Dipingere icone svelando il Cristo che hai nel cuore

Fratel Paolo con le icone dei suoi allievi per la benedizione di fine corso

Un monastero fra le montagne diventa per sua natura un punto di riferimento. La gente che cerca Dio è sempre “salita” per poterlo incontrare; al santuario, alla chiesina fra i boschi, al romitaggio del monaco, al luogo ameno dove poter pregare. Ma oggi c’è qualcosa di diverso e la differenza è nel fatto che le persone non sanno bene quel che cercare e su quale strada cercarlo. Fratel Paolo Mezzo è un cistercense dal piglio volitivo e dal sorriso contagioso. Con la sua folta comunità vive fra le montagne del Piemonte nel monastero di Pra ’d Mill, dove lo incontriamo. «Qui, nonostante sia un luogo un po’ fuori mano, la gente arriva numerosa. Tanti vengono per le liturgie e spesso sono intere famiglie. C’è poi un numero consistente che chiede di parlare con noi monaci: sentono il bisogno di qualcuno che nello smarrimento generalizzato indichi il cammino. Cercano dei compagni di strada».

Fra Paolo è nato nel 1961 e da quando aveva poco più che vent’anni la sua chiamata monacale è cresciuta di pari passo con la pittura delle icone. Perfezionatosi alla scuola russa del maestro Vincent Minet, dal 2002 a Pra ’d Mill guida la scuola di spiritualità iconografica contemporanea Sant’Andrea Rublev, che prevede un vero e proprio percorso accademico in sei tappe. Come tutti gli altri monaci, poi, è impegnato nell’attività di accoglienza, anche se, spiega, «le icone accolgono. Prima ti attraggono e tu le guardi, poi è il loro sguardo che ti guarda e ti accoglie».

Perché le persone giungono fin qui alla ricerca di compagni di strada?

Uno dei guai di oggi è che mancano i padri spirituali, persone che sappiano indicare la via. È facile avere un po’ di sete di Dio: se uno scava un po’ dentro se stesso quella sete la trova. Ma poi è difficile trovare qualcuno che ti dica come arrivare alla profondità del cuore. I giovani non vogliono più essere indottrinati, ma hanno bisogno di avere qualcuno che gli indichi il cammino come un amico non come un insegnante. Se vuoi evangelizzare, oggi è questo che serve. Arrivano al monastero, parlano con noi e piano piano emerge questo desiderio. Noi ci troviamo così a doverci occupare di questa umanità, una cosa che scardina un po’ i nostri schemi. Come in altre epoche della storia noi monaci siamo chiamati a ‘lasciare Dio in clausura per andare da Dio fuori’: lasciamo il resto per incontrare e accompagnare chi bussa alla porta…

C’è anche chi arriva da altre religioni?

Sì. Soprattutto religioni orientali o da percorsi spirituali orientaleggianti. E lì bisogna avere molto rispetto e attenzione. Ho un allievo che viene dall’induismo ed è maestro di yoga. Lui è molto attento, ma anche io lo devo essere per restare nel cammino con lui. Del resto Gesù ha detto io sono la via la verità e la vita, ma io che sono suo discepolo cerco di fare verità in me, non sono la verità, sono in cammino e quindi sono fratello di chi ha un’altra verità. Il volersi imporre ha rovinato la Chiesa per secoