Vescovo di Aleppo: una guerra con troppi interessi internazionali

In Siria importante vittoria della coalizione arabo-curda contro i jihadisti dello Stato Islamico. Strappata agli uomini del sedicente califfato la città di Manbij, al confine con la Turchia. Salvi i duemila civili usati come scudi umani dai jihadisti in fuga verso nord per ripararsi dai bombardamenti.  Intanto si combatte ancora ad Aleppo, in violazione del cessate il fuoco annunciato dalla Russia: continuano i raid, i bombardamenti sugli ospedali e sui mercati e l’emergenza umanitaria. Alcuni camion carichi di cibo sono riusciti ad arrivare nella parte controllata dai governativi. Ascoltiamo il vescovo caldeo di Aleppo mons. Antoine Audo, al microfono di Luca Collodi:

R. – C’è una novità: la strada che abbiamo usato negli ultimi tempi adesso è chiusa. Ci sono combattimenti duri; è stata aperta un’altra strada dove la gente cerca di uscire e tornare ad Aleppo e si può di nuovo comunicare; ma si aspetta sempre la battaglia tra i due gruppi.

D. – Questa strada è una sorta di corridoio umanitario aperta dall’esercito di Assad?

R. – Sì. Questa è la parte conquistata negli ultimi tempi: la Via del Castello adesso è aperta e quindi c’è la possibilità di comunicare e di  uscire verso Homs e Damasco.

D. – Ora c’è la possibilità di far arrivare aiuti umanitari per la popolazione…

R. – Sì, sembra che adesso le cose vadano meglio. Ma è un problema enorme e la Caritas lavora molto bene per dare aiuto ai poveri.

D. – Ad Aleppo è tornata acqua e luce elettrica?

R. – Sì, l’acqua è tornata; c’è meno elettricità, meno ore di servizio, ma così la vita è di nuovo tornata.

D. – Sul piano militare si parla di uso di gas chimici. A lei risulta?

R. – È veramente una cosa molto complicata. Fino ad ora si accusavano a vicenda circa l’utilizzo di armi chimiche. Non sono in grado di dare un mio giudizio.

D. – Cosa fare per la pace?

R. – Il problema è molto complicato. Abbiamo detto e ripetuto con il Santo Padre, con tutti, che la soluzione è di carattere politico e deve venire dall’interno della Siria. I Paesi della regione non devono interferire: i Paesi del Golfo e la Turchia hanno interessi. È chiaro che ci sono poteri che vogliono sostenere certi gruppi con i petroldollari. Dietro c’è il commercio delle armi e come il Santo Padre ha detto: “Parlano della pace e vendono armi per interessi economici”.

D. – Chi sono i ribelli che in questo momento controllano una parte di Aleppo?

R. – Sono gruppi islamici estremisti. Da una parte c’è questo Daesh che porta avanti una guerra in nome della sharia. Inoltre ci sono mercenari ben pagati per fare questa guerra per interessi regionali e internazionali.

radiovaticana

Dacca. Una nuova chiesa cattolica per combattere l’odio

In Bangladesh il dolore si trasforma in speranza. La famiglia di Simona Monti, morta nell’attentato di Dacca del primo luglio scorso insieme ad altre 19 persone, aiuterà a costruire una chiesa nel Paese per sostenere la piccola comunità cristiana. Il nuovo tempio sorgerà nel villaggio di Haritana, dove ci sono un centinaio di cattolici. Si tratta di un progetto promosso da Aiuto alal Chiesa che Soffre. Gioia Tagliente ha intervistatodon Luca Monti, fratello di Simona (radio vaticana)

R. – E’ stata una scelta familiare che abbiamo fatto per concretizzare questa esperienza di sofferenza che abbiamo vissuto, in uno stile di preghiera e di speranza cristiana. Vogliamo, come famiglia, che in memoria di Simona la comunità cristiana in Bangladesh, per quanto una piccola minoranza, non si senta smarrita e possa ricevere così un incentivo attraverso il nostro aiuto, perché possa crescere come comunità e soprattutto crescere anche nel dialogo e nell’incontro con le altre religioni.

