Attacco hacker in corso nel mondo. Migliaia di server compromessi

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La Francia è il paese più colpito, con Finlandia e Italia, ma i ransomware attivati hanno preso di mira anche le reti di Canada e Stati Uniti. Lo rileva l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale
Lo rende noto la stessa agenzia aggiungendo che l’attacco è in corso in tutto il mondo e riguarda “qualche migliaio di server compromessi” “dai paesi europei come Francia – paese più colpito – Finlandia e Italia, fino al Nord America, in Canada e negli Stati Uniti”.
In Italia – spiega l’ACN – sono decine le realtà che hanno riscontrato l’attività malevola nei loro confronti ma secondo gli analisti sono destinate ad aumentare. Lo sfruttamento della vulnerabilità consente in una fase successiva di portare attacchi ransomware che, come è noto, cifrano i sistemi colpiti rendendoli inutilizzabili fino al pagamento di un riscatto per avere la chiave di decifrazione.

La vulnerabilità sfruttata dagli attaccanti per distribuire il ransomware è già stata corretta nel passato dal produttore, ma non tutti coloro che usano i sistemi attualmente interessati l’hanno risolta. I server presi di mira, se privi delle patch, cioè delle “correzioni” adeguate, possono aprire le porte agli hacker impegnati a sfruttarla in queste ore dopo la forte crescita di attacchi registrata nel weekend. I primi ad accorgersene sono stati i francesi, probabilmente per via dell’ampio numero di infezioni registrato sui sistemi di alcuni provider in Francia. Successivamente l’ondata di attacchi si è sposta su altri paesi tra cui l’Italia.

L’autorità nazionale per la sicurezza informatica ribadisce nella nota “che è prioritario per chiunque chiudere le falle individuate e sviluppare un’adeguata strategia di protezione”. Per i tecnici dell’ACN, infatti, “siamo stati in grado di censire diverse decine di sistemi nazionali verosimilmente compromessi e allertato numerosi soggetti i cui sistemi sono esposti ma non ancora compromessi. Tuttavia, rimangono ancora alcuni sistemi esposti, non compromessi, dei quali non è stato possibile risalire al soggetto proprietario. Questi sono chiamati immediatamente ad aggiornare i loro sistemi”.

La vulnerabilità individuata dalle recenti analisi come CVE-2021-21974 (già sanata dal vendor nel febbraio 2021), riguarda i sistemi esposti su internet che offrono servizi di virtualizzazione basati sul prodotto VMWare ESXi, e ha un impatto elevato, stimato dalla comunità tecnica come “rischio alto/arancione” (70,25/100). E tuttavia non si esclude che anche altre vulnerabilità possono essere sfruttate da attori malevoli.

A questo riguardo, l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale, attraverso lo CSIRT Italia, ha pubblicato nella giornata di ieri uno specifico bollettino sul portale pubblico https://csirt.gov.it, che include anche le procedure per risolvere la vulnerabilità, ai quali i responsabili tecnici dei servizi IT pubblici e privati sono invitati a fare riferimento.

La santità anticonformista di Charles de Foucauld

La santità anticonformista di Charles de Foucauld

Rai News

In Vaticano, Papa Francesco ha canonizzato10 beati. Tra questi Charles de Foucauld. “Con Teresa di Lisieux, Charles de Foucauld è uno dei due fari del 20° secolo”, scriveva il grande teologo Yves Congar. per approfondire la sua figura abbiamo intervistato il teologo italiano Brunetto Salvarani, autore del saggio, uscito da poco per l’editrice Cittadella, “Fino a farsi fratello di tutti. Charles de Foucauld”.

