accanto allo stato di salute e funzionale.

Un amico medico mi confidava il suo profondo imbarazzo di fronte alla prospettiva di selezionare le persone per avviarle o non avviarle a una terapia di sostegno vitale, «una delle più straordinarie crudeltà – notava amaramente – vissute in oltre trent’anni di carriera, frutto di un approccio nichilista proprio di una certa filosofia, che oggi va per la maggiore, di natura riduttiva e utilitaristica».

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La nostra organizzazione sociale non è stata capace di riconoscere fino in fondo il valore di ogni singola vita. È una questione che tocca nel profondo la nostra umanità e si traduce evidentemente in scelte politiche ed economiche. Saremo capaci di invertire la rotta, facendo un passo indietro rispetto alla cultura dello scarto? Dove sta il confine della sostenibilità economica?

Per un nuovo streaming ecclesiale

L’emergenza ha scosso dalle fondamenta le nostre comunità cristiane, cancellando appuntamenti e prassi ritenute imprescindibili. Mai avremmo immaginato di vedere le chiese vuote, di non poter spezzare in presenza il pane eucaristico con i fratelli, limitandosi alla comunione spirituale filtrata da uno schermo digitale.

Per mesi siamo stati una Chiesa in streaming: prezioso servizio offerto dall’evoluzione tecnologica, ma anche provocazione fortissima, carica di domande. A una fruttuosa occasione di proclamazione della Parola, s’accompagna infatti il rischio di una fruizione individuale e devozionale dei sacramenti, dimenticando la dimensione comunitaria.

Tornano alla mente le vibranti parole di don Tonino Bello sullo “scandalo” eucaristico: «Se dall’eucaristia non si scatena una forza prorompente che cambia il mondo, capace di dare a noi credenti, a noi presbiteri che celebriamo, l’audacia dello Spirito Santo, la voglia di scoprire l’inedito che c’è ancora nella nostra realtà umana, è inutile celebrare l’eucaristia. Questo è l’inedito nostro: la piazza. Là ci dovrebbe sbattere il Signore, con un’audacia nuova, con un coraggio nuovo. Ci dovrebbe portare là dove la gente soffre oggi».

Nella tragedia collettiva non possiamo rivendicare diritti quasi fossimo una “categoria”, ma ci è chiesto piuttosto di dare ragione della nostra speranza. Il nostro compito è cogliere i segni della presenza di Dio nelle pieghe dell’umanità sofferente – a partire da quanti hanno pagato le conseguenze più pesanti della malattia e dell’isolamento –, segni di Dio nell’intreccio di tante mani solidali, ma anche nei comportamenti responsabili a cui ciascuno di noi è stato ed è chiamato.

Oggi, alla luce del dramma vissuto e non ancora scongiurato, risuona ancor più profetico il sogno di una Chiesa «ospedale da campo» descritta da papa Francesco all’inizio del suo pontificato. Abbiamo però bisogno di scelte concrete: apriamolo davvero questo ospedale, ma non solo per soccorrervi il disagio psicologico, sociale, economico e spirituale, ma soprattutto trasformando le nostre comunità cristiane, grazie allo Spirito Santo, in laboratori di dialogo e di ricerca di senso, attorno alla persona di Gesù di Nazareth. Un ospedale che non solo cura, ma sa fare opera di prevenzione.

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La sfida che abbiamo davanti è riempire di nuovi contenuti esistenziali il nostro streaming ecclesiale. Riconoscere il bene che ci abita. Consapevoli che il bene è bene, non ha bisogno di etichette e di controlli qualità. La Chiesa non è un ente terzo, chiamato a certificare il bene altrui. Anche fuori dalle sue mura, lo Spirito Santo scrive pagine di Pasqua e di liberazione.

Per questo rinnovo l’appello accorato ad essere segno e strumento dell’amore di Dio, non rubando la scena al Signore. In un contesto di crisi della pratica religiosa tradizionale, mentre diminuiscono i cristiani cosiddetti “residenti” (legati cioè ad una religiosità tradizionale) e aumentano gli “indifferenti”, crescono però – e l’emergenza ritengo abbia aumentato questa tendenza – anche i “cercatori”, rintracciabili sia tra i credenti sia tra i non-credenti.