D. – Qual è il messaggio che si vuole lanciare con questo progetto?

R. – C’è una frase del Vangelo che noi stiamo vivendo e che certamente ci accompagna anche in questi momenti di naturale smarrimento e di sofferenza, ed è questa Parola del Signore: “Non abbiate paura: io ho vinto il mondo”. L’augurio è quello che facciamo ai cristiani in Bangladesh: quello di potere accrescere la fiducia sulla Parola del Vangelo, e celebrando l’Eucaristia veramente possano sentire forte la presenza del Signore che già è il vittorioso Re della Pace.

D. – In Bangladesh come i cristiani vivono la propria fede, dopo l’attentato?

R. – Suppongo che stiano attraversando un momento di smarrimento e di paura. Questo è normale, perché ho visto che anche noi uomini occidentali siamo piuttosto smarriti. Tuttavia, in questi giorni ho avuto modo di incoraggiare tantissime persone trasformando l’ovvio dolore in una testimonianza cristiana. A chi mi chiedeva se è necessario conoscere il Corano per non morire, mi è sembrato opportuno rispondere: “E’ meglio conoscere il Vangelo per essere testimoni di un messaggio di amore, di riconciliazione e di speranza”.

D. – Perché costruire una chiesa proprio nel villaggio di Aritana?

R. – Era uno dei progetti proposto dall’Associazione “Aiuto alla Chiesa che soffre”. Mi è sembrato opportuno scegliere questo progetto, forse per il nome di San Michele a cui sarà dedicata questa chiesa: è colui che davanti a Dio tiene in mano la spada della giustizia misericordiosa del Signore; è il protettore della Chiesa, è colui che negli ultimi tempi vincerà sul male, soprattutto sul male con la “m” maiuscola. Ed è anche un testimone di speranza, l’arcangelo Michele. Credo che questa sia una bella testimonianza. E poi, c’è forse un fatto anche più affettivo e familiare, considerando che il bambino di mia sorella si sarebbe chiamato Michelangelo, proprio in memoria del Santo arcangelo Michele.

D. – Diverse le donazioni arrivate: quanto ancora vi occorre per partire con la costruzione?

R. – Io questo non lo so. Noi abbiamo devoluto una somma di 5 mila euro, e altre piccole somme invece le abbiamo destinate ad altre associazioni caritative: penso a Medici Senza Frontiere, anche questo avrebbe reso molto contenta mia sorella.

D. – Cosa vuole dire in onore delle vittime?

R. – Credo che noi siamo allo stesso tempo vittime di un sistema che, purtroppo, ci lega all’emotività, e passata l’onda emotiva siamo veramente condannati e dimenticare sempre tutto. Il sangue di queste vittime non è semplicemente il sangue di una disgrazia, di una tragedia; io ho interpretato questo avvenimento tremendo come un versamento di sangue di testimonianza e quindi parlo di martirio. Perché non si dimentichi questo martirio, occorre che ci impegniamo tutti, proprio in memoria di queste vittime, per un mondo migliore. E vorrei che ogni cristiano possa imprimere nella propria coscienza le parole del Signore: “Venga il Tuo Regno, che è un Regno di giustizia e di pace”. Possiamo essere costruttori tutti di un mondo più giusto e fraterno.

Pensieri dopo Dacca / Il senso delle religioni secondo il Vangelo,

Sarà che a Dacca, ancora una volta, purtroppo, la follia umana non smette di stupirci. Sarà che le reazioni di alcuni miei amici sono di nuovo improntate alla “guerra santa contro la guerra santa!”. Non lo so. So che prepotentemente questa mattina mi è tornato in mente un incontro a cui ho partecipato a fine maggio.

Nell’ambito della Wellness Week 2016 il nuovo museo interreligioso di Bertinoro (Fc), aveva offerto un incontro-confronto tra le tre religioni “di Abramo”, per provare a coniugare religione e wellness. Un accostamento insolito e strano, ma molto interessante e che la Bibbia stessa offre: “Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare. Pregate il Signore per esso, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere” (Ger, 29,7).

E di fronte a questa frase la mia riflessione si mette in moto. Dio sa bene che gli ebrei deportati a Babilonia corrono il rischio di perdere la loro identità e di “annacquare” la propria fede dentro agli stili di vita dei conquistatori. Eppure chiede loro di cercare il benessere di quel paese. Di aiutare cioè quel paese, quella cultura, quegli stili di vita e quindi anche quella religione, a dare il meglio di sé. E allora mi chiedo: qual è il presupposto su cui questa frase sta in piedi, in termini di identità culturale e/o religiosa? Che idea di identità si intravvede dietro a questa frase?