Professor Salvarani, un giorno davvero importante per la Chiesa Cattolica: è il giorno della canonizzazione di Fratel Charles de Foucauld. In estrema sintesi chi era De Foucauld?
Charles-Eugène de Foucauld nasce a Strasburgo, in Alsazia, il 15 settembre 1858, da un’antica famiglia nobiliare il cui storico motto è “Mai ritirarsi!”; morirà in circostanze drammatiche, nel deserto algerino in cui si era spinto (e non ritirato) per seguire quella che aveva finalmente intuito essere la sua definitiva vocazione, il 1° dicembre 1916. Ebbe una vita piuttosto breve, dunque, appena cinquantotto anni: eppure, le definizioni che gli si potrebbero attribuire sono tante, e variegate. Ufficiale di cavalleria ben disposto all’azione, brillante esploratore in terra africana, stimato geografo ed etnologo, meticoloso linguista, e naturalmente uomo dello Spirito, presbitero, monaco e poi eremita in Dar al-Islam. A dispetto di ciò e di un’esistenza quanto mai poliedrica, in realtà, di tutti gli obiettivi che si era dato, egli non ne raggiunse nemmeno uno: avrebbe voluto fondare un ordine religioso, o almeno un istituto di fratelli, ma nonostante ripetuti tentativi e sperimentazioni non ci riuscì. Rifiutò d’altra parte, inoltre, di diventare ciò che di volta in volta gli veniva richiesto dalla famiglia e dalle occasioni che gli si pararono davanti, dapprima studente modello e poi soldato di carriera, scegliendo di rimanere costantemente ai margini, per consegnarsi alla fine al silenzio, all’ascolto e alla preghiera. Pur abitando nel deserto profondo fianco a fianco con i Tuareg, tradizionalmente musulmani sunniti, non determinò in loro alcuna conversione al Vangelo, fino a trovare la morte, assassinato per futili ragioni, quando ancora era nel pieno della sua maturità intellettuale e spirituale. Per di più, infine, non lo si può dire un teologo in senso stretto, né un pensatore originale: quando morì, non aveva pubblicato nessuno dei suoi scritti spirituali né i suoi lavori di linguistica. Del resto, fu lui stesso a sceglierlo, sostenendo che le opere di misericordia da realizzarsi da parte dei futuri Piccoli Fratelli di Gesù si dovevano limitare a quelle che Gesù compieva a Nazaret: accogliere gli ospiti e dare loro l’elemosina. La sua è una biografia sicuramente inquieta, quella di un uomo ansioso che non ha mai smesso di cercare: il sale della vita, se stesso, Dio, e alla fine soprattutto, e sopra ogni altra cosa, Gesù.

La sua vita avventurosa si è sviluppata fino a diventare “piccolo fratello universale”. Perché “Piccolo fratello universale”? Un “carisma”, per usare una terminologia paolina, molto particolare… ed impegnativo…
Sin dall’inizio del soggiorno di de Foucauld in Algeria a Béni Abbès, nel 1901, emerge chiaramente la sua aspirazione a produrre germi di fraternità universale. Rivelativa, fra le altre, è una lettera per la cugina Marie, del 7 gennaio 1902: “Mi avete chiesto una descrizione della cappella… La cappella, dedicata al Sacro Cuore di Gesù, si chiama cappella della fraternità del Sacro Cuore di Gesù; la mia piccola dimora si chiama fraternità del Sacro Cuore di Gesù. Voglio abituare tutti gli abitanti, cristiani, musulmani, ebrei e idolatri, a considerarmi come loro fratello, il fratello universale… A poco a poco cominciano a chiamare la casa la fraternità, e ciò mi fa piacere…”. Una fraternità, per l’appunto, assai movimentata, stando alle sue confidenze all’abate di Notre-Dame des Neiges: “Tutti i giorni ospiti, a cena, a dormire, a colazione; non c’è mai stato vuoto; ce ne sono stati undici, una notte, senza contare una vecchia inferma che ormai si è stabilita qui: ho dalle sessanta alle cento visite al giorno: questa fraternità è un alveare”. Due anni dopo, nel luglio 1904, ancora a Marie, scriverà: “Gli indigeni ci accolgono bene. Quando sapranno distinguere i soldati dai preti e vedere in noi dei servi di Dio, ministri di pace e di carità, fratelli universali? Non lo so. Se io faccio il mio dovere, Gesù effonderà grazie abbondanti, ed essi comprenderanno”. Unico prete in un raggio di quattrocento chilometri di deserto sahariano, egli parla ormai esplicitamente della fraternità come della sua casa, un luogo aperto a chiunque nel quale tutti, cristiani, musulmani, ebrei, ma anche quelli chiama idolatri, si possano sentire accolti e mai giudicati. Un concetto di fraternità che risulta ancor più significativo se contestualizzato nella strategia missionaria elaborata dal papa dell’epoca, Leone XIII, basata sulla tesi che l’attività dei missionari cattolici deve nel contempo risultare evangelizzatrice e civilizzatrice, religiosa ma anche politico-sociale. E che troverà il suo compimento ideale quando Charles si porterà nell’Hoggar, nell’Algeria meridionale (duemila chilometri a sud di Algeri), a condividere la vita con i Tuareg a Tamanrasset. Che sarà la sua ultima dimora.

