Supereroi, il brano cantato da Mr. Rain arrivato terzo al Festival di Sanremo, ha colpito i cuori di milioni di persone, tra cui anche diversi sacerdoti

Dopo aver raccolto la testimonainza di don Fortunato di Noto, riportatimo la lettera che padre Pasquale Albisinni parroco della Parrocchia Santi Antonio e Annibale Maria di Roma, ha deciso di scrivere a Mr. Rain, in cui emerge il profondo valore anticonformista di questo brano e il coraggio di parlare della debolezza. I supereroi derlla canzone, infatti, sono coloro i quali in, un momento di debolezza, trovano il coraggio di chiedere aiuto. Domenica scorsa il parroco ha anche voluto cantarla con i ragazzi della parrocchia e con i loro genitori, i quali si sono comossi.

Caro Mr. Rain, ogni anno mi prometto di non guardare Sanremo, ma poi sempre lo guardo, forse perchè convinto che in fondo, fra tanta banalità e ideologia dominante, ci possa essere qualcosa di buono. Anche il buon De Andrè cantava che “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. E così, con assoluta meraviglia, già la prima sera vedo scendere dalle scale dell’Ariston 8 bellissimi bambini, di cui due con “un’ala soltanto”. Nel frattempo sento questo rapper che non conosco cantare: “siamo angeli con un’ala soltanto e riusciremo a volare solo restando l’uno accanto all’altro”.
In quel momento qualcosa si muove dentro: sento che quella frase mi appartiene, fa parte del mio patrimonio spirituale e cerco di ricordarmi dove l’ho sentita; bastano pochi istanti perché mi ricordi del mio caro Tonino Bello e della sua “Ala di riserva”. “Voglio ringraziarti Signore, per il dono della vita; ho letto da qualche parte che gli uomini hanno un’ala soltanto: possono volare solo rimanendo abbracciati. A volte, nei momenti di confidenza, oso pensare, Signore, che tu abbia un’ala soltanto…perché io sia tuo compagno di volo. Ma non basta saper volare con Te, tu mi hai dato il compito di abbracciare anche il fratello e aiutarlo a volare…non farmi più passare indifferente vicino al fratello che è rimasto con l’ala, l’unica ala, inesorabilmente impigliata nella rete della miseria e della solitudine e si è ormai persuaso di non essere più degno di volare…. soprattutto per questo fratello sfortunato dammi, o Signore, un’ala di riserva”. E così…mentre ricordo queste parole, vedo che due dei tuoi bambini, scendono le scale e si abbracciano; hanno un’ala soltanto, ma insieme possono volare. Mi commuovo…
Caro Mattia, so che questo è il tuo vero nome, non so se conosci Tonino Bello, né se sei credente…e perché queste parole si trovano nella tua canzone, ma importa nulla. Voglio solo dirti grazie per aver portato a Sanremo una canzone coraggiosa che parla di fragilità e di fraternità. Grazie perché in una competizione dove tutti gareggiano con le loro ideologie politicamente corrette e i loro monologhi da regime, tu hai avuto il coraggio di cantare insieme all’innocenza dei bambini, l’arte di essere fragili, l’umiltà di chiedere aiuto, la bellezza della fraternità. Quanta verità e quanta speranza ritrovo in ogni parola della tua canzone. Ne ho parlato ai bambini domenica nell’omelia. Ovviamente il mondo predilige altro…. Non importa se non hai vinto, per me e per molti ha vinto per il coraggio di aver portato sul palco dell’Ariston un grande messaggio di luce e di
forza. Si…siamo “supereroi” solo se ci salviamo insieme, se insieme “ci stringiamo le mani”, se insieme “fermiamo il vento come in mezzo agli uragani”; “siamo invincibili vicini” e non da soli. Quanto è vero che “ogni cicatrice dell’altro è anche la nostra” e quanto è vero che “ci sono ferite che non se ne vanno nemmeno col tempo”. Hai ragione: nessuno “può combattere la guerra da solo”. Le parole e la musica di quanto hai portato a Sanremo mi hanno dato una grande forza: ho ritrovato in esse la bellezza del Vangelo, “la forza nella debolezza”. Mentre sul palcoscenico del mondo si esibiscono violenza e guerre senza ragione, la tua canzone risplende come un bellissimo arcobaleno di speranza. Ciao Mattia! Mr. Rain, la pioggia in quel di Dese … dove anch’io ho abitato, continui ad ispirarti grandi sogni…
Salutami il Lago…”
Famiglia Cristiana

