Il caso. Musica in streaming: solo un artista su mille guadagna decentemente

Sono ben 524 milioni le persone che usano piattaforme come Spotify per ascoltare musica. Un business da 13,4 miliardi di dollari. Ma solo pochissimi artisti riescono a guadagnare bene
Musica in streaming: solo un artista su mille guadagna decentemente
da Avvenire
L’abbiamo imparato da tempo: la musica ormai si consuma soprattutto in streaming. Certo, i compact disc vendono ancora un po’ e i vecchi 33 giri sono persino tornati di moda anche tra i giovani. Ma resta il fatto che la maggior parte del mercato musicale è digitale grazie a piattaforme come Apple Music, Spotify, YouTube Music, Pandora, Amazon Music, Tidal e Deezer. Come ha evidenziato, qualche giorno fa, Statista (la più importante piattaforma di statistica su dati di mercato e di consumo) «nessun’altra innovazione tecnologica ha sconvolto l’industria globale dei media e dell’intrattenimento e cambiato le abitudini di consumo della musica in modo così netto come lo streaming. Negli ultimi anni, il numero di abbonati è aumentato vertiginosamente e oggi quasi 524 milioni di persone ascoltano i loro artisti preferiti o ne scoprono di nuovi tramite piattaforme di streaming online». Una crescita enorme se si pensa che nel 2014 gli utenti erano 7,9 milioni.

Non solo. «I ricavi dello streaming musicale – prosegue lo studio di Statista – si sono moltiplicati di oltre 28 volte nell’ultimo decennio». Spotify rimane la piattaforma di streaming musicale più usata al mondo, con il 30% di tutti gli abbonati. Secondo gli ultimi dati della società, il numero di abbonati premium (cioè paganti) ha raggiunto i 182 milioni di utenti. Apple Music si piazza seconda con il 16% della quota di mercato e il 13% di utenti. Lo streaming di musica in tutto il mondo nel 2021 ha raggiunto un fatturato di 13,4 miliardi di dollari. Insomma, lo streaming non è solo una realtà ormai consolidata, ma «la realtà» più importante per la diffusione e il business musicale. Anche per questo viene spontaneo chiedersi: quanto guadagnano gli artisti dalle piattaforme streaming dedicate alla musica? A questa domanda chiave ha provato a rispondere Producer Hive, una rivista inglese destinata a musicisti e produttori. Prima di arrivare ai dati, va precisato che esistono molti tipi di diritti d’autore, quelli pagati dalle piattaforme di streaming sono mediamente calcolati in base al numero di volte in cui una registrazione audio viene riprodotta su una piattaforma o scaricata. Una parte dei guadagni dell’artista finiscono anche all’etichetta discografica o all’editore musicale che tratten-gono una percentuale fissa.

La piattaforma più popolare, cioè Spotify, secondo Porducer Hive, paga mediamente gli artisti tra 0,003 e 0,004 dollari per riproduzione. Esistono comunque molti altri fattori che determinano la quota che si può ottenere per streaming, come per esempio la popolarità dell’artista e il Paese nel quale i suoi brani vengono riprodotti. C’è un altro punto importante. Oggi, le etichette discografiche trattengono una percentuale fissa di diritti d’autore per lo streaming degli artisti che producono e commercializzano. Spiega Producer Hive, «normalmente gli artisti ricevono solo il 16% circa dei pagamenti dei diritti dai servizi di streaming mentre le etichette indipendenti di solito dividono al 50% con gli artisti i guadagni».