Sappiamo che il Papa Francesco nella sua enciclica Fratelli tutti cita, come pilastri “architettonici” della fraternità, Francesco d’Assisi e Charles de Foucauld. Da dove viene questo amore di Bergoglio per Fratel Charles?
In effetti l’attenzione per lui, da parte del papa, viene da lontano. Sappiamo, ad esempio, che nel marzo 2006 l’allora cardinale di Buenos Aires, parlando ai giovani, li esorta al sogno che può consentirci di “camminare alla presenza amorosa del Padre, abbandonandosi a Lui con infinita fiducia, come hanno saputo fare santa Teresina o il fratello Charles de Foucauld”. Il discorso si conclude fra l’altro con un passaggio sulla fraternità e l’amicizia sociale, assi portanti dell’enciclica Fratelli tutti. Eletto nel 2013, il 2 marzo 2015 Francesco riceve, per la visita ad limina, i vescovi della Conferenza regionale del Nord Africa. Qui egli presenta la vicenda di quella terra come “segnata da numerose figure di santità, da Cipriano e Agostino, patrimonio spirituale di tutta la Chiesa, al beato Charles de Foucauld, di cui il prossimo anno celebreremo il centenario della morte”. Due mesi più tardi, l’uscita dell’enciclica Laudato sì conferma questa attenzione privilegiata. Al n.125 si legge: “La spiritualità cristiana, insieme con lo stupore contemplativo per le creature che troviamo in san Francesco d’Assisi, ha sviluppato anche una ricca e sana comprensione del lavoro, come possiamo riscontrare, per esempio, nella vita del beato Charles de Foucauld e dei suoi discepoli”. Passata l’estate, il 3 ottobre, in preparazione all’atteso Sinodo sulla famiglia, in Piazza San Pietro si tiene una veglia di preghiera. Nell’omelia papale la figura del fratello universale rifulge largamente: “Charles de Foucauld, forse come pochi altri, ha intuito la portata della spiritualità che emana da Nazaret. Attraverso la vicinanza fraterna e solidale ai più poveri e abbandonati, egli comprese che alla fine sono proprio loro a evangelizzare noi, aiutandoci a crescere in umanità”. L’anno seguente, nella memoria liturgica del beato Charles, in coincidenza con i cent’anni dalla morte, al termine della messa a Santa Marta del 1° dicembre 2016, egli sceglie di indicare la sua testimonianza concreta per sollecitare a “camminare sulle sue tracce di povertà, contemplazione e servizio ai poveri”. De Foucauld, sostiene Francesco, è “un uomo che ha vinto tante resistenze e ha dato una testimonianza che ha fatto bene alla Chiesa”. Successivamente, un nuovo accenno lo troviamo nell’Esortazione Gaudete et exsultate (19 marzo 2018). Al n.155, in una rassegna sulle caratteristiche della santità nel mondo attuale, soffermandosi sul bisogno di una preghiera costante, leggiamo: “Se veramente riconosciamo che Dio esiste, non possiamo fare a meno di adorarlo, a volte in un silenzio colmo di ammirazione, o di cantare a Lui con lode festosa. Così esprimiamo ciò che viveva il beato Charles de Foucauld quando disse: «Appena credetti che c’era un Dio, compresi che non potevo fare altrimenti che vivere solo per Lui»”. Ancora. Il 30 e 31 marzo 2019 Francesco si porta in pellegrinaggio apostolico in Marocco: un banco di prova dopo la firma, il mese prima, del Documento di Abu Dhabi. Nella cattedrale di Rabat, il suo discorso è tutto dedicato al dialogo interreligioso: “Il cristiano, in queste terre, impara a essere sacramento vivo del dialogo che Dio vuole intavolare con ciascun uomo e donna, in qualunque condizione viva. In questo spirito, troviamo dei fratelli maggiori che ci mostrano la via, perché con la loro vita hanno testimoniato che questo è possibile, una misura alta che ci sfida e ci stimola. …come non menzionare il Beato Charles de Foucault che, profondamente segnato dalla vita umile e nascosta di Gesù a Nazaret, che adorava in silenzio, ha voluto essere un fratello universale?”. Non stupisce, alla luce di tutti questi riferimenti, l’ennesimo rilancio del paradigma de Foucauld che campeggia nelle conclusioni della Fratelli tutti. Che conferma ulteriormente la centralità del fratello universale nella sua strategia ecclesiale.

