Cantona «Io, i barboni e l’Abbé Pierre»

Superpuntuale e disteso, cappotto grigio e jeans. Al mattino presto Éric Cantona scende da una moto-taxi davanti alla sede della Fondazione Abbé-Pierre, nel XIX arrondissement di Parigi. Fin dalla creazione avvenuta nel 2006, Cantona fa parte del Comitato degli amici e padrini della Fondazione: persone che – quando la salute dell’Abbé cominciò a vacillare – scelsero di mettere la loro popolarità al servizio dei senzacasa. Nel 2008 a Marsiglia, dove esponeva i suoi lavori fotografici sulla corrida alla Fiesta des Suds, Cantona decise di dirigere il suo sguardo penetrante verso un altro tipo di lotta: quella dei senzacasa contro la precarietà, degli squatter per ottenere un tetto, degli svantaggiati contro l’indifferenza.

Fedele alla pellicola e al bianco e nero, munito di Leica M6 e di Pentax 4.5×6, il figlio dei quartieri popolari di Marsiglia ha seguito a Parigi e in provincia gli animatori della Fondazione nel loro lavoro quotidiano, per mostrare quello che molti di noi non si degnano più di vedere: «Non volevo assolutamente scadere nel compassionevole. E proprio gli sguardi lasciano trasparire molte cose: sofferenza ma anche combattività, dignità, un modo di restare in piedi. Volevo mostrare questa bellezza. E mi auguro che il grande pubblico veda quei volti come li vedo io, ad altezza d’uomo.

Ma certi guardano e non vedono, come se i senzatetto fossero parte dell’arredo urbano, come ci sono i cestini dei rifiuti. Bisogna fermarsi e darsi tempo: si può sempre trovare qualcosa di buono in un essere umano, come diceva l’Abbé Pierre». Dietro Cantona – l’impertinente, il sanguigno – c’è Éric, l’uomo generoso, sensibile. Quello che Ken Loach ha messo sulla locandina del suo ultimo film, Looking for Éric. Quello che nel Comitato degli amici e padrini della Fondazione Abbé-Pierre ha arruolato i fratelli (Jean-Marie e Joël) e la compagna, l’attrice Rachida Brakni.

In che modo la storia della sua famiglia ha influenzato il suo impegno?
«I miei nonni materni erano catalani, hanno combattuto contro Franco nel 1936. Comunista duro e puro, mio nonno Pedro doveva far saltare un ponte, ha fatto la valigia in dieci minuti con mia nonna, senza avere il tempo di salutare nessuno. Hanno attraversato la frontiera e si sono ritrovati nel campo di Argelès-sur-Mer, nei Pirenei Orientali, come migliaia di altri rifugiati spagnoli. In ripari di fortuna. Sotto tende o lamiere. Ma erano molto pudichi sul loro passato. Tante cose le ho sapute solo alla morte di mio nonno, sei anni fa».

E da parte paterna?
«I miei bisnonni erano sardi e nel 1917 sono sbarcati a Marsiglia, nel quartiere di rue d’Alexandrie, per viverci in mezzo a tutti gli italiani in minuscoli bilocali. I miei fratelli e io siamo nipoti di questa gente, portata dalle ondate dell’immigrazione italiana e spagnola. A quel tempo erano né più né meno che gli arabi d’oggi. Per me è importante ricordarlo – e non manco mai di farlo – nel momento in cui c’è chi parla di identità nazionale. Ha sentito di quel sindaco dell’Ump (Unione per un Movimento Popolare) che dice che "ci faremo divorare" dagli stranieri? C’è ancora gente che la pensa così!».
Entrambi i suoi nonni erano muratori: un curioso segnale per la Fondazione…
«Sì, sono cresciuto anche in quel mondo. Mia nonna paterna aveva comprato un terreno con una grotta. Mio nonno muratore l’ha prolungata costruendo una stanza. È lì che mio padre adolescente ha vissuto i gelidi inverni del 1954 e del 1955: nelle fotografie si vede il ghiaccio. Poi la bicocca si è ingrandita alla meglio. Sul tetto a terrazzo è stata costruita a poco a poco la casa dei miei genitori. Mio fratello e io dovevamo trasportare i sacchi di sabbia su per il pendio, prima di andare a giocare! Tutto questo ha come risultato la nostra casa di famiglia, che esiste tuttora, a Marsiglia».

Eppure l’ambiente privilegiato in cui gravita oggi è ben lontano da quello dei senzatetto…
«Certo, ma non ho dimenticato da dove vengo. E non voglio mai dimenticarlo. Per la semplice ragione che gli anni dell’infanzia sono stati i più belli della mia vita! Condividevamo piccole felicità, i pasti in famiglia in cui si rideva, si cantava. C’era molto amore. E oggi provo a riprodurlo, a dare ai miei figli quei valori. Ci ritroviamo spesso in famiglia, spero che ne conservino il segno».

Perché dedicare il libro ai suoi tre figli e all’Abbé Pierre?
«Perché mi piacerebbe che i miei figli tenessero gli occhi aperti sul mondo. Quanto all’Abbé Pierre, era un esempio di devozione agli altri ma anche di combattività. Perché ce ne vuole, di speranza e di energia, per portare avanti la sua battaglia. Oggi si è raggiunto un numero inaccettabile di senzacasa: oltre 3 milioni e mezzo in un Paese ricco come il nostro. Non ci si deve assuefare, bisogna battersi contro le idee ricevute, resistere alla montatura costante, a questo sistema selvaggio in cui ti fanno credere che se non divori l’altro sarà lui a farlo».

Con la fotografia, ha lavorato con molto rispetto.
«Ho cercato di essere discreto. In realtà ho un carattere piuttosto riservato, temo di dare fastidio. Forse tanto più in queste situazioni, davanti a ragazzi che soffrono. Possono aver paura di un certo voyerismo, sarei molto ferito se di me si pensasse una cosa del genere. Ma devono aver avvertito la mia timidezza. D’altra parte, sulla scena pubblica, so gridare alto e forte. È importante difendere la verità. Contro i problemi di alloggio, bisogna battere il pugno sul tavolo. Come faceva l’Abbé Pierre. Per amore degli altri».

(traduzione di Anna Maria Brogi)

Marie Chaudey – avvenire 3 gennaio 2010