Resta la domanda più importante: quanto guadagnano quindi gli artisti dalle piattaforme di streaming? Grazie all’inchiesta di Producer Hive scopriamo che c’è una differenza sostanziale di trattamento da piattaforma a piattaforma. E che alcune pagano molto meglio di altre. Per esempio, Apple music e Amazon Music pagano meglio di Spotify mentre la piattaforma streaming che rispetta di più gli artisti è Tidal, dove per guadagnare un dollaro occorrono 78 ascolti. Il peggior servizio invece è Deezer, dove per avere un dollaro bisogna ottenere 909 streaming. Dopo Tidal si piazza Apple Music, dove per guadagnare un dollaro occorrono 125 riproduzioni di un brano. Seguono Amazon Music (249 ascolti per avere 1 dollaro), Spotify (314 riproduzioni per guadagnare 1 dollaro), YouTube Music (500 ascolti per 1 dollaro) e Pandora (752 riproduzioni per un dollaro). Messi così forse questi numeri non rendono abbastanza l’idea.

Per questo motivo Producer Hive ha messo a disposizione dei suoi lettori «un calcolatore delle royalty dello streaming» che permette di avere un’idea di quanto possa guadagnare un artista da ogni piattaforma. Va detto che sono calcoli generici ma sono comunque utili per farsi un’idea. Per esempio, proviamo a ipotizzare di essere un artista che ha raccolto con la sua musica 1 milione di streaming. Ecco quanto avremmo guadagnato da ogni singola piattaforma. Da Deezer 1.100 dollari, da Pandora 1.330 dollari, da YouTube Music 2.000 dollari, da Spotify 3.180 dollari, da Amazon Music 4.020 dollari, da Apple Music 7.830 dollari e da Tidal 12.840 dollari. Davanti a questi risultati la prima riflessione che viene da fare è che nemmeno 1 milione di streaming permette ad un artista di guadagnare decentemente. Infatti per stessa ammissione di Spotify «1.000 artisti hanno guadagnato nel 2021 dallo streaming più di 1 milione di dollari». Mille su 8 milioni di musicisti presenti su Spotify, cioè lo 0,01%. Per ottenere un’entrata decente da Spotify – secondo Groover Blog – «bisogna piazzarsi tra i primi 9.000 artisti più suonati». A guadagnare decentemente dallo streaming, quindi, sarebbero di fatto solo l’0,11% degli artisti. Ci sono però delle differenze. Apple Music, per esempio, paga gli artisti il doppio di Spotify. Per non parlare di Tidal che li paga quasi 12 volte di più di Deezer e quattro volte di più di Spotify. Facciamo ancora due conti, con due esempi di casa nostra. Su Spotify la canzone più gettonata di Vasco Rossi è «Sally» con 44 milioni 423 mila 913 ascolti. Secondo il calcolatore di Producer Hive, ha prodotto su Spotify royalties per oltre 141 mila euro, mentre «Brividi» di Mahmood & Blanco che ha vinto l’ultimo Sanremo ha invece guadagnato 339 mila euro. Chissà quanti ne saranno arrivati agli artisti.

Musica. Desdemona, la doppia vittima dei troppi Otello

La regista Rosetta Cucchi rilegge «con sensibilità di donna» l’“Otello” di Rossini, titolo clou dell’edizione 2022 del pesarese Rof: «Un doloroso percorso purtroppo attuale nella fragilità umana»
Dmitry Korchak e Antonino Siragusa in una scena di “Otello” di Rossini