Nelle azioni dell’Isis si intravvede, nemmeno troppo velatamente, una identità culturale e religiosa che si deve imporre a tutti. Che non sopporta la presenza davanti a sé del diverso, perché la sua semplice esistenza sta lì a dire quanto la furia del delirio di onnipotenza che li guida non sia ancora stata capace di realizzare quello che disperatamente vogliono. È evidente che non raggiungeranno mai il loro obiettivo. Ma nessuno sa quanto dolore e quanta morte ancora dovranno spandere perché quel loro “malessere” gli si ritorca contro.

La frase di Geremia lascia pensare, invece, un’identità che non si deve imporre. Nemmeno con la dolcezza e l’amore. Come se il problema fosse solo il modo con cui ci si impone e non il fatto stesso di volersi imporre. Spesso, anche qui nemmeno troppo velatamente, molte reazioni cattoliche di fronte a drammi deliranti come l’Isis lasciano intravedere una identità cattolica che comunque, pure questa, si deve imporre. Senza violenza certo, ma che mantiene comunque questo obiettivo nel proprio mirino. Geremia, invece, ipotizza una identità religiosa e culturale che per essere sé stessa è chiamata a spingere le altre identità ad essere sé stesse al massimo grado possibile.

E allora la successiva domanda sarebbe: per che cosa lavorano le religioni? Qual è il loro obiettivo? La loro ragione di vita? Imporsi sulle altre? O lavorare perché tutti possano incontrare Dio? La Shahada, cioè la testimonianza di fede che costituisce il primo dei cinque precetti islamici, è stata utilizzata a Dacca (e non è la prima volta) come discrimine tra vita e morte degli “infedeli”: chi la recitava veniva salvato. “Testimonio che non c’è divinità se non Dio (Allāh) e testimonio che Maometto è il Suo Messaggero”. Già nell’incontro di Bertinoro, l’imam Abd al-Ghafur Masotti, in rappresentanza dell’Islam, aveva potentemente criticato un atteggiamento verso la Shahada in cui ad Allāh si tende a sostituisce l’Islam stesso, creando una palese infedeltà al Corano: “Testimonio che non c’è divinità se non nell’Islam e testimonio che Maometto è il Suo Messaggero”. Non che qualcuno la reciti davvero così, ma l’atteggiamento di fondo in alcuni ambiti islamici mira a questo, pur senza averne sempre consapevolezza. Questa è una forma religiosa che vuole imporsi alle altre religioni e non lavora perché tutti possano incontrare Dio.

Allora però mi sono chiesto: noi cattolici lavoriamo per cosa? Non sono certo che la risposta sia semplice. Ad esempio. Credo che molti cattolici sottoscriverebbero questa frase: “Testimonio che non c’è divinità se non nella Chiesa e testimonio che Gesù è il Suo (della divinità) messaggero”. Che evidenzia fin troppo bene come l’identità religiosa dell’islam integralista e di un certo cattolicesimo, siano costruite sulla medesima base formale e l’unica differenza siano i contenuti di tale identità.

Il vangelo invece richiede una base formale radicalmente diversa. In cui le forme religiose hanno un senso non perché esse stesse siano l’obiettivo a cui tutti debbano arrivare, ma perché attraverso di esse, ognuno possa incontrare Dio sempre meglio.

Il senso delle religioni, allora, secondo il vangelo, non è quello di dimostrare chi vincerà nella gara della ricerca della verità del senso ultimo della vita. Ma è quello di lavorare per scomparire. Cioè perché non ci sia più bisogno di loro, perché tutti gli uomini avranno conosciuto Dio. Lavorare, cioè, così bene da offrire a tutti la possibilità di incontrare Dio e così aver esaurito il proprio compito. E questo richiede un’identità che non è da “conservare”, come “tesoro geloso” (Fil 2, 6-8), ma da spendere e offrire affinché l’altro sia sé stesso al massimo possibile.

vinonuovo.it

Bangladesh, assalto terroristico a Dacca Stranieri in ostaggio. «Italiani coinvolti»

Attacco terroristico in un locale nella zona diplomatica di Dacca, capitale del Bangladesh. Media locali hanno riferito di due italiani che sarebbero rimasti uccisi insieme a tre poliziotti locali, ma la Farnesina non conferma. La polizia ha isolato la zona, pronta a un blitz per liberare la 60ina di ostaggi. La rivendicazione del Daesh: 24 uccisi, 40 feriti. Nella foto, un poliziotto ferito viene trasportato dai colleghi (Lapresse)