Ai cercatori si rivolge il Buon pastore, che conosce le proprie pecore per nome (Gv 10,1-10). Il suo tono è inconfondibile: «La voce di Dio – spiegava papa Francesco nel Regina Coeli del 3 maggio – non obbliga mai: Dio si propone, non si impone», mentre la voce del maligno «seduce, assale, costringe: suscita illusioni abbaglianti, emozioni allettanti, ma passeggere».

Una seconda differenza tra tali voci ben si adatta alle sofferte e drammatiche giornate della pandemia: «La voce del nemico – proseguiva il papa – distoglie dal presente e vuole che ci concentriamo sui timori del futuro o sulle tristezze del passato», facendo riaffiorare «amarezze, ricordi dei torti subiti, di chi ci ha fatto del male. La voce di Dio – secondo il vescovo di Roma – parla invece al presente: ora puoi fare del bene, ora puoi esercitare la creatività dell’amore, ora puoi rinunciare ai rimpianti e ai rimorsi che tengono prigioniero il tuo cuore».

Dio vulnerabile, nuova Galilea

La surreale esperienza in cui siamo incredibilmente precipitati non risparmia la nostra domanda su Dio. La Pasqua in quarantena ha consegnato un peso ben diverso alle parole dell’angelo sul sepolcro vuoto: «Non è qui. È risorto. Vi precede in Galilea» (Mt 28,6-7).

La localizzazione di Gesù risorto, nei giorni delle chiese chiuse, manda in tilt il GPS della nostra macchina religiosa: dov’è la Galilea di oggi, dove possiamo incontrare il Cristo vivente? Papa Francesco metteva da subito sulla buona strada in tempi non sospetti quando, pochi giorni prima della sua elezione, sottolineava che oggi Cristo sta bussando da dentro la Chiesa e vuole uscire.

Un primo indizio sulla Galilea di oggi porta a intercettare il Risorto proprio tra i “cercatori”. Come leggiamo nei Vangeli, anche le persone a lui più vicine e più care non riconobbero il Risorto. Lasciamoci provocare dalle parole di Gesù a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!» (Gv 20,27).

Cristo è tra i cercatori di speranza, tra i dimenticati, nei feriti dalla vita. Ma non lo scopriamo ora. Basterebbe tradurre nell’oggi il Discorso della montagna. Il Risorto invita a trovarlo nella solitudine delle nostre case, negli occhi di ogni padre di famiglia uscito dall’isolamento senza un lavoro, nelle corsie degli ospedali dove uomini e donne vinti dal virus lasciavano nello stesso giorno il loro letto ad altri ricoverati in gravi condizioni, nel disorientamento di un uomo senza dimora a cui viene preclusa anche la strada, nel migrante che vive sospeso per anni in attesa di asilo. Ecco la nuova Galilea. Ecco il kairòs, il tempo propizio.

La Chiesa non cerchi il Risorto nelle piazze mediatiche, non dietro stendardi da capopopolo, non dove si alza l’applauso del consenso. Il Risorto lo trova tra i testimoni umili e nascosti, capaci di essere lievito evangelico che si mescola all’impasto (Mt 13,33), come dono e rendimento di grazie. «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20).

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Il tempo della cura

«A scuola si impara, e molto più che la matematica o l’inglese. Si vive e si cresce nel continuo confronto con l’altro, che provoca e domanda. Niente potrebbe sostituire il vivaio che ogni scuola è, nel bene e nel male. Per questo gli istituti vuoti del giugno 2020 immalinconiscono: vita che non c’è stata, aule da cui a marzo si è scappati come in un terremoto. Inevitabile, certo. Ma quanto spero che le scuole silenziose di questo giugno di pandemia siano di nuovo abitate a settembre, e colmate di voci e di facce di ragazzi!». Sottoscrivo le considerazioni di Marina Corradi su Avvenire.