Abusi sessuali su minori commessi da chierici e persone consacrate / Lettera di Papa Francesco al Popolo di Dio

«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1 Cor 12,26). Queste parole di San Paolo risuonano con forza nel mio cuore constatando ancora una volta la sofferenza vissuta da molti minori a causa di abusi sessuali, di potere e di coscienza commessi da un numero notevole di chierici e persone consacrate. Un crimine che genera profonde ferite di dolore e di impotenza, anzitutto nelle vittime, ma anche nei loro familiari e nell’intera comunità, siano credenti o non credenti. Guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato. Guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per essere coperte e perpetuarsi. Il dolore delle vittime e delle loro famiglie è anche il nostro dolore, perciò urge ribadire ancora una volta il nostro impegno per garantire la protezione dei minori e degli adulti in situazione di vulnerabilità.

  1. Se un membro soffre

Negli ultimi giorni è stato pubblicato un rapporto in cui si descrive l’esperienza di almeno mille persone che sono state vittime di abusi sessuali, di potere e di coscienza per mano di sacerdoti, in un arco di circa settant’anni. Benché si possa dire che la maggior parte dei casi riguarda il passato, tuttavia, col passare del tempo abbiamo conosciuto il dolore di molte delle vittime e constatiamo che le ferite non spariscono mai e ci obbligano a condannare con forza queste atrocità, come pure a concentrare gli sforzi per sradicare questa cultura di morte; le ferite “non vanno mai prescritte”. Il dolore di queste vittime è un lamento che sale al cielo, che tocca l’anima e che per molto tempo è stato ignorato, nascosto o messo a tacere. Ma il suo grido è stato più forte di tutte le misure che hanno cercato di farlo tacere o, anche, hanno preteso di risolverlo con decisioni che ne hanno accresciuto la gravità cadendo nella complicità. Grido che il Signore ha ascoltato facendoci vedere, ancora una volta, da che parte vuole stare. Il cantico di Maria non si sbaglia e, come un sottofondo, continua a percorrere la storia perché il Signore si ricorda della promessa che ha fatto ai nostri padri: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53), e proviamo vergogna quando ci accorgiamo che il nostro stile di vita ha smentito e smentisce ciò che recitiamo con la nostra voce.

Con vergogna e pentimento, come comunità ecclesiale, ammettiamo che non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione e la gravità del danno che si stava causando in tante vite. Abbiamo trascurato e abbandonato i piccoli. Faccio mie le parole dell’allora Cardinale Ratzinger quando, nella Via Crucis scritta per il Venerdì Santo del 2005, si unì al grido di dolore di tante vittime e con forza disse: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! […] Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison– Signore, salvaci (cfr Mt 8,25)» (Nona Stazione).

  1. Tutte le membra soffrono insieme

La dimensione e la grandezza degli avvenimenti esige di farsi carico di questo fatto in maniera globale e comunitaria. Benché sia importante e necessario in ogni cammino di conversione prendere conoscenza dell’accaduto, questo da sé non basta. Oggi siamo interpellati come Popolo di Dio a farci carico del dolore dei nostri fratelli feriti nella carne e nello spirito. Se in passato l’omissione ha potuto diventare una forma di risposta, oggi vogliamo che la solidarietà, intesa nel suo significato più profondo ed esigente, diventi il nostro modo di fare la storia presente e futura, in un ambito dove i conflitti, le tensioni e specialmente le vittime di ogni tipo di abuso possano trovare una mano tesa che le protegga e le riscatti dal loro dolore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 228). Tale solidarietà ci chiede, a sua volta, di denunciare tutto ciò che possa mettere in pericolo l’integrità di qualsiasi persona. Solidarietà che reclama la lotta contro ogni tipo di corruzione, specialmente quella spirituale, «perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché “anche Satana si maschera da angelo della luce” (2 Cor 11,14)» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 165). L’appello di San Paolo a soffrire con chi soffre è il miglior antidoto contro ogni volontà di continuare a riprodurre tra di noi le parole di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).