Dmitry Korchak e Antonino Siragusa in una scena di “Otello” di Rossini

da Avvenire

L’“Anima gemente” nello “Stabat” di Tuma

Animam gementem cano è il titolo del disco firmato dal Pluto-Ensemble e dall’Hathor Consort; e per cantare “l’anima gemente” citata dal testo dello Stabat Mater, le due formazioni impaginano un programma davvero affascinante, che ci riporta al cuore dell’Europa centrale, tra Austria e Boemia, dove nel XVII secolo erano attivi alcuni dei più illustri musicisti della scuola barocca. Nulla forse di nuovo da scoprire per quanto riguarda Heinrich Ignaz Franz von Biber (1644-1704), che per una ventina d’anni ha ricoperto la prestigiosa carica di Kapellmeister presso il Duomo di Salisburgo; il suo suggestivo Requiem in fa minore si impone sicuramente come esempio mirabile di ricchezza armonica e melodica, ottenuta mediante il sapiente intreccio tra le sezioni polifoniche corali e l’apporto della compagine strumentale, in un’atmosfera di forte potenza evocativa, profondamente intrisa di senso del tragico e del sublime. Una partitura di grande effetto, assolutamente ideale per introdurre il clima di raccoglimento e preghiera richiamato dallo Stabat Mater in sol minore di František Ignác Antonín Tuma (1704-1774), musicista tenuto in alta considerazione dai suoi contemporanei: compositore, organista, gambista e tiorbista, perfezionò i suoi studi di contrappunto a Vienna con Johann Joseph Fux e fu al servizio del conte Franz Ferdinand Kinsky (Cancelliere di Boemia), prima di approdare alla corte dell’imperatrice Elisabetta Cristina di Brunswick-Wolfenbüttel (vedova di Carlo VI), dove vide verosimilmente luce – intorno al 1748 – lo Stabat che suggella questa registrazione. La florida vena coloristica di Tuma riesce a conferire profondità espressiva e spessore cromatico all’antico testo attribuito a Jacopone da Todi, attraverso un misurato utilizzo di tinte pastello e un sapiente uso di madrigalismi con cui il maestro boemo piega la retorica del dolore al puro potere espressivo della sacra Parola, perché “l’anima gemente” possa cantare invocando alfine la gloria del Paradiso.

Animam gementem cano
Pluto-Ensemble, Hathor Consort, M. De Cat, R. Lischka
Ramée / Self. Euro 20.00

Musica. Renato Zero: «Il mio credo è una prova di coraggio»

Il cantautore romano presenta “Atto di fede”, 19 brani di musica sacra: «L’umiltà di dirsi cattolici è sparita, ma Dio però è sempre più Dio, ostinato a credere in noi e a perdonarci»
Il cantautore romano Renato Zero, 71 anni, esce con il suo ultimo album “Atto di fede”

Il cantautore romano Renato Zero, 71 anni, esce con il suo ultimo album “Atto di fede”

Sarà l’inquietudine scatenata dalla pandemia, prima, e dalla guerra poi. O, forse, più semplicemente gli anni che passano e la consapevolezza che, a quasi 72 anni, «il futuro è più corto del passato». O, forse ancora, sarà tutto questo insieme. Fatto sta che la nuova opera di Renato Zero è davvero diversa da tutto ciò che l’ha preceduta. Nel formato, innanzi tutto, perché è un progetto editoriale che prevede libro e doppio cd (edizioni Tattica, da domani nelle librerie, nei negozi di dischi e nei book store digitali) ma, soprattutto, per il contenuto. Che, peraltro, è chiaro già dal titolo: Atto di fede. Si tratta di 19 brani inediti di musica sacra che lui ha scritto e composto (con gli arrangiamenti di Adriano Pennino), ciascuno preceduto dalla lettura di una lettera di uno di quelli che ha scelto come “Apostoli della Comunicazione”. I nomi sono i più diversi: ci sono don Antonio Mazzi e Alessandro Baricco, Sergio Castellitto e Marco Travaglio, Giovanni Soldini e Walter Veltroni, solo per citarne alcuni: «Ho messo insieme l’eccellenza.

Si parla di temi importanti e non me la sentivo di gestire questo accostamento alla fede in prima persona. Avevo bisogno di condividerlo con loro che sono diversi ma accomunati dalla poesia, dall’inclinazione a essere leggeri nel senso poetico del termine». Poi ci sono, naturalmente, le canzoni. E lo sguardo e l’ascolto si fermano inevitabilmente su alcuni titoli: Parla con Dio, ad esempio, in cui il cantautore ci esorta a «dirgli tutto quello che non va, le tue ansie, le paure, quella pena in fondo al cuore, qual è il mondo che vorresti tu. Parla con Dio più frequentemente che potrai, Lui apprezza molto la sincerità»; Grazie Signore, in cui ci ricorda che «la vita è sacra, immenso chi ce l’ha donata. Lui è il giusto senso all’esistenza… Portiamo ovunque quella luce a chi non crede»; Benvenuti, per assicurarci che non dobbiamo avere paura perché «Lui vi accoglierà, Dio che vede e soffre con te, si insinua tra mille perché»; Ave Maria, perché «dove la ragione non ha più niente da imparare, Ave Maria. Non siamo mai stati così soli. E la paura è già legge».

