Gli 80 anni di Lucio Battisti, l’inventore del pop italiano

ottanta anni lucio battisti

AGI – È il 5 marzo del 1943, esattamente 80 anni fa, quando a Poggio Bustone nasce Lucio Battisti, l’uomo destinato a rivoluzionare la musica pop italiana. Esistono due fasi della carriera di Lucio Battisti, questo è ormai chiaro. Esiste il Battisti che ha preso la tradizione, soprattutto contenutistica, lirica, estremamente melodica, italiana, per metterla in musica leggera, tradurla in canzonetta; quello che, insieme a Mogol, ha impacchettato questo nostro romanticismo in brani assolutamente definitivi, brani oltre i quali non è possibile sporgersi.

E poi c’è il Battisti che ha smontato pezzo dopo pezzo quello che aveva costruito, artefice del tutto e del suo esatto contrario, che ha proposto un’accessibilità totale alla propria musica, che ha cantato la e con semplicità popolare, per poi finire, facendo posto alla collaborazione con Pasquale Panella, alla costruzione di labirinti musicali e concettuali affascinanti e futuristici.

Quasi 142 milioni i click sui contenuti del canale ufficiale su YouTube, poco più di 1,2 milioni gli ascolti mensili su Spotify, dove la canzone più ascoltata risulta essere “Il mio canto libero”, che supera i 21 milioni di stream, seguita da “La canzone del sole” (17 milioni) e “Con il nastro rosa” (14 milioni). Numeri che sarebbero potuti essere molto più alti di questi, è naturale, se non fosse per una bagarre sui diritti dei brani che di fatto, una volta arrivato il momento storico della cosiddetta “musica fluida”, ha negato per tanto tempo, forse troppo, ad intere generazioni, di avvicinarsi alla musica attraverso la sua opera; come avveniva praticamente di regola prima dell’avvento delle piattaforme digitali.

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 Mogol e Lucio Battisti

Perché in nessuna casa italiana mancava la musica di Battisti/Mogol, come se fosse la colonna sonora precisa per raccontare l’Italia dell’amore, della tristezza, del sentimentalismo sfrenato, mai della politica, cosa che, come sappiamo, gli creò non pochi problemi in un periodo molto delicato in cui il non schierarsi veniva percepito, specie dagli appassionati di cantautorato, come uno schieramento da quella che ritenevano la parte sbagliata. Le canzoni di Battisti nei falò in spiaggia, le canzoni di Battisti in autoradio, le canzoni di Battisti nei piano bar; per decenni quelle canzoni hanno risuonato ovunque, in maniera indirettamente proporzionale alla sua presenza in tv.

Un difficile rapporto con i media

Lucio Battisti decise di ritirarsi dalle scene intorno alla metà dei ’70, dopo uno storico tour con i Formula 3, perché snervato dal gossip, dalla narrazione che viene fatta di lui, totalmente deviata rispetto all’artista, e solo quello, che pretendeva di rappresentare; snervato da quelli che, fino ad un anno prima della sua morte, venivano definiti “abbattistamenti”, ovvero foto che ritraessero Battisti in qualsiasi momento della sua giornata, addirittura arrivando al commento sprezzante sui chili di troppo accumulati negli anni lontano dai riflettori.

Un rapporto, quello con i media, davvero complesso, tant’è che la sua volontà quando sentiva la morte un po’ più vicina, pare sia stata, secondo quanto raccontato in questi anni dalla vedova Grazia Letizia Veronese, di non autorizzare l’utilizzo della sua musica per show televisivi, pubblicità o film per il cinema. Chiaro che non poteva avere idea di come si sarebbe rivoluzionato il mercato discografico di lì a pochi anni, così solo ultimamente, dopo uno scontro legale durato molto tempo, la musica di Battisti risulta disponibile su tutte le piattaforme digitali.

Lucio Battisti è morto nel 1998, a soli 55 anni, ed è chiaro domandarsi oggi quanto e cosa ci siamo persi, che genere di artista sarebbe diventato maturando; una domanda forse superflua, considerato che Battisti, ben prima di andarsene, fu ogni genere di artista possibile, lascia un’eredità che difficilmente ci possiamo immaginare più grande, di maggior valore e, soprattutto, più ficcante nelle nostre vite, di quanto già non sia.

“Ci siamo persi molto” ha dichiarato ieri all’AGI Grazia Letizia Veronese, quella che per molti rappresentò la Yoko Ono del duo Battisti/Mogol, quel duo che creò le colonne sopra le quali si erge il pop italiano degli ultimi 50 anni; per altri semplicemente una donna che ha fatto tutto il possibile, con una tenacia alle volte giudicata esagerata, per difendere le ultime volontà del proprio amato.

 

Cinquant’anni di Emozioni

La copertina dell’lp «Emozioni»

Nel dicembre del 1970 veniva pubblicato il celebre album di Lucio Battisti

05 settembre 2020

Alberto Radius, Dario Baldan Bembo, Demetrio Stratos, Franco Mussida, Franz Di Cioccio, Gianni Dall’Aglio, Pietruccio Montalbetti: ai più giovani questi nomi forse diranno poco, ma tra Formula Tre, Dik Dik, Premiata Forneria Marconi, Ribelli, Area, abbiamo la crema di quello che fu chiamato il progressive rock italiano, della sperimentazione o della coraggiosa importazione di sonorità blues, rock o new age. Eppure tutti questi protagonisti della ricerca musicale, degli esperimenti vocali e delle tentazioni atonali ed elettroniche, hanno firmato musicalmente i dischi di uno che per molti di quell’area culturale era il campione della musica canzonettara: Lucio Battisti. E, come vedremo, questa etichetta era davvero immeritata.