Sono consapevole dello sforzo e del lavoro che si compie in diverse parti del mondo per garantire e realizzare le mediazioni necessarie, che diano sicurezza e proteggano l’integrità dei bambini e degli adulti in stato di vulnerabilità, come pure della diffusione della “tolleranza zero” e dei modi di rendere conto da parte di tutti coloro che compiono o coprono questi delitti. Abbiamo tardato ad applicare queste azioni e sanzioni così necessarie, ma sono fiducioso che esse aiuteranno a garantire una maggiore cultura della protezione nel presente e nel futuro.

Unitamente a questi sforzi, è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno. Tale trasformazione esige la conversione personale e comunitaria e ci porta a guardare nella stessa direzione dove guarda il Signore. Così amava dire San Giovanni Paolo II: «Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49). Imparare a guardare dove guarda il Signore, a stare dove il Signore vuole che stiamo, a convertire il cuore stando alla sua presenza. Per questo scopo saranno di aiuto la preghiera e la penitenza. Invito tutto il santo Popolo fedele di Dio all’esercizio penitenziale della preghiera e del digiuno secondo il comando del Signore,1 che risveglia la nostra coscienza, la nostra solidarietà e il nostro impegno per una cultura della protezione e del “mai più” verso ogni tipo e forma di abuso.

E’ impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita.2 Ciò si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa – molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza – quale è il clericalismo, quell’atteggiamento che «non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente»3. Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo.

E’ sempre bene ricordare che il Signore, «nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6). Pertanto, l’unico modo che abbiamo per rispondere a questo male che si è preso tante vite è viverlo come un compito che ci coinvolge e ci riguarda tutti come Popolo di Dio. Questa consapevolezza di sentirci parte di un popolo e di una storia comune ci consentirà di riconoscere i nostri peccati e gli errori del passato con un’apertura penitenziale capace di lasciarsi rinnovare da dentro. Tutto ciò che si fa per sradicare la cultura dell’abuso dalle nostre comunità senza una partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa non riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed effettiva trasformazione. La dimensione penitenziale di digiuno e preghiera ci aiuterà come Popolo di Dio a metterci davanti al Signore e ai nostri fratelli feriti, come peccatori che implorano il perdono e la grazia della vergogna e della conversione, e così a elaborare azioni che producano dinamismi in sintonia col Vangelo. Perché «ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 11).

E’ imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione.

Al tempo stesso, la penitenza e la preghiera ci aiuteranno a sensibilizzare i nostri occhi e il nostro cuore dinanzi alla sofferenza degli altri e a vincere la bramosia di dominio e di possesso che tante volte diventa radice di questi mali. Che il digiuno e la preghiera aprano le nostre orecchie al dolore silenzioso dei bambini, dei giovani e dei disabili. Digiuno che ci procuri fame e sete di giustizia e ci spinga a camminare nella verità appoggiando tutte le mediazioni giudiziarie che siano necessarie. Un digiuno che ci scuota e ci porti a impegnarci nella verità e nella carità con tutti gli uomini di buona volontà e con la società in generale per lottare contro qualsiasi tipo di abuso sessuale, di potere e di coscienza.

In tal modo potremo manifestare la vocazione a cui siamo stati chiamati di essere «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 1).

«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme», ci diceva San Paolo. Mediante l’atteggiamento orante e penitenziale potremo entrare in sintonia personale e comunitaria con questa esortazione, perché crescano tra di noi i doni della compassione, della giustizia, della prevenzione e della riparazione. Maria ha saputo stare ai piedi della croce del suo Figlio. Non l’ha fatto in un modo qualunque, ma è stata saldamente in piedi e accanto ad essa. Con questa posizione esprime il suo modo di stare nella vita. Quando sperimentiamo la desolazione che ci procurano queste piaghe ecclesiali, con Maria ci farà bene “insistere di più nella preghiera” (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 319), cercando di crescere nell’amore e nella fedeltà alla Chiesa. Lei, la prima discepola, insegna a tutti noi discepoli come dobbiamo comportarci di fronte alla sofferenza dell’innocente, senza evasioni e pusillanimità. Guardare a Maria vuol dire imparare a scoprire dove e come deve stare il discepolo di Cristo.