Siria Orrore a Falluja, l’Is colpisce chi fugge

La furia del Daesh si abbatte su Falluja e nel mirino degli uomini del Califfato c’è soprattutto chi fugge dalla città o si rifiuta di imbracciare il fucile in nome dello Stato islamico. Ai fuggitivi che vengono catturati tocca una punizione esmplare: frustati, gli arti amputati, sepolti vivi sotto le macerie della propria casa distrutta. A denunciarlol’Acnur, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, che parla di “un numero crescente di esecuzioni” di uomini e ragazzi che si rifiutano di combattere tra le fila dell’Is. Più di 800 le persone che sono riuscite a lasciare Falluja da lunedì, quando l’esercito iracheno e le milizie sciite alleate hanno lanciato una campagna per liberare la città dall’Is.

“Ci sono notizie di un aumento drammatico nel numero di esecuzioni. E molte persone sono state uccise o sepolte vive sotto le macerie delle loro case”, ha denunciato Leila Jane Nassif, rappresentante dell’Acnur in Iraq. Secondo l’agenzia Onu, “più di 800 persone sono fuggite da Falluja, soprattutto dalle zone circostanti, mentre il governo continua la sua offensiva militare per riprendere il controllo della città”.

Nassif riferisce di “racconti strazianti” delle persone fuggite, aggiungendo che “le poche famiglie che sono riuscite a lasciare Falluja lo hanno fatto mettendo a grande rischio la loro vita. Ci hanno detto di aver camminato per ore di notte, attraverso i campi e nascondendosi nei tubi per l’irrigazione in disuso. Altri hanno perso la loro vita cercando di lasciare la città, tra cui donne e bambini. Altri sono stati giustiziati o frustati. A un uomo è stata amputata una gamba”. L’Acnur riferisce di decine di migliaia di civili ancora intrappolati a Falluja, “impediti a scappare dalle forze estremiste mentre la città viene bombardata dalle forze irachene. Le vite dei civili non dovrebbero essere tenute in ostaggio in questo modo”.

