Così don Pablo portò la fede sulla vetta

Fino alla cima. Testamento spirituale (pagine 176, euro 14,00) scheda online su ibs>>>

«Alto, amabile e sorridente, una persona alla mano, affabile. Parlava in modo piacevole, semplice, adeguandosi all’uditorio che aveva davanti. Non gli interessava mettersi in mostra ma solo annunciare Cristo. Ci ha detto cose profonde con tanta passione e allegria. E ci fece ridere il giorno in cui affrontò il tema della morte».

Questo è il ricordo che sorella Pilar German, in nome delle consorelle del monastero cistercense Nostra Signora della Carità di Tulebras, in Navarra, ha scritto il giorno in cui apprese la morte del sacerdote che soltanto qualche ora prima aveva terminato di dettare l’ultima meditazione per gli esercizi spirituali tenuti alla comunità. Pablo Domínguez Prieto si congedò da loro la domenica del 15 febbraio 2009.

Quel pomeriggio, o all’imbrunire, o durante la notte buia, don Pablo cadeva in un precipizio durante la discesa del Moncayo, il monte che domina tutta la valle, diocesi di Tarazona, in Spagna. Cadeva dopo essere salito su quella cima, cadeva per risalire al Cielo. Con Sara, amica di tante scalate.

Tutte le riflessioni, le citazioni, le immagini dotte e i racconti popolari che don Pablo ha usato per quel suo ultimo corso di esercizi, pubblicato dall’editrice San Paolo con il titolo Fino alla cima. Testamento spirituale (pagine 176, euro 14,00), del quale pubblichiamo a lato un breve estratto, non possono che essere riletti proprio alla luce di quanto avvenne in quel giorno, che diventa una nuova testimonianza di fede, che fa della stessa morte un misterioso disegno divino perché in essa – come disse il cardinale di Madrid Rouco Varela nell’omelia per le esequie, pubblicata nel volume – «si realizza un eterno disegno di amore che Gesù ha espresso come desiderio e ultima volontà, come preghiera nata dall’amore per i suoi». E “suo” era don Pablo, che questo amore era capace di diffondere, sapendolo unire a un vero entusiasmo nel raccontare le sue esperienze di fede.

Proprio della morte aveva parlato, creando non poco stupore tra le monache: «Se pensiamo alla morte, alla morte come porta per la Vita, uno desidera morire quanto prima! Ma che dobbiamo fare? Dobbiamo aspettare, avere pazienza! Non tutto può essere immediato! Siate serene, aspettate e cercate il Signore». Don Pablo non dovette aspettare molto. Ma i suoi quarantadue anni li ha vissuti intensamente, sempre disponibile all’incontro, come pastore, predicatore e professore di Filosofia nella Facoltà di Teologia San Damaso.

Lo rivelano le persone che lo hanno conosciuto e che si sono fatte intervistare nel documentario girato dal regista e attore spagnolo Juan Manuel Cotelo L’ultima cima, che l’Associazione cattolica esercenti cinema mette a disposizione delle sale della comunità come ottimo sussidio pastorale. Rivelatrici sono le parole dello stesso Cotelo che racconta come ha scoperto Pablo e cosa l’ha colpito di lui E come diventa oggi “rivoluzionario” parlare in un film di un sacerdote bravo, allegro, amato dalla gente, carismatico, che rivela di avere una devozione speciale per san Giovanni «perché tutto ciò che dice è di una freschezza meravigliosa.

Vedeva le cose con una vivacità particolare». Proprio come don Pablo, che riesce appunto a vivacizzare ogni suo pensiero traendo immagini e racconti dalla storia, dalla filosofia, dalla letteratura, dall’aneddotica, e anche dal cinema: cita Händel e Frossard, Cicerone, Pelagio e Tommaso da Kempis, Goethe e il film catastrofico L’inferno di cristallo, il cardinale Van Thuân e i santi Luigi Maria de Monfort e Giovanni Paolo II, il beato Karl Leisner e il gesuita Padre Luli.

«Le interviste raccolte dal regista del film dimostrano che Pablo accumulava speranza, coraggio, compagnia, per trafficarli come beni preziosi – scrive Arianna Prevedello nella scheda pastorale che accompagna la pellicola –. In essi egli trovava anche la luce della ragione, quella che lui chiamava la “ragionevolezza della fede”, che aveva sperimentato nello studio e nell’applicazione della filosofia e della teologia. L’invito di don Pablo, e di questo film, è diretto senza scorciatoie: dove sei? per cosa batte il tuo cuore? per cosa trovi il tempo? dove vorresti morire?». Le risposte le troviamo in quelle pagine, in quella vita, su quella montagna. E molte, nell’incontro che avverrà.

