Quando un atto è «morale»?

«L’oggetto, l’intenzione e le circostanze rappresentano le “fonti”, o elementi costitutivi, della moralità degli atti umani» (Catechismo 1750).
L’attributo «morale» di un atto ha significato bivalente. Può significare «moralmente qualificabile» e fa riferimento alle condizioni di moralità: il conoscere e il volere. Può significare «moralmente buono» e fa riferimento agli elementi costitutivi o fonti della moralità. Il contrario di atto morale nel primo significato è atto pre-morale, nel secondo è atto im-morale.
A costituire moralmente un atto concorrono tre elementi. Il primo è l’oggetto, vale a dire il fine proprio, intrinseco all’atto. In quanto l’oggetto è un bene morale l’atto è buono. In quanto è un male è cattivo. In quanto non è né un bene né un male morale è indifferente. Le circostanze sono le condizioni di fatto in cui l’atto è posto. Esse rispondono alle domande: chi, che cosa, dove, quando, quanto, come, perché. Possono incidere in modo sostanziale sull’oggetto o accidentale. Nel primo caso l’atto muta: ad esempio occultare la verità per evitare il panico non è mentire, è atto di protezione civile; fare violenza a un aggressore per legittima difesa non è ostilità, è atto di tutela di un innocente. Nel secondo caso aumentano o diminuiscono la bontà o la malizia oggettiva di un atto oppure rendono buono o cattivo un atto indifferente. Il terzo elemento è l’intenzione, che costituisce il fine soggettivo con cui un atto è compiuto. Anche questo contribuisce ad aumentare o diminuire la bontà o la malizia di un atto o a rendere buono o cattivo un atto indifferente. Ad ogni modo, una circostanza o un fine cattivo rende cattivo un atto buono per il suo oggetto. Una circostanza o un fine buono invece non rende buono un atto cattivo per il suo oggetto. Perché un atto sia buono occorre la bontà dei tre elementi insieme: l’oggetto, le circostanze e l’intenzione. Perché sia cattivo basta la cattiveria di uno solo. Vi sono atti intrinsecamente cattivi, che è sempre illecito volere, perché la loro scelta comporta un male morale – il peccato – che non è mai consentito compiere.

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teologia

 

 

«Educare al senso autentico della morale e della penitenza»

N on un «tagliando dello spi­rito », ma un «un serio cam­mino di penitenza e di ri­conciliazione che sia guidato dalla Scrittura». Quando si parla del sa­cramento del perdono, don Marco Mani risponde così. Pastoralista che fa parte del gruppo del Servizio Apostolato biblico nazionale, è par­roco di una comunità di cinque­mila abitanti nella diocesi di Man­tova e responsabile dell’Ufficio ca­techistico diocesano.
 Don Mani, il Papa invita a risco­prire questo sacramento. Forse perché oggi si è perso un po’ per strada?

 «Direi che assistiamo a un allonta­namento generale. E i motivi sono molteplici. Prima di tutto c’è un fat­tore culturale. Oggi l’uomo e la don­na si considerano esseri perfetti e con le loro possibi­lità
e strumenti non avvertono il biso­gno di nessuno e perciò nemmeno di Dio. In questa pro­spettiva è difficile immaginare che si possa sbagliare. Tendiamo sempre più al top da tutti i punti di vista: fisico, intellettuale o professionale. Quin­di chi cade nell’errore è sempre l’al­tro. È seguendo questa logica che nascono anche le crisi familiari.
 Altre ragioni dell’allontanamento dalla confessione?

 Un secondo motivo è la non cono­scenza del sacramento. Manca un’educazione alla penitenza e al­la riconciliazione, all’interno delle quali si colloca il sacramento. An­cora oggi mi pare siano carenti i ri­ferimenti morali nella vita. La Pa­rola di Dio è per lo più ignorata e quindi non c’è un’educazione eti­ca sulla Scrittura. Poi non va di­menticato che, a causa della fran­tumazione dell’agenda dei preti fra mille appuntamenti, da parte loro non c’è sempre un’adeguata di­sponibilità all’ascolto, alla celebra-
zione penitenziale e al dialogo che riconcilia».
 Eppure, nei giorni che precedono il Natale o la Pasqua, i « pellegri­naggi » al confessionale sono con­tinui.

 È vero. In molti, soprattutto per le festività natalizie, si accostano al sacramento. Ma la motivazione portante mi sembra di carattere prevalentemente tradizionale. «Al­meno a Natale dobbiamo essere buoni», sento ripetere. Facciamo il «tagliando dello spirito» e poi an­diamo avanti di rendita. Invece oc­corre tornare a comprendere il ve­ro senso del peccato e il bisogno di conversione e di riconciliazione con Dio e con i fratelli.

 Come celebrare, quindi, il perdo­no?

 Come dice il Papa nel messaggio per l’Anno santo compostellano, è urgente intrapren­dere un serio cam­mino di penitenza guidati dalla Scrit­tura. Il Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio dell’ottobre 2008 lo dice con chiarezza: solo la Parola può farci ca­pire i nostri sbagli e solo la Parola può indicarci il cammino da intra­prendere per la conversione. Le no­stre comunità dovrebbero avere più coraggio nel collocare al centro le Scritture e costruire su di esse i lo­ro cammini penitenziali.

 E in quale modo un sacerdote si rapporta con il sacramento della conversione?

 Insieme all’Eucaristia domenicale, questo sacramento colloca la co­munità dentro al progetto di amo­re che Dio ha per l’umanità. Ma la celebrazione del perdono richiede tempi lunghi, calma e una vita spi­rituale intensa. Per questo la fretta e gli impegni del prete che si sus­seguono non favoriscono tale mi­nistero.

 Giacomo Gambassi
  – avvenire 9 gennaio 2010