Mi ha rattristato in questi mesi affacciarmi alla finestra del mio studio senza il brulicare di studenti che attraversavano in fretta piazza Fiera per raggiungere le loro classi. E poi fermi a piccoli gruppi, sparsi un po’ ovunque, a commentare le lezioni prima di rientrare a casa. Dalle restrizioni della pandemia, seppure parzialmente e con gradualità, sono usciti praticamente tutti. Tranne loro, i protagonisti delle nostre aule scolastiche, di qua e di là delle cattedre, che hanno pagato fin troppo le conseguenze dell’isolamento.

L’anno scolastico si è chiuso senza alcuna stretta di mano, senza l’abbraccio finale tra compagni giunti a fine ciclo, senza un saluto anche solo con occhi riconoscenti ai docenti che lasciano talora dopo oltre quarant’anni di insegnamento, spesso segnato da una dedizione commovente. Qualcuno di loro è riuscito, peraltro, a far vivere la scuola online come momento di grande creatività pedagogica.

A tal proposito, mi ha positivamente sorpreso il percorso svolto da un gruppo di studenti di un Liceo del capoluogo, invitati a interrogarsi e confrontarsi a distanza, nei giorni di picco della pandemia, con alcuni autorevoli rappresentanti della società e della cultura, per ritrovare un senso a questa emergenza e trarne una lezione per il futuro.

I ragazzi hanno messo nero su bianco questo lavoro, scegliendo, tra le possibili vie di uscita dalla crisi, uno scenario di grande responsabilità, realizzabile solo «se accettiamo – scrivono – di non rifugiarci nel “mondo di prima” e non cediamo al pessimismo dei catastrofisti». Nel concreto, i giovani sottolineano, facendo eco a don Milani, la necessità di una grande presa in cura collettiva: dalla cura di se stessi, delle persone e delle relazioni, alla cura della politica e dell’economia, dell’ambiente, dell’informazione e perfino alla cura della bellezza. Credo che al loro appello dovremmo anzitutto rispondere con senso di gratitudine profonda per questa genuina voglia di ripartenza, priva di secondi fini.

Da parte nostra, andrebbe aggiunta un’ulteriore cura prioritaria: quella esattamente verso di loro, ragazzi e giovani, coinvolti indirettamente in percorsi che li rendono strumenti del profitto e troppo spesso snobbati dall’insensibilità o addirittura dalla presunzione degli adulti. Poggiamo su chi è venuto prima di noi, come ricordavo all’inizio, ma al contempo siamo ciò che seminiamo. Un ospedale, una casa di riposo valgono quanto una scuola. Il nostro vivaio è lì: germogli delicati, da coltivare con tutta la premura possibile.

Sinfonia

Nei giorni della quarantena ci ha ferito la notizia della morte del musicista e direttore d’orchestra Ezio Bosso, stroncato a soli 48 anni da una patologia neurologica degenerativa. Bosso è stato icona della travolgente bellezza della vita, pur nella sua evidente vulnerabilità. Per lui il lockdown era già scattato alla prima diagnosi di malattia. Eppure, dalla sua esistenza fragile è uscito un messaggio di umanità e di speranza che ha toccato il cuore di tanti, con la dolce irruenza di una potente sinfonia.

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In un’intervista rilasciata pochi giorni prima di morire, in piena quarantena, rivendicava per la musica – a proposito di cura della bellezza! – un ruolo vitale. «I diritti – diceva – a volte possono essere sospesi, ma la musica è una necessità, è come respirare, come l’acqua. Il potere della musica è infinito: ci rende tutti uguali, un’unica società che lavora per essere migliore.

Ci rende umani per davvero, fuori da tutti i solipsismi dei social e da questo nostro guardare sempre e soltanto a grida e strilli. La musica sussurra e ci svela la vita». E il maestro concludeva: «Viviamo sempre come fosse la prima volta, come se il nostro fosse il primo respiro e come se fosse l’ultimo».

Trento, 26 giugno 2020, solennità di san Vigilio
Lauro Tisi, vescovo di Trento