Nel 1970 Battisti aveva già fatto uscire, solo attraverso quel pezzo d’antiquariato che si chiamava musicassetta (fu evitata per moltissimi anni l’edizione lp), il suo secondo disco. Ora, a dicembre, un suo fortunato 45 giri dà il titolo al nuovo long-playng del duo Battisti-Mogol, alias Giulio Rapetti (con qualche eccezione firmata da Renato Angiolini per quello che riguarda la musica).

Emozioni è il primo lp del cantautore di Poggio Bustone ad arrivare in cima alla classifica italiana, ed è il compendio dei suoi maggiori successi singoli: vi trovano posto, infatti, Fiori rosa, fiori di pescoMi ritorni in menteNon è FrancescaAnna, ma anche Era (una canzone folk inusuale per Lucio, che richiama molto Catch the Wind, grande successo del cantautore inglese Donovan), solo per citare alcuni di quelli che diventeranno un must nei ritrovi con chitarra sulla spiaggia o nelle case dei ragazzi che poi, un po’ meno ragazzi, continueranno ad ascoltare, suonare e far sentire a figli e nipoti quelle canzoni.

Certo, alcuni penseranno che con quei nomi alle chitarre, alle tastiere, ai bassi, con le parole di quello che era considerato il re degli autori di testi per la musica, non poteva andare diversamente. E però la storia della musica ci insegna che non sempre il disco prodotto è la somma matematica dei suoi ingredienti. Ci vuole altro, ci vuole qualcosa che tenga insieme voce, suoni, parole, atmosfera: senza la fusione alchemica di questi ingredienti ci possono essere Mozart a dirigere l’orchestra e Orfeo a cantare senza che il successo sia garantito. È quella la chiave di volta per capire la permanenza delle canzoni del duo nell’Olimpo musicale italiano.

Prendiamo il pezzo del titolo: nel 1970 cantare la storia di un uomo che invece di agire (ad esempio contestare il sistema), amare, corteggiare, piangere su un amore finito dà via libera ai propri pensieri, anche quelli più riposti, sembrava un azzardo. Eppure il roco filo di voce di Battisti cantava uno che non sapeva dire il perché di una tristezza che improvvisamente si affaccia «in fondo al cuore», l’incapacità di comunicare all’altra quegli strani pensieri per paura di esser preso per matto o per debole.

Quelle parole di Mogol forse non sarebbero state considerate poesia se lette, come stiamo facendo adesso, sulla carta di uno spartito o sullo schermo di un computer. È la fusione con una musica che non cerca la facilità mnemonica, ma tenta di rappresentare il significato stesso attraverso il graduale uso di violini (60 orchestrali diretti da Giampiero Reverberi) oltre che la tradizionale chitarra iniziale, a fare la differenza. Era un primo geniale episodio di quella capacità di esprimere i pensieri più nascosti di chi sentiva dentro la difficoltà di vivere, di agire come i propri coetanei, che continuerà con un altro evergreen, la confessione mogoliana di non avere il coraggio di vendere i libri fuori scuola come tutti i suoi compagni, di qualche anno dopo: I giardini di marzo.

Ma la capacità di raccontare se stessi e il proprio tempo non si esaurisce nell’introspezione lirica; prendiamo un caso diversissimo, quasi opposto: Il tempo di morire. Prese da sole le parole di disperazione di uno che vuole semplicemente — e ossessivamente — il sì della donna amata non attirerebbero ascoltatori abituati ad andare a fondo soprattutto sul versante testuale. E però c’è la musica: un giro di chitarra con solo tre accordi staccati, e poi un basso ossessivo, e poi le note distorte della chitarra elettrica che vengono da molto lontano, dall’ascolto di Bo Diddley e B.B. King, ma anche da John Lee Hooker, vale a dire i maestri del blues che saranno alla base del rock-blues dell’ondata british negli anni Sessanta. E delle strazianti, geniali, lancinanti distorsioni di Jimi Hendrix.

Il fatto è che Battisti era molto meno commerciale e canzonettaro di quanto potesse apparire ai puristi dell’impegno assoluto, e già dall’uso della voce i più attenti avevano capito che dietro c’erano i Rolling Stones, Ray Charles, Otis Redding, James Brown e soprattutto un gruppo inglese, gli Animals, che aveva un vocalist, Eric Burdon, dalla voce graffiante, roca e aggressiva. Ma nessuno, a quei tempi, tranne poche eccezioni, avrebbe mai associato il nome del ragazzo di Poggio Bustone a quello di quei mostri sacri di una musica non esattamente commerciale, anche se The House of the Rising Sun degli Animals aveva sbancato le classifiche: era pur sempre una storia di prostituzione.

L’attenzione maniacale del cantautore per la ricerca musicale, la sua volontà di spingersi sempre più oltre lo portò assieme a Mogol, pochi anni dopo, in Brasile e poi in Argentina, a contatto con la musica di strada della gente che cantava il dolore ma anche la bellezza semplice della vita e che darà origine alla sperimentazione coraggiosa di Anima latina. Ma Emozioni rimane una pietra miliare anche se non un disco-concept o sperimentale, perché è la summa del miracolo Battisti-Mogol, di quella capacità di leggere lo spirito del tempo, non quello di una generazione sola, senza corteggiarlo commercialmente. Le parole della disperazione che diviene cecità e poi follia di Non è Francesca e di Fiori rosa fiori di pesco (storia assai attuale di un uomo che non si arrende alla fine di una relazione) sono state accolte in virtù di un carisma ormai affermato, è vero, ma l’affermazione di quel carisma era avvenuta proprio grazie alla capacità di dire ciò che la canzone del tempo, anche quella più nobile, non poteva e non osava dire.

di Marco Testi

Osservatore Romano