De Foucauĺd viene richiamato spesso nel dialogo tra cristiani e musulmani. Al riguardo, per un attimo approfondiamo il suo rapporto con Luis Massignon. Massignon, il grande islamista francese, che segnerà in modo decisivo il cambiamento di approccio della Chiesa Cattolica nei confronti dell’Islam. Perché è così importante questo rapporto tra Massignon e Foucauld?
Nel dialogo cristiano-islamico è sempre possibile custodire una spiritualità dell’ospitalità. L’aveva colto a fondo uno dei primi pionieri di tale dialogo, appunto Louis Massignon, il cui slogan potrebbe essere: “per capire l’altro devi diventare suo ospite”. In realtà, l’intera avventura umana e spirituale di Massignon porta iscritto il paradigma dell’ospitalità: egli sperimenta, infatti, l’ospitalità sacra riservatagli dagli amici musulmani (per i quali l’ospitalità è diyafa, dovere sacro), ed è questo che gli permette di interpretare in maniera chiara la lezione di Abramo e dei suoi tre ospiti nel racconto della Genesi (18, 1-16). Alla scuola della mitologia biblica e della vita accolta, Massignon apprenderà che l’ospitalità non è solo un semplice gesto di ambito etico, ma rappresenta, molto di più, la possibilità di capire la vita dell’altro quando ci si lascia ospitare al suo interno. Siamo a conoscenza di un suo rapporto fraterno con de Foucauld. Massignon incontra frère Charles una prima volta nel 1909, restando poi in contatto epistolare con lui, prima per ragioni di studio e poi con l’intenzione di divenirne discepolo, fino alla sua morte. Di conseguenza, egli farà di tutto per mantenere viva l’Unione voluta dal suo fratello maggiore: pubblicherà il Direttorio e avvierà l’Associazione Charles de Foucauld, per la quale ottiene l’autorizzazione dal cardinale Léon-Adolphe Amette, arcivescovo di Parigi dal 1908 al 1920. Il suo ruolo nel custodire e trasmettere la memoria di quello che chiamava anche il suo amico del deserto è dunque cruciale. L’ultima lettera inviata da frère Charles a Massignon è datata 1° dicembre 1916: quella stessa sera egli sarà ucciso, nel corso di un assalto al suo fortino, da una banda isolata di Tuareg alleati ai Senussiti libici. Era un venerdì, il primo venerdì del mese, e la sua intenzione di preghiera per quel dicembre era la conversione dei musulmani. E’una lettera commovente e densa di emozioni…