Luca Pellegrini

© riproduzione riservata – avvenire.it

FEDE IN ALTA QUOTA…Sant’Anna di Vinadio Santuario vetta d’Europa

 FEDE IN ALTA QUOTA

Sant’Anna di Vinadio
Santuario vetta d’Europa
Paolo Pittaluga
Cuneese, a due passi dal confine francese. Alpi Marittime. Situato tra le valli Stura, Gesso e Tinèe – in un ambiente naturale mozzafiato caratterizzato da una grande corona di vette grigiaste e franose, con sottostanti laghetti pittoreschi, circondato dalle cime imponenti della Maladecia a Sud e della Bravaria a Nord – si staglia il complesso del Santuario di Sant’Anna, che con i suoi 2.035 metri di altezza ha il primato di essere il più alto d’Europa. Per piemontesi e liguri un posto molto amato, non semplice da raggiungere, anche se l’auto porta sino in cima dopo un costante salire lungo un nastro d’asfalto che accarezza precipizi da brivido.
Il primo documento che indica la presenza di una chiesetta nel vallone dell’Orgials, è un atto d’intesa sui confini di Vinadio e Isola del 23 settembre 1307, che parla dell’ospizio di Santa Maria di Brasca. Era una piccola cappella affiancata da semplici locali per l’ospitalità dei viandanti e pellegrini. In un atto del 1447 risulta che l’ospizio era amministrato dal parroco di Vinadio. Le testimonianze più antiche sulla vita dell’ospizio di Santa Maria attestavano la presenza di eremiti che si dedicavano al servizio ai viandanti. Il documento più importante è datato 4 anni prima e, per la prima volta, viene attestato il nuovo titolo della chiesa detta ora Sant’Anna. L’ospizio alpino stava cambiando fisionomia divenendo un caratteristico Santuario. Il culto di sant’Anna e di san Gioacchino si era diffuso in occidente dopo le crociate e per dare forza alla nuova devozione anche tra quei monti la tradizione ricorse all’apparizione di sant’Anna ad una pastorella, Anna Bagnis, avvenuta su una roccia tra i pascoli più a monte della chiesetta.Attorno al ‘500 la chiesa cominciò a diventare vero luogo di preghiera e meta di pellegrinaggi. Risale al periodo il rifacimento dell’altare e l’acquisto di un dipinto che raffigurava la santa, andato perduto durante la Rivoluzione francese. Nel 1619 giunse una reliquia di sant’Anna, che è tuttora conservata nel braccio d’argento esposto in chiesa. La tappa più significativa dello sviluppo del Santuario fu la costruzione della nuova chiesa, quella attuale, tra il 1680-81, che venne edificata leggermente più a valle dell’antica cappella. Allora, dicono le cronache, erano già migliaia i pellegrini. Nei secoli a seguire la struttura andò sempre più ampliandosi e, nel 1881, l’edificio assunse l’impostazione attuale con il rifacimento della facciata e del campanile.

Trattandosi di un luogo di confine, il posto venne utilizzato spesso dai soldati per costruire trincee e fortini. Persino la strada carrozzabile venne costruita nel 1924 a scopi militari per raggiungere il Colle della Lombarda che è nelle vicinanze. Finite le guerre, gli edifici militari furono riconvertiti a scopi civili e, per ospitare i tanti fedeli, nel 1971 fu risistemato il chiostro tra la chiesa ed il vecchio ospizio rendendolo adatto alle celebrazioni. L’attuale edificio, quello costruito nel 1680, è a tre navate ed è particolarmente curioso dal momento che il pavimento ligneo è in salita sul pendio della roccia.
Sempre nel Cuneese non va dimenticato un altro Santuario che “sfiora” il cielo: quello di San Magno. Siamo in Val Grana e l’edificio, meta di molti pellegrinaggi, sorge su un cucuzzolo a 1.760 metri. Le cronache individuano nel 1400 la presenza di una cappella che sarà ampliata nel 1514 e arricchita da un ciclo pittorico sulla vita di Gesù. Le carestie e le epidemie del 1600 fanno di questa chiesa un luogo di speranza a tal punto che si rende necessario erigere il vero e proprio Santuario che sarà terminato nel 1716.

