ARTE/ Nel “ritratto della madre” la grandezza segreta e anomala di Boccioni in mostra a Domodossola

Da oggi per 15 giorni è in mostra a Domodossola “Ritratto della madre” (1910) di Umberto Boccioni. Un’opera straordinaria e anomala

Alla fine della sua breve vita ne dipinse ben 62: 62 ritratti di sua madre, tra disegni e dipinti. È il caso davvero unico di Umberto Boccioni, il maggior artista italiano del 900, vero artefice della grande stagione futurista, morto nel 1916 a soli 34 anni. Nel nostro secolo solo Alberto Giacometti ha mostrato una simile attenzione al volto della propria madre Annetta. Ma la “predilezione” di Boccioni verso Cecilia Forlani, la donna che lo aveva messo al mondo nel 1882 a Reggio Calabria, è qualcosa di davvero fuori dall’ordinario. Proprio in questi giorni uno dei 62 ritratti conclude la mostra “Umano molto umano” organizzata a Casa de Rodis, a Domodossola: una mostra a rotazione che prevedeva ogni settimana l’“incontro” con un grande ritratto del 900, nella vetrina affacciata sulla piazza centrale della cittadina ossolana. Da oggi, ed eccezionalmente per 15 giorni, sarà la volta dello stupendo Ritratto della madre del 1910, proveniente dalla Galleria Ricci Oddi di Piacenza. Un prestito reso possibile grazie alla collaborazione del museo e in particolare del suo presidente Massimo Ferrari. 

Come si spiega una tale attenzione nei confronti di propria madre da parte di un artista dal carattere tumultuoso e dalla vita nomade? Sappiamo da tantissime testimonianze che Boccioni era personaggio inquieto, a volte anche rissoso; non si contano poi le quantità di avventure femminili che hanno costellato la sua vita. Il suo profilo era quello tipico di un uomo di avanguardia in un inizio secolo travolgente e tempestoso, come era stato l’inizio del 900. Erano personaggi portati a tagliare i ponti con il proprio milieu sociale e famigliare. Anche Boccioni era un oltranzista, non solo nell’arte ma anche nelle scelte di vita; fu tra i protagonisti di questa straordinaria accelerazione che portò ad una rottura generalizzata con i linguaggi del passato.   

Ma Boccioni in tutto questo rivolgimento custodì sempre il legame più “inaspettato”, quello con la propria madre Cecilia (che si era divisa precocemente da Raffaele Boccioni, padre di Umberto). Era un legame profondo, che lo portava a esternare spesso preoccupazioni da figlio molto premuroso: quando la sorella Amelia si sposò, aveva raccomandato al futuro cognato di prestare attenzione particolare alla mamma. Boccioni infatti in quel periodo era sempre in giro per l’Europa e quindi non poteva prendersene cura. Tornato a Milano, sarebbe andato a vivere con lei.

Ma c’è di più. C’è la centralità che per il Boccioni artista assume quella figura di donna di un altro secolo, con i capelli bianchi raccolti sulla testa e gli abiti da donna del popolo. Come si può spiegare questa vera “anomalia”?

Nel 1912, nella casa di tre locali di corso Genova 23 a Milano, Boccioni aveva realizzato uno dei 62 ritratti intitolandolo Materia. È un quadro colossale in ogni senso, anche per le sue misure, uno dei capolavori dell’intero 900. Un quadro che fa sintesi dell’esperienza futurista e la rilancia dentro una prospettiva di inedita grandezza. “Capolavoro ostico e stupendo”, lo definisce Gino Agnese nella sua biografia di Boccioni. Il titolo gioca sull’assonanza con la parola latina “mater”: come se il corpo di Cecilia non fosse generativo solo di quel figlio scapestrato e geniale, ma anche del farsi stesso della pittura. È un ritratto dentro il quale irrompe il mondo intero, con i suoi cambiamenti travolgenti, ma anche con i drammi incombenti.

Il cammino di avvicinamento a questo capolavoro è costellato di opere dove l’impeto lascia sempre spazio alla tenerezza. Come nel caso del Ritratto in mostra, dove Boccioni lascia che la luce baci la madre posandosi sul suo volto. È un ritratto affascinante e anche spiazzante, perché non ci si aspetta che una visione moderna, tesa e inquieta, possa prendere corpo su un corpo “antico”. Ma questa è la grandezza segreta e “anomala” di Boccioni.