Quello di Fratel Carlo, lì nel deserto algerino, a Tamanrasset, fu un apostolato della bontà. Ed è quello che sta attualizzando, tra mille conflitti, Papa Francesco. Si può dire, allora, che il papato di Bergoglio è nel segno di Charles de Foucauld: nel senso che la vera essenza del papato è quello di essere un “fratello universale”?
Certo, è così! Lo si può cogliere bene, al di là dei tanti gesti, viaggi e discorsi di papa Bergoglio, utilizzando con una preziosa bussola, la sua enciclica Fratelli tutti, cuore pulsante di un progetto che – mettendo a fuoco il complesso reticolo dei rapporti fra cristiani e musulmani – è in grado di fungere da cartina di tornasole di una Chiesa autenticamente, e coraggiosamente, in uscita. In entrambi i casi, per de Foucauld e Bergoglio, il solo metro di paragone, il Modello Unico (come lo chiamava il primo), è, e non può essere altrimenti, Gesù di Nazaret. Da qui, lo stretto rapporto che papa Francesco ha scelto di instaurare con l’eremita francese, eleggendolo a punto di riferimento ideale e stella polare del suo progetto di relazioni fraterne con il mondo musulmano. Un progetto, ovviamente, del tutto antitetico al ventilato scontro di civiltà che ha furoreggiato nella cultura occidentale all’indomani dei tragici attentati dell’11 settembre 2001. In tale ottica, Bergoglio sta tessendo una sistematica contro-narrazione rispetto alla ricorrente narrativa della paura. È a questo livello che si comprende il significato storico del suo impegno contro i muri e ogni forma di guerra di religione, nell’intento di svuotare dall’interno la macchina narrativa dei millenarismi settari che ombreggia una presunta apocalisse incombente e lo scontro finale. Facendoci comprendere che, come aveva ben inteso de Foucauld, in definitiva e nonostante le sirene contrarie, ospiti della terra nostra casa comune, siamo fratelli (e sorelle) tutti.

Ultima domanda: ai non credenti, o agli indifferenti, cosa ha dire una figura come di Charles de Foucauld?
Beh, un dato di fatto è che il nome di de Foucauld è divenuto, nel corso dei decenni, una bussola sicura – direi anzi imprescindibile – per orientarsi in molteplici ambiti: in particolare, per chi accetti di lasciarsi affascinare da una spiritualità del deserto accessibile sia ai credenti sia ai (cosiddetti) non credenti. “Nella sua immagine – scrive Franca Giansoldati – forse possono riconoscersi tutti i falliti della storia”. Ma già il suo primo biografo, René Bazin, aveva colto tale aspetto, presentandolo così: “E’ stato il monaco senza monastero, il maestro senza discepoli, il penitente che sosteneva, nella solitudine, la speranza di un’età che non doveva vedere…”. E soprattutto ha ragione il padre Bernard Ardura, suo postulatore nella causa di santificazione: se tanti amano frère Charles è “perché lo sentono vicino… Quelli che l’hanno scoperto lo sentono molto vicino perché incarna in qualche modo l’ideale della fede cristiana”. E “coloro che non sono particolarmente credenti vedono in quest’uomo certamente una grandissima umanità”. Frère Charles, infatti, fu un uomo che non sopportò le mezze misure, le mediazioni, gli equilibrismi, e tanto meno i compromessi, transitando spesso da un estremo all’altro, dagli abissi della dissipazione alla gloria mondana fino alla perfezione evangelica. Ecco perché, imbattendosi in lui e nella sua storia da moderno padre del deserto, è impossibile rimanere indifferenti: o ci si innamora ingegnandosi a conoscere tutto di lui, o ci si rifiuta di farsi coinvolgere, di fronte a quello che potrebbe anche apparirci un idealista un po’ folle, incapace di fare i conti con la dura realtà. Tutto e subito, come quando Charles, il cristianesimo, lo ri-scopre (letteralmente, nel senso che riesce a togliere il velo che ne faceva la depositaria religione di famiglia, alla quale era costretto ad adeguarsi). Tanto da ammettere, nel 1886, già ventottenne: “Appena ho creduto che Dio esiste ho capito che non avrei potuto fare altro che vivere solo per lui”.

