La meditazione del Venerdì Santo di don Tonino Bello

 L’estrema offesa QUO-087

Don Tonino Bello rifletteva così:
“Quando io sento dire che la croce, manifestazione suprema dell’ amore di Dio, è una crudeltà che ha inventato il Signore… quando sento dire che non deve il Signore far soffrire coloro che per amore ha creato… quando sento dire qualche volta che il Signore è duro con noi… io mi sento male, perché non è così. Il Calvario è lo scrigno nel quale si concentra tutto l’amore di Dio.
La croce è la manifestazione, è l’epifania più alta dell’ amore di Dio per noi. Ha mandato Suo Figlio sulla croce perché ci togliesse tutti i nostri peccati, ci redimesse, ci rendesse puri.
Anche noi, sulla nostra croce rendiamo più pura l’umanità e più buono il mondo. Ecco perché noi dovremmo prendere coscienza dei valori di cui siamo portatori. La mulattiera del Calvario, cioè la strada che porta da Gerusalemme al Calvario è lunga, però finiremo di percorrerla. Non durerà per sempre. E sperimenteremo, come Cristo, l’agonia del patibolo, ma «per tre ore», non per molto. Perchè poi c’è la Risurrezione.”

Qualcosa della Bibbia, che spesso avevamo trascurato

Ai credenti abituali la parola di Dio spesso non causa più un sano scandalo, un vigoroso sussulto di fronte alla novità di una comunicazione che Dio fa di sé stesso attraverso le categorie umane del vivere, del morire, dell’arrabbiarsi, del rappacificarsi, del chiedere, del pretendere… Poi arriva un umorista inglese e ci svela qualcosa della Bibbia, che spesso avevamo trascurato. Verso la conclusione del suo ritratto autobiografico mediante l’espediente di parlare di

Padre Joe (Mondadori), il religioso che lo ha accompagnato tutta la vita, Tony Hendra parla con vivacità e brillantezza di cosa è diventato per lui il Salterio: «Quando ero bambino, i Salmi mi erano sempre sembrati solo lunghe preghiere che qualche volta assurgevano a grande poesia, ma che, perlopiù, andavano sopportate; per un uomo di mezz’età, invece, gli umori e le sensazioni dei salmisti prendevano vita». Sentite come: «Una delle voci suonava parecchio simile a quella di un newyorkese moderno, che potevo essere io o gente che conoscevo: il genere maniacodepressivo che qualche volta si sentiva su, più sovente giù, certe volte rassegnato, certe volte arrabbiato, che si sfogava contro i nemici subdoli e gli amici senza scrupoli, sempre a lagnarsi con il Signore della schifosa mano di carte che gli era stata servita».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

La fede è rischio, prova, confronto con il dubbio, esperienza di ricerca

La fede – lo abbiamo già visto – non è una certezza granitica, come mettere i soldi in banca in un conto corrente sigillato. Essa è rischio, prova, confronto con il dubbio, esperienza di ricerca. Anche Giobbe, l’innocente sofferente, ha avuto i suoi momenti di grande instabilità di fede, ma ha sempre mantenuto aperta e viva la relazione con il suo Creatore. Henry Bauchau, scrittore belga di lingua francese, ci dice qualcosa del genere nel suo romanzo Il compagno di scalata (e/o) mentre il protagonista vive la sofferenza della malattia della giovane nuora: «In quel momento pensavo che contasse solo l’amore di Dio, e che gli altri amori, maschili o femminili, fossero solo passeggeri, peregrini. Le cose sono andate diversamente. L’amore di Dio ha illuminato la mia vita con segnali brillanti e intermittenti. Le intermittenze di Dio, ecco la mia reale esperienza. Sono stato irradiato, talvolta illuminato, ma solo l’amore umano mi ha riscaldato».

Bauchau con questa affermazione ci insegna due cose: la prima, che la fede resta un dono gratuito e libero di Dio, una possibilità accordataci di poter guardare la vita con un terzo occhio divino; la seconda, che in queste «intermittenze» si manifesta la decisione dell’uomo di aderire a questa proposta divina.

© RIPRODUZIONE RISERVATA