Mercato alimentare. L’enorme spreco della frutta: gettata solo perché «brutta»

Il report dell’associazione ambientalista Terra! spiega come si butti via in modo assurdo tanta parte delle produzione. Un insulto ai poveri
Frutta in un supermercato

Frutta in un supermercato – Ansa

Avvenire

Bello non sempre è buono. Il comparto ortofrutticolo italiano attraversa da anni una crisi causata da normative inadeguate, pressioni insostenibili della grande distribuzione, cambiamenti climatici. Tutti vogliono frutti perfetti, uguali, standardizzati. Il resto, anche se buono e sano, spesso non viene nemmeno colto. E le aziende chiudono. Succede per le pere in Emilia Romagna, le arance in Sicilia, i kiwi nel Lazio. Resistono le mele in Trentino- Alto Adige.

Un quadro allarmante, analizzato dal rapporto – dell’associazione ambientalista Terra! – Siamo alla frutta. Perché un cibo bello non è sempre buono per l’ambiente e l’agricoltura. «La Gdo, l’Ue e la miopia delle istituzioni nazionali» stanno firmando «la condanna a morte dell’intero comparto agricolo, già alle prese col cambiamento climatico, causando la perdita di migliaia di ettari di terre coltivate», spiegano i ricercatori Fabio Ciconte, direttore dei Terra!, e Stefano Liberti.

Proprio il 2021 è stato dichiarato dall’Onu “Anno internazionale della frutta e della verdura”, per incrementarne il salutare consumo.

Il valore della produzione ortofrutticola in Italia nell’ultimo anno è stato di 11,4 miliardi di euro, il 23,2% del totale dell’intera ricchezza generata dal settore primario. Quasi la metà grazie alla frutta.

Nei supermercati la selezione è implacabile, come stabilisce il Regolamento Ue 543/2011, modificato dal 408/2019. Fino al 2008 stabiliva addirittura la curvatura massima di cetrioli e carote. L’eccellenza è la categoria “Extra”, segue la “I”. Ma già la “II”, comunque buona e sana, va svenduta nell’Est Europa o alle industrie di trasformazione. Prezzi stracciati che spingono molti produttori a lasciar marcire tutto nel campo. O a chiudere.

La Fao ricorda che il 33% della produzione mondiale non viene consumata. Nel 2019 erano 690 milioni le persone che soffrivano la fame. Come uscirne?


Pere, kiwi, mele e arance che non rispettano le regole sul “calibro” previste dall’Ue o i canoni estetici fissati dai supermercati restano a marcire nei campi


La Ue sta rivedendo le norme sugli ortofrutticoli, «un’opportunità – commenta Terra! – per mettere fine all’eccesso di regola- mentazione». Anche l’Italia «può incentivare la commercializzazione di prodotti “fuori calibro”». E la Gdo è tempo che acquisti anche «frutta con lievi imperfezioni, senza abbattere i prezzi, tamponando la crisi del settore e facendo un’operazione culturale». Terra! analizza quattro prodotti: pere, arance, kiwi e mele.

La pericoltura, vanto dell’Emilia-Romagna, ha – letteralmente – perso terreno: dai 42 mila ettari del 2000 a 30 mila. Inverni caldi, gelate improvvise, diffusione della cimice asiatica, rigidi capitolati sul “calibro”.

Ma anche scarsa capacità aggregativa: nella terra delle coop, il consorzio Opera ha raggruppato solo il 25% delle imprese. Crisi anche per le arance in Sicilia: dai 207 mila ettari del 2000 agli 82 mila del 2019, da 3 milioni di tonnellate a 2,6. A Siracusa e Catania imperversa il virus tristeza. L’annata è stata abbondante, ma la siccità ha ridotto le dimensioni.

E i supermercati comprano in Spagna: secondo Ismea importazioni cresciute del 5%, esportazioni del 2,7%. Poi la pandemia, con la chiusura di alberghi, mense e ristoranti, ha costretto i produttori a svendere all’industria di trasformazione. Poi c’è il kiwi. L’Italia è il terzo produttore mondiale, dopo Cina e Nuova Zelanda. Dal 2014 la produzione italiana è calata di quasi 100 mila tonnellate. La morìa di piante sarebbe favorita – secondo il Crea – dai cambiamenti climatici.

E le mele? Una filiera che resiste. L’Italia, 2 milioni di tonnellate su 53mila ettari, è seconda in Europa solo alla Polonia. In Trentino-Alto Adige c’è il 50% delle coltivazioni e il 68% della produzione. Esportiamo per 800mila euro, importiamo per 50 milioni. Grande la capacità aggregativa: il consorzio Melinda, 16 cooperative, gestisce tutto. E conserva i prodotti nei frigoriferi naturali scavati nella roccia dolomitica. E se grandina? Hanno venduto alla Gdo inventando il marchio Melasì, la mela bella anche se ha qualche neo. Come le star del cinema.

 

Vicinanza e preghiera alle famiglie delle vittime dopo il tragico incidente del 9 marzo al mercato di Guastalla

La partecipazione del Vescovo dopo l’esplosione di Guastalla
Vicinanza e preghiera alle famiglie delle vitime dopo il tragico incidente del 9 marzo al mercato
La partecipazione del Vescovo dopo l’esplosione di Guastalla
Il Vescovo, appresa la notizia della tragica esplosione, vuole esprimere alle famiglie dei defunti e ai feriti la sua vicinanza e la sua preghiera, implorando dal cielo il conforto e l’aiuto di Dio su tutti coloro che sono stati colpiti.