La sfida non è una vita più lunga ma una salute migliore per tutti

L’importanza di politiche sanitarie innovative a beneficio della popolazione mondiale

La sfida non è una vita più lunga ma una salute migliore per tutti

Nel mondo si vive fino a 73 anni, ma tra paesi ricchi e paesi poveri resta un divario di 45 anni Oltre la metà dell’esistenza è però trascorsa in condizioni mediocri. Un piano per intervenire

Nel 1960 un essere umano aveva un’aspettativa media di vita di 54 anni. Con una forbice enorme di differenze tra chi nasceva in contesti segnati da miseria, infezioni e alto tasso di mortalità infantile, e chi godeva di standard “occidentali”. Oggi la vita media di un abitante del nostro pianeta è di 73 anni, 10 in più se quell’abitante nasce in Italia. La forbice si è ridotta ma resta impressionante constatare che, tra la più bassa e alta aspettativa di vita, esiste tuttora un divario di 45 anni. E se risulta innegabile il cammino compiuto per ridurre le morti pediatriche, così come la denutrizione o le ma-lattie infettive – basti pensare alla risposta record della sanità mondiale nel creare vaccini efficaci contro la pandemia da Sars-CoV-2 – fa riflettere invece la mancata diminuzione, da 50 anni a questa parte, della percentuale di vite trascorse in cattiva salute. Lo rivela un’analisi sviluppata dal McKinsey Health Institute (Mhi), organismo della multinazionale di consulenza strategica statunitense, secondo cui, in media, le persone trascorrono circa il 50% della vita in condizioni di salute ‘mediocri’ (cioè «soffrendo di una o più patologie acute o croniche, che hanno un impatto sulla qualità o la durata dell’esistenza», ma senza una rilevante compromissione delle abitudini quotidiane), e il 12% in ‘cattive’ condizioni. In quest’ultimo caso gli interessati accusano una o più problematiche acute o croniche che richiedono un’assistenza costante o almeno frequente. Sono situazioni che hanno un impatto significativo sulle attività quotidiane, sulla qualità e l’aspettativa di vita. M a proprio la risposta messa in campo contro il Covid-19, rileva il Mhi, dimostra che «quando le risorse e la motivazione si fondono, sono possibili scoperte scientifiche e cambiamenti comportamentali su larga scala in periodi di tempo molto brevi».