Lo Spirito Santo ci dia la grazia della conversione e l’unzione interiore per poter esprimere, davanti a questi crimini di abuso, il nostro pentimento e la nostra decisione di lottare con coraggio.

Vaticano, 20 agosto 2018

FRANCESCO

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1 Questa specie di demoni non si scaccia se non con la preghiera e il digiuno» (Mt 17,21).

2 Cfr Lettera al Popolo di Dio pellegrino in Cile, 31 maggio 2018.

3 Lettera al Cardinale Marc Ouellet, Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, 19 marzo 2016.

La Lettera pastorale del Vescovo, «Vieni e vedrai», domenica in tutte le parrocchie

Il 18 dicembre, nella quarta domenica del tempo di Avvento, detta “della annunciazione a Giuseppe”, in tutte le parrocchie della diocesi sarà distribuita ai fedeli la Lettera pastorale “Vieni e vedrai”.

Si tratta della seconda Lettera pastorale scritta dal vescovo Massimo Camisasca. “Essa è innanzitutto una meditazione sul tema della vocazione, di ogni vocazione. L’ho scritta pensando soprattutto ai giovani. Vorrei tanto che potesse raggiungerli. Parlo poi in particolare della vocazione al presbiterato”, spiega lo stesso monsignor Camisasca nel messaggio che domenica sarà letto nelle chiese, anche come augurio natalizio.

Domenica, al termine delle celebrazioni eucaristiche festive, i fedeli potranno dunque prendere copia della Lettera, come occasione di riflessione per tutti e come strumento prezioso in modo particolare per i genitori, i catechisti e gli educatori.

“Vieni e vedrai”, come sottolinea il Vicario generale monsignor Alberto Nicelli nel comunicare l’iniziativa di diffusione, è un testo importante per cercare di rispondere alla domanda che molti cristiani oggi si pongono all’interno delle nuove unità pastorali: “Ci sarà in futuro un prete per la mia parrocchia?”.

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Lettera del Papa per i 1700 anni di San Martino di Tours

E’ stata pubblicata oggi la Lettera  del Papa al cardinale Dominik Duka, arcivescovo di Praga, inviato pontificio alla solenne Celebrazione Eucaristica che avrà luogo a Szombathely, in Ungheria, il prossimo 9 luglio, in occasione del 1700.mo anniversario della nascita di San Martino di Tours, avvenuta in questa regione ungherese. Il servizio di Sergio Centofanti (radio vaticana)

“San Martino di Tours – scrive Francesco – può giustamente essere chiamato padre dei poveri”: infatti, non ancora cristiano, “già si comportava come un candidato al Battesimo per le sue opere di carità: assisteva i tribolati nelle malattie, soccorreva gli sventurati, nutriva i bisognosi, vestiva i nudi, non conservava nulla per sé della paga militare, fuorché quanto servisse al sostentamento quotidiano. Già da allora era un ascoltatore non sordo ai precetti del Vangelo e non si curava del domani” (Sulpicio Severo, Vita S. Martini, 2,8).

Il Papa rievoca, nella lettera, quella fredda giornata d’inverno del IV secolo, quando Martino, soldato dell’Impero Romano in Gallia, incontrò alla porta della città di Amiens un povero nudo che invano pregava le persone di avere pietà di lui: tutti passavano oltre senza curarsene. Martino, invece, ne ha compassione: con la spada divide il suo mantello a metà, donandone al povero una parte. Papa Francesco – lo ricordiamo – dona spesso ai capi di Stato e di governo una medaglia raffigurante il gesto del Santo per ricordare la necessità di promuovere i diritti e la dignità dei poveri.

Martino – scrive ancora il Papa – convertito al cristianesimo, diventa “instancabile soldato di Cristo” annunciando e testimoniando il Vangelo in molti Paesi europei. Per questo, Francesco auspica che le celebrazioni di questo anniversario possano favorire, sull’esempio del Santo, l’evangelizzazione del continente e una maggiore attenzione ai poveri.