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Essere madre

Jenni ha due piercing sotto il labbro inferiore e uno al naso. È truccata e porta lo smalto rosso scuro. Va a scuola e fa l’apprendista in un negozio di tatuaggi. È paffuta e graziosa, come tante sue coetanee di 17 anni. La si può vedere su YouTube, se si cerca Jenni’s journey, il viaggio di Jenni: sono i video messi in rete dai familiari per raccon­tare la storia della sua vita, breve e in­tensa. Jenni non c’è più, se n’è andata il 21 novembre dell’anno appena con­cluso, consumata da un cancro al cer­vello. Il suo ultimo desiderio è stato di avere accanto a sé, fino alla fine, suo fi­glio Chad Michael, su Facebook si pos­sono vedere insieme: due volti vicini, i piercing sono spariti, madre e figlio con gli occhi chiusi, lei, dolcissima e sma­grita, lo culla. Si sono fatti compagnia solo per 12 giorni, tanti ne aveva Chad quando Jenni si è spenta. Lui crescerà nell’Idaho con suo padre, che di anni ne ha venti. Chad sta bene. È sano, per­ché sua madre non si è voluta curare con la chemioterapia quando ha sco­perto di essere incinta, una settimana dopo che le era stato diagnosticato il tumore.

Un atto eroico, indubbiamente, non certo dovuto, ma neppure così raro: le mamme, si sa, diventano tigri quando si tratta di difendere i propri figli. Si sco­prono disposte a tutto. Come Jenni, che sapeva di avere un bambino in pancia. Per questo l’ha protetto, a scapito del­la sua stessa vita: perché quel bambi­no c’era già, era lì, non era un ‘proget­to di vita’ ma, semplicemente, suo fi­glio. Non si mette in gioco la propria vita per il ‘prodotto del concepimen­to’, un ‘embrione’ o un ‘feto’, ma per il proprio bambino sì.

Ed è per una analoga consapevolezza che a Roma c’è ora il Giardino degli An­geli, un angolo di verde dove invece al­tri bambini saranno sepolti: quelli mai nati, abortiti naturalmente o, purtrop­po molto più spesso, volontariamente. Sempre esseri umani, però, e per que­sto degni almeno di sepoltura, anziché gettati tra i rifiuti ospedalieri: un pie­toso gesto di civiltà, specie per quei tanti a cui la vita è stata violentemen­te strappata via, negata. Perché la dura verità, che dobbiamo a­vere il coraggio di riconoscere, tutti quanti, è che una volta che si diventa madri lo si rimane per sempre, accet­tato o rifiutato che sia quel figlio che si sa di avere in grembo. Una volta chia­mato alla vita, più o meno consape­volmente, il figlio c’è, esiste, vive, indi­pendentemente da tutto il resto, dalle circostanze felici o drammatiche che lo accompagnano. E una madre lo sa. Tornare indietro non è più possibile: non esiste il tasto rewind, non c’è mo­do di dissolvere quella vita umana, di farla tornare indietro nel nulla. Per ri­fiutarla si può solo usarle violenza, e sopprimerla.

Aspettare un bambino è un’esperien­za meravigliosa e indescrivibile, che purtroppo talora si può trasformare in un incubo, in un ostacolo apparente­mente insuperabile. E la più grande menzogna da dirsi a una donna in­cinta che si trova in difficoltà è che a­bortire può essere una via d’uscita. Qualunque siano i problemi di una gravidanza, compresi il panico per senso di inadeguatezza, la paura di non farcela a farsi carico di una per­sona che cresce dentro di te, dobbia­mo con onestà riconoscere e ricorda­re sempre a tutti che sopprimere il pro­prio figlio non potrà mai essere una soluzione: semmai, è un macigno ag­giunto ai pesi che già ci sono.

La scelta feconda di Jenni, pur nel dramma della sua morte, ha comun­que il sapore della speranza: c’è una nuova vita che continua, e che porterà il testimone della vitalità e dell’amore della giovane americana. Una testimo­nianza che, nel tempo, potrà aiutare a rendere meno necessari e meno do­lenti i Giardini degli Angeli.

Assuntina Morresi – avvenire.it