Una delle trasformazioni epocali è alle porte perché il Mhi crede che nel prossimo decennio «l’umanità potrebbe guadagnare fino a 45 miliardi di anni in più di vita di qualità superiore», 6 anni in media a persona, con punte di gran lunga maggiori in alcuni Paesi e popolazioni. Non proprio un dato trascurabile in un periodo in cui l’Eurostat, a prescindere dalla qualità dei nostri giorni, calcola in calo la speranza di vita nel 2021 (secondo anno di pandemia), in quasi metà degli Stati dell’Unione Europea, stimando i risultati peggiori in Slovacchia e Bulgaria (-2,2 anni rispetto al 2020), seguite da Lettonia (-2,1) ed Estonia (-2). Mentre l’Italia registra una risalita di 0,6 anni, dopo la flessione che l’anno prima aveva visto scendere l’aspettativa di vita dagli 83,6 anni del 2019 agli 82,3 del 2020. M a torniamo al rapporto Mhi. L’obiettivo del “guadagno”, a breve, in media, di 6 anni di esistenza di migliore qualità, è ambizioso ma raggiungibile per McKinsey, le cui stime assicurano che il 45% del volume globale delle ma-lattie potrebbe essere affrontato applicando trattamenti già consolidati nella pratica clinica delle nazioni più avanzate. Insomma, tra le sei trasformazioni sostanziali suggerite da Mhi, c’è anche quella di applicare strategie e interventi collaudati in modo equo in tutti i Paesi, «riducendo così il carico globale delle malattie (cioè l’impatto negativo che esse hanno su una popo- lazione in termini di cattivo stato di salute, rischio di decesso, costo delle cure o altri indici, ndr) di circa il 40%». Un esempio concreto? «L’86% del carico di malattia per la diarrea e le infezioni intestinali potrebbe essere ridotto entro il 2040». Quella che McKinsey propone è una mobilitazione pubblica, privata e sociale che, in una concezione «moderna » di salute, abbracci «l’aspetto fisico, mentale, sociale e spirituale». E le altre cinque trasformazioni? Per la società americana occorrono maggiori investimenti sulla «prevenzione e sulla promozione di uno stato di salute ottimale», che includono anche aree come educazione, nutrizione, ricerca, prodotti di consumo, servizi finanziari e tecnologia. La spesa sanitaria è infatti da considerare «un investimento, non un costo», e la prevenzione, nei Paesi Ocse, vale solo il 2,8% del budget sanitario. Terzo: migliorare «la misurazione della salute», perché oggi ci sono ancora «enormi lacune nei dati comparativi» e nella «trasparenza». Quarto punto: bisogna innovare di più, più velocemente e ovunque: modelli di business, politiche governative, farmaci, standard clinici, applicazioni mobili, prodotti medici, fino ai processi e alle nuove applicazioni tecnologiche, perché «tecnologia, dati e analisi» fanno progredire la salute. Quinto punto: per Mhi, le istituzioni al di fuori del tradizionale settore sanitario dovrebbero perseguire «opportunità di business legate alla salute, anche abilitando e responsabilizzando meglio i propri dipendenti, definendo e onorando gli impegni ambientali, sociali e di governance relativi alla salute». D’altra parte i datori di lavoro influiscono sulla salute dei dipendenti e la salute dei dipendenti influisce sulle loro prestazioni. Anche dal punto di vista economico si tratta di un tema di enorme rilevanza, visto che la cattiva salute dei dipendenti «costa circa 3,5 trilioni di dollari all’anno». Nel report McKinsey viene pure calcolato che le aziende sanitarie rappresentano il 10-15% dello S& P 500 (il più importante indice azionario nordamericano), e un altro 40-45% è costituito da imprese che offrono prodotti o servizi legati alla salute. U ltimo punto, ma non in ordine gerarchico: è necessario responsabilizzare gli individui nella gestione della propria salute. I comportamenti individuali «sono i più grandi motori della salute» già in molti Paesi. Stiamo assistendo, spiega il report, a un’esplosione di soluzioni digitali in questo ambito. Un esempio significativo arriva dalla Cina, dove 200 milioni di consumatori hanno utilizzato la piattaforma mobile Good Doctor di Ping An per ricevere consulti, e gestire appuntamenti. Governi, fornitori e innovatori, conclude Mhi, hanno l’opportunità di mettere in sinergia dati e tecnologie per aiutare le persone a migliorare il controllo della salute. Da subito. Perché prevenire resta la migliore cura.

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Un’analisi del McKinsey Health Institute indica la necessità e la possibilità di investimenti diffusi per aumentare di 6 anni in media il tempo vissuto in buona salute Le misure: più prevenzione, trasparenza dei dati sanitari, innovazione, responsabilità personale, attenzione nei luoghi di lavoro