Per riscoprire i valori religiosi alla base dell’economia di mercato

di JONATHAN SACKS
Rabbino capo delle Congregazioni ebraiche unite del Commonwealth e membro della Camera dei Lord

I leader politici europei si incontrano per salvare l’euro e l’Unione europea. Lo stesso dovrebbero fare i leader religiosi. È per questo che vengo a Roma: per discutere delle nostre preoccupazioni comuni durante l’udienza con il Papa e nel corso di colloqui presso l’Università Gregoriana.
L’idea potrebbe apparire assurda. Cosa ha a che fare la religione con l’economia o la spiritualità con le istituzioni finanziarie? La risposta è che l’economia di mercato ha radici religiose. Essa è infatti emersa in un’Europa permeata di valori ebraico-cristiani.
Come ha evidenziato l’economista di Harvard, David Landes, fino al XV secolo, la Cina era molto progredita in una vasta gamma di tecnologie rispetto all’Occidente. Tuttavia, la Cina non ha creato un’economia di mercato, non ha visto la nascita della scienza moderna né la rivoluzione industriale. Come afferma Landes, essa non possedeva l’insieme di valori che l’ebraismo e il cristianesimo hanno dato all’Europa.
L’economia di mercato è profondamente coerente con i valori esposti nella Bibbia ebraica. La prosperità materiale è una benedizione divina. La povertà schiaccia lo spirito e il corpo, e alleviarla è un compito sacro. Il lavoro è una nobile vocazione. “Vivrai – recita il Salmo – del lavoro delle tue mani, sarai felice e godrai di ogni bene”.
La competizione alimenta il fuoco dell’inventiva: “La rivalità fra gli scribi aumenta la sapienza”. Dio ci invita – dicevano i rabbini – a essere suoi collaboratori nell’opera della creazione. I diritti di proprietà privata sono fondamentali per la libertà. Quando il ruolo di guida di Mosè viene messo in discussione, egli afferma: “Io non ho preso da costoro neppure un asino”. Elia sfida re Acab per la confisca della vigna di Nabot. Oltre a ciò, afferma Landes, la Bibbia introduce il concetto del tempo lineare, rifiutando l’idea che il tempo sia un ciclo in cui, in definitiva, nulla cambia.
I primi strumenti finanziari del capitalismo moderno furono sviluppati nel XIV secolo dalle banche nelle città cristiane di Firenze, Pisa, Genova e Venezia. Max Weber ha tracciato i collegamenti fra l’etica protestante e lo spirito del capitalismo moderno. Michael Novak ha fatto la stessa cosa per il cattolicesimo. Gli ebrei, pur essendo solo lo 0,2 per cento della popolazione mondiale, sono stati insigniti di più del 30 per cento dei premi Nobel per l’economia. Quando ho chiesto all’economista dello sviluppo Jeffrey Sachs che cosa motivava il suo lavoro, ha risposto senza esitare, tikkun olam, l’imperativo ebraico di “risanare un mondo disgregato”. La nascita dell’economia moderna è inseparabile dalle sue radici ebraico-cristiane.
Tuttavia, non si tratta di un equilibrio stabile. Il mercato mina i valori stessi che gli hanno dato origine. La cultura consumistica è profondamente antitetica alla dignità umana. Accende il desiderio, mina la felicità, indebolisce la capacità di rinviare la soddisfazione dei propri istinti e ci rende ciechi di fronte alla distinzione, di vitale importanza, fra il prezzo delle cose e il loro valore.
Gli strumenti finanziari al centro della crisi attuale, mutui subprime e cartolarizzazione del rischio, sono così complessi che i governi, le autorità normative e, a volte, persino i banchieri stessi non sono riusciti a comprenderli nella loro estrema vulnerabilità. Quanti hanno incoraggiato le persone ad accendere mutui che poi non sono in grado di pagare, si sono resi colpevoli di ciò che la Bibbia definisce mettere “inciampo davanti al cieco”.
La creazione di un debito personale e collettivo in America e in Europa dovrebbe aver inviato segnali di allarme a chiunque abbia familiarità con le istituzioni bibliche degli anni sabbatici e giubilari, indetti proprio a causa del pericolo che le persone venissero intrappolate dal debito.
Questi sono sintomi di un fallimento più ampio: considerare il mercato come un fine e non come un mezzo. La Bibbia offre un’immagine vivida di cosa accade quando le persone smettono di vedere l’oro come mezzo di scambio e cominciano a considerarlo come oggetto di culto. Chiama questo il vitello d’oro. Il suo antidoto è il sabato: un giorno su sette in cui né lavorare né dare lavoro, né vendere né comprare. È un tempo dedicato a cose che hanno un valore, non un prezzo: famiglia, comunità e rendimento di grazie a Dio per ciò che abbiamo, invece di preoccuparci di quel che ci manca. Non è una coincidenza che in Gran Bretagna, la domenica e i mercati finanziari siano stati deregolati più o meno nello stesso momento.
Stabilizzare l’euro è una cosa, guarire la cultura che lo circonda è un’altra. Un mondo in cui i valori materiali sono tutto e i valori spirituali sono nulla, non genera né uno Stato stabile né una buona società. È giunto il momento di riscoprire l’etica ebraico-cristiana della dignità umana a immagine di Dio. L’umanità non è stata creata per servire i mercati. I mercati sono stati creati per servire l’umanità.

(©L’Osservatore Romano 9-10 dicembre 2011)