Avvenire

La Libia, l’Italia, la pace possibile Costruire l’alternativa alla guerra

Noi rappresentanti di movimenti, associazioni e gruppi del mondo della pace e della nonviolenza siamo preoccupati delle pressioni esercitate sul nostro governo perché assuma un ruolo guida nell’intervento militare in Libia a fianco di altre potenze occidentali. Il presidente del Consiglio ha detto che «non è in programma una missione militare italiana in Libia». Ne prendiamo atto. Ma i problemi restano: 1) il contrasto all’espansione del terrorismo del sedicente Stato islamico; 2) una minaccia alla sicurezza del nostro Paese; 3) la stabilizzazione della nazione nordafricana. La guerra non è il mezzo adeguato per sconfiggere il terrorismo né tantomeno per portare stabilità alla Libia. Basterebbe guardare alla storia di questi ultimi anni per capire che gli interventi militari non hanno risolto i problemi, li hanno invece aggravati.
A partire dalla dissennata guerra lanciata dalla Nato nel 2011 contro il regime di Gheddafi che avrebbe dovuto inaugurare un’era nuova di pace e democrazia. Invece la Libia è precipitata nel caos e nella guerra intestina. Non solo. Quella guerra ha posto le basi per altri conflitti. È ormai risaputo e documentato che il saccheggio di vasti arsenali di armi del colonnello durante l’operazione della Nato ha alimentato la guerra civile in Siria, rafforzato gruppi terroristici e criminali dalla Nigeria al Sinai e destabilizzato il Mali. Di fatto nessuno dei conflitti iniziati dal 1991 a oggi – Iraq, Somalia, Balcani, Afghanistan, Siria – ha risolto i problemi sul campo, che anzi sono tragicamente aggravati. Il fallimento di tali operazioni è sotto gli occhi di tutti: milioni di profughi abbandonati al loro destino che fuggono a causa delle nefaste conseguenze delle recenti guerre. Oggi poi, un eventuale secondo intervento armato in Libia avrebbe gravi ripercussioni anche sulla vicina Tunisia che teme il debordare della crisi libica oltre i suoi confini, mettendo a repentaglio il suo fragile equilibrio politico e il faticoso cammino verso la democrazia avviato in questi ultimi anni.
Inutile e ovvio dire che saranno i civili a pagare il prezzo più alto di imprese militari, anche nel caso di attacchi effettuati dai droni. Per quanto si voglia far credere che la precisione di tale velivoli a pilotaggio remoto non causerà vittime tra la popolazione, i fatti dimostrano l’esatto contrario. Indagini condotte su una lunga serie di attacchi hanno messo in evidenza che per un terrorista colpito i droni uccidono altre trenta persone circa, tra cui donne e bambini.
Se un intervento armato di polizia internazionale in Libia ci dovrà essere, sarà da considerarsi come extrema ratio, fatta nell’ambito delle Nazioni Unite e in seguito alla esplicita richiesta del governo unitario libico. Senza la quale – ammoniscono le autorità del governo di Tripoli – «qualsiasi tipo di operazione militare si trasformerebbe da legittima battaglia contro il terrorismo a palese violazione della nostra sovranità nazionale». Va aggiunto che la lotta al terrorismo dello Stato islamico non potrà mai essere vinta con un dispiegamento di forze militari. Anche la macchina bellica più potente è inefficace di fronte al fanatismo e alla capacità di mimetizzarsi dei terroristi in grado di colpire ovunque nel mondo cittadini inermi con attentati sanguinari. La nostra Penisola è in una posizione particolarmente vulnerabile perché è la più esposta per la sua vicinanza geografica alle coste libiche.
Per i motivi esplicitati qui sopra, ci rivolgiamo al governo italiano perché assuma un ruolo guida per indicare alla comunità internazionale la ricerca paziente e perseverante di una soluzione politica alla grave crisi libica. A tale scopo proponiamo con urgenza che l’Italia si impegni: 1) a ricostruire l’assetto statuale della Libia, sostenendo con la diplomazia e la politica l’iniziativa per un accordo tra le controparti e la formazione di un governo unitario tra i governi di Tobruk e di Tripoli; 2) a coinvolgere gli Stati membri della Lega araba e dell’Unione Africana anche al fine di bloccare i finanziamenti ai movimenti terroristici islamici che provengono da Arabia Saudita e Qatar, dal commercio di petrolio e di droga; 3) a valorizzare lapartecipazione della società civile della Libia nel processo di ricostruzione della loro nazione; 4) a garantire da parte dell’Europa l’apertura delle frontiere per accogliere e assistere i profughi, mettendo in campo un’operazione di salvataggio in mare.
Sulla base della nostra Carta costituzionale che sancisce che «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», chiediamo al governo di adoperarsi con determinazione e concretamente al fine di promuovere e restituire pace e giustizia al popolo della Libia. Lavoro al quale partecipano da tempo schiere di cittadini che, a vario titolo e in diverse organizzazione, operano per la promozione della pace e della giustizia tramite l’educazione nelle scuole, con corsi di formazione alla nonviolenza attiva, con la disseminazione di informazione, con la ricerca, il monitoraggio e la denuncia di vendita illegale di armi e con una variegata gamma di iniziative e progetti.
Infine desideriamo rivolgere un appello ai a papa Francesco che negli anni del suo pontificato non si è stancato di dichiarare la propria ferma opposizione alla guerra. Che anche in questo caso levi la sua voce profetica per denunciare l’assurdità e l’immoralità di un intervento armato in Libia, sollecitando la comunità internazionale a cercare soluzioni pacifiche e giuste.

Efrem Tresoldi, direttore di Nigrizia;
Mao Valpiana, direttore di Azione nonviolenta;
Alex Zanotelli, direttore di Mosaico di Pace;
Mario Menin, direttore di Missione Oggi;
Filippo Rota Martir, direttore di Cem Mondialità;
Marco Fratoddi, direttore di La nuova ecologia;
Riccardo Bonacina, direttore di Vita;
Pietro Raitano, direttore di Altreconomia;
Claudio Paravati, direttore di Confronti;
Michele Boato, direttore di Gaia;
Pier Maria Mazzola e Marco Trovato, direttori di Africa;
Silvia Pochettino, direttrice di Volontari per lo sviluppo;
Redazione di Mondo e Missione;
Antonio Vermigli, direttore di In dialogo;
Luca Kocci, direttore di Adista;
Luigi Anataloni, direttore di Missioni Consolata e segretario della Federazione Stampa Missionaria Italiana
Avvenire