Paolo Pittaluga – avvenire.it

Le montagne sono fatte per unire i popoli

ALPINISMO

Erri De Luca – avvenire.it
Frequento le Dolomiti da bipede e da quadrupede. Da bipede passeggio, da quadrupede scalo, aggiungendo le mani all’andatura. Ho messo le mie falangi su molti fianchi di quel calcare pallido alla luna, ruggine al tramonto. Poco meno di un secolo fa si è svolta lassù la più assurda guerra per il possesso di cime. Fu assurda e inutile: tutte le sorti si decidevano comunque in pianura. La disfatta di Caporetto travolse tutte le stentatissime conquiste di montagne. D’estate salgo al monte Lagazuoi e al dirimpettaio Sass di Stria, che sormontano i passi Falzarego e Valparola. La cima del Lagazuoi era tenuta dagli Austriaci, ma a metà parete passa una cengia, uno stretto sentiero orizzontale che l’esercito italiano occupò e tenne. Le cenge sono tipiche delle rocce sedimentarie lavorate dal mare. Si svolse così una guerra tra due piani dello stesso condominio montagna. Gli Italiani cercarono di sloggiare gli inquilini di sopra, trivellando dal basso un lungo cunicolo in salita. Non per sbucare di soppiatto in cima, invece per imbottirlo di esplosivo e far saltare in aria il presidio austriaco. Dall’alto si difesero per tempo scavando una contromina in corrispondenza di quella italiana. Questo accorgimento rendeva molto meno efficace l’esplosione. Ci fu lo stesso, ma gli Austriaci rimasero indisturbati in alto, mentre la montagna scaricava enormi blocchi di roccia a valle. Grandiosa e superflua fu quella mina insieme agli sforzi compiuti lassù dalle due parti nemiche. Oggi la lunga camera di scoppio trivellata in verticale è trasformata in un sentiero attrezzato. Un cavo di ferro corre lungo il cunicolo di roccia che sale per centinaia di metri nel buio. Ogni tanto una finestrella utile alla camera di scoppio rischiara il pozzo e offre vista sul vuoto. Si sale nella galleria a lume di lampada frontale. A me piace andare senza, procedere nel perfetto buio con il fiato che rimbomba nel cunicolo. La galleria finisce con un tratto a spirale. Si esce all’aperto tra vecchie trincee austriache, ben custodite. Era impossibile vincere o anche perdere una guerra là sopra.

Le montagne restano inespugnabili ancora oggi malgrado i maledetti progressi compiuti dall’aviazione militare. La guerra talibana sui monti dell’Afganistan  ha scacciato i Russi e sta rispedendo a casa anche la coalizione della Nato. La camera di scoppio del Lagazuoi è oggi destinata a un altro sforzo inutile, quello dell’alpinista. Ma stavolta l’aggettivo «inutile» ha un valore. L’alpinismo è il bel rischio festivo, affrancato in partenza dalla partita doppia dare/avere. La sua scalata alla bellezza è gratuita. Un navigatore arrivava per primo su un’isola, ci piantava la sua bandiera e l’annetteva al suo Paese. L’alpinista che arriva per primo su una cima vergine, non esercita alcun possesso e la bandiera che lascia tiene compagnia al vento. Angelo Di Bona, leggendaria guida alpina di Cortina del primo 1900, viene convocato dal comando italiano che ha appena occupato la città. Gli viene chiesto di scalare la Tofana di Rozes per scacciare dalla cima il reparto austriaco. Di Bona si rifiuta, lassù ci sono i suoi amici. Viene perciò arrestato.

Lassù ci sono i suoi amici: la guerra che infila casacche diverse alle varie gioventù può governare il fondovalle, non le cime. Lassù non ci sono nemici. I cartografi possono ben tracciare confini lungo le dorsali montuose, stabilire che un versante appartiene a una nazione e un versante a un’altra. L’alpinista che la scala dai due lati dimostra che una montagna unisce e non separa i popoli. Sulla cima calpesta la presuntuosa linea di demarcazione. Sia la guerra che l’alpinismo sono applicazioni opposte dell’ingegnosa mente umana. La fanteria alpina, oggi in gran parte smantellata, contiene la contraddizione tra la fraternità montanara e l’obbedienza alla regola di guerra. È stata per questo un corpo a parte dove i gradi della gerarchia erano meno separati dalla truppa, condividendo le medesime asprezze. Mio padre, napoletano arruolato nella seconda guerra mondiale col grado di sottufficiale degli Alpini, raggiunse la destinazione in montagna. Appena arrivato, gli fu assegnato dal tenente uno strano incarico: vegliare quella notte la mula che stava per partorire. Si sa che Alpini e muli hanno vissuto in simbiosi. Mio padre arrossisce, dice «Signorsì», poi aggiunge: «La ringrazio dell’onore di farmi assistere al miracolo». Il tenente sorride e gli dà il benvenuto. I muli sono incroci sterili. Di tutto quel tempo maledetto della sua gioventù, mio padre ha salvato una sua gratitudine per le montagne. Me l’ha trasmessa in eredità. Lassù i nostri sforzi rimangono felicemente inutili.