Nella presentazione del nuovo progetto, che si è tenuta ieri a Roma, nella Sala Marco Aurelio del Campidoglio, Renato Zero era un fiume in piena. È uno che ama parlare e sono due anni che manca dal palco a causa della pandemia. Tanto che l’incontro è diventato l’occasione per presentare anche il grande ritorno dal vivo con Zerosettanta, quattro concerti-evento al Circo Massimo il 23, 24, 25 e 30 settembre in cui festeggerà, seppure in ritardo di due anni, i settanta anni di vita e i 55 di carriera. « Atto di fede è una sfida. Sono arrivato a un traguardo al quale ambivo da parecchio tempo: accarezzare Dio da vicino e fargli i complimenti per avermi gestito e mantenuto intatta la fede» spiega il cantautore, rivelando che prima di salire su un palco fa sempre il segno della croce «per chiedere di non sbagliare e riuscire a dare il massimo». Poi aggiunge: «Ci eravamo dimenticati di Dio. Non ci siamo fatti frequentare da Lui, abbiamo lasciato che la stanchezza ci impedisse di raggiungerlo. L’umiltà di dirsi cattolici è sparita, preferiamo giocare tre numeri al Totip per raggiugere quella felicità che avremmo garantita anche solo gettando uno sguardo oltre le nuvole».

Parole importanti, che Zero usa per presentare il suo disco: «Dio però è sempre più Dio. Sempre più ostinato a credere in noi. A perdonarci. Siamo le sue creature anche quando stupriamo, ammazziamo, rubiamo, spacciamo, mentiamo. Perché è così indulgente e caritatevole? È semplice: perché vorrebbe guarirci! Dalla superbia, dal rancore, dall’insoddisfazione, dalla mancanza di rispetto persino verso noi stessi. Guariremo? Considerando che la maggior parte dei mali, siamo noi stessi a scatenarli, basterebbe forse cambiare sguardo. Aprire il pugno. Riprendere il dialogo con albe e tramonti. E ridisegnarci un futuro immacolato. Dio mio… quanto sei paziente! Ma poi chissà se effettivamente ce lo meritiamo questo Dio?».

La fede, osserva «è la chiave di tutto perché ci permette di osare, di andare oltre le nostre capacità e le nostre potenzialità. A volte dovremmo superare un fosso e, invece, stiamo lì a cincischiare perché non abbiamo il coraggio di fare questo salto per paura di cadere nel vuoto». Invece, è la raccomandazione, «questo salto fa fatto tutte le mattine, anche nei momenti cruciali della malattia, del tracolo, dello sgomento, dell’apatia, quando ci sembra di non trovare la forza per continuare il viaggio. Dobbiamo avere il coraggio di sentirci difettosi e inadeguati». In chiusura torna a parlare dell’appuntamento di settembre e della sua città: «Il Circo Massimo premia la mia romanità, mi faccio gladiatore per conquistarmi ancora una volta l’applauso».

Ama Roma, la sua città, dove gli piace andare in giro: «Voglio continuare a essere lo zingaro che molti di voi conoscono. Purtroppo ci sono giorni in cui mi sono sentito straniero a Roma dove manca la voce dei romani, a Trastevere ormai senti parlare sempre più inglese». E, poi, c’è quella che definisce «l’invadenza della politica» e che lo spinge persino a lanciare un appello: «Perché non mettono il governo a Torino? Noi romani saremmo contenti anche di non essere più la capitale d’Italia, tanto siamo già la capitale del mondo. Facciamo un bando: liberiamo la città e diamo la possibilità ai romani di riprenderne possesso».

Avvenire