Cento anni fa, il 29 settembre 1912, nasceva Michelangelo Antonioni

Tutto in quell’inizio folgorante

di Emilio Ranzato

Un titolo che reca dentro di sé un sottile ossimoro: Cronaca di un amore. Come si può fare una cronaca, ossia un racconto oggettivo, di qualcosa di soggettivo come i sentimenti, inconoscibili a volte persino a chi li prova? Già qui si ravvisa, all’interno di questa, che è probabilmente la più folgorante opera prima di tutto il cinema italiano, l’intento provocatorio del suo autore, Michelangelo Antonioni. Quello di creare una rottura, precoce, per molti versi sconcertante, con il neorealismo, che in quel 1950 aveva sì già perso la sua spinta più genuina, ma aveva ancora lunghi strascichi con cui ammantare gli anni a venire, del cinema italiano a non solo.
Più passa il tempo, e più appare evidente come l’Antonioni che non invecchia sia proprio il primo, quello che va dal grande esordio a Il grido (1957), il suo capolavoro, forse l’unico assoluto, passando per il frammentato ma già seminale I vinti (1953) e per il sottovalutato Le amiche (1955), film che dice cose che appaiono scomode per la loro schiettezza ancora oggi, figuriamoci nell’Italia di quegli anni, preoccupata di spargere sulle proprie ferite socchiuse il balsamo illusorio del conformismo. E sorvolando, forse, soltanto sul meno risolto e involontariamente più convenzionale La signora senza camelie (1953).
Con Il grido si arriva dunque alla massima tensione della dialettica al centro dell’ispirazione del regista. Se ci fosse anche una cosa soltanto che rende grande Antonioni, sarebbe la perfetta fusione fra contenuto e linguaggio. Se il neorealismo aveva spezzato le geometrie del montaggio narrativo hollywoodiano, elevando ogni inquadratura da semplice giuntura di un racconto ad autonoma frazione della realtà, Antonioni ricuce in gran parte quelle geometrie, ma per metterle a disposizione dell’interiorità dei personaggi. Ecco allora i piani sequenza, le inquadrature piene di punti di fuga, a indicare come il paesaggio circostante sia sempre sul punto di diventare un’espansione dei sentimenti.
Da subito dopo, comincerà invece la maniera. La caricatura di sé, che è peraltro prerogativa dei grandi artisti. E che per un autore è di solito anche l’inizio della consacrazione, da parte del grande pubblico e della critica più tardiva nonché più cospicua. Perché con la maniera si acuiscono ovviamente i tratti distintivi di uno stile e di una poetica.
Sarà questa versione macroscopica del cinema di Antonioni a influenzare generazioni di cineasti in tutto il mondo. E allora gli schermi, europei e orientali in particolare, per decenni si riempiranno di vuoti, di gesti inutili, di noia ostentata. Nasceva d’altronde proprio in quegli anni la consapevolezza di essere autori, con tutto ciò che di pericoloso può comportare. E Antonioni è stato fra i primi a cadere in questa trappola.

(©L’Osservatore Romano 29 settembre 2012)