Campi scuola in parrocchia: antenne aperte e occasioni da cogliere

Qual è il fine dell’esperienza educativa in montagna?
Incontrare Gesù e
vivere una forte esperienza di Chiesa.
Se questo è vero, allora bisognerà fare in modo che la modalità stessa del "campeggio" (che sia fatto in tenda o in casa non ha importanza) sia pensata in rapporto allo scopo per cui si vive.

Ciò ha molteplici conseguenze:
dai tempi della vita, alla quantità di preghiera;
dal taglio educativo, allo stile della proposta;
dalle cose che vengono organizzate, al tempo libero concesso;
dal tipo di ragazzi presenti, all’esigenza delle domande; ecc.

Ma cos’è importante per l’educatore nel momento stesso in cui vive l’esperienza? Due principi:
"Antenne aperte";
"Catechesi occasionata".

Avere "antenne aperte" significa vigilare per cogliere le occasioni educative che si presentano;

"Catechesi occasionata", invece, significa creare queste occasioni ed utilizzarle come strumenti catechetici, quasi come il "libro di testo" della vacanza.

Applichiamo ora questi due principi a cinque ambiti tipici della vita in montagna.

A) Camminare.
Non è sufficiente "fare una passeggiata" per educare. Devo avere antenne aperte (per far cogliere ai ragazzi il senso della fatica, la bellezza della natura, il valore della conquista di una meta, il parallelismo esistente tra il camminare e la vita, ecc.) e devo vivere una catechesi occasionata (per esempio: avendo parlato nella preghiera del Battesimo, cercherò un itinerario con la possibilità di fermarsi su un torrente per una para-liturgia battesimale; ecc.).
In altri termini è necessario "far parlare le occasioni", altrimenti non toccano che superficialmente i ragazzi e non aiutano a crescere.

B) Servire.
Non basta invitare i ragazzi a farsi il letto, occorre far loro cogliere il senso del servizio e come debba essere vissuto con gioia, per amore. Attraverso questo gesto si potrà recuperare il lavoro nascosto ma sempre attivo e premuroso della mamma a casa, ecc.

C) Preghiera.
In campeggio non è sufficiente che i ragazzi preghino normalmente: vi sono molteplici occasioni che, se ben sfruttate, possono imprimere nel cuore di un giovane, in modo indelebile, il gusto della presenza di Dio.
A questo scopo divengono preziose alcune opportunità, quali, ad esempio, un’adorazione notturna, la celebrazione quotidiana della Messa in mezzo alla natura, ecc. Dovrò perciò pensare a predisporre dei testi appositi, non preconfezionati, che tengano conto del punto di partenza in cui si trovano i ragazzi e dove voglio condurli.
“Alzare molto il tiro” in questo campo produce effetti grandiosi, soprattutto se quanto si chiede è opportunamente sostenuto da un clima spirituale favorevole.

D) Gioco.
In campeggio non basta "giocare" tanto per stare insieme o far passare il tempo. I giochi devono avere un tema, insegnare qualcosa, comunicare un messaggio.
Inoltre avere antenne aperte significherà, in questo ambito, essere attenti a cogliere le dimensioni più vere del carattere dei ragazzi, potendo così progettare opportuni interventi.

E) Fuoco.
II fuoco di bivacco, coi cerchi di gioia e i canti, è elemento tipico delle serate in montagna. Anche questa occasione deve parlare: del fuoco dell’Amore di Dio, dell’amore che deve riscaldare i nostri cuori, ecc.
Una catechesi occasionata non potrà non tener conto del fuoco, per esempio per una liturgia penitenziale, in cui bruciare i propri peccati come "foglie secche" sulla fiamma della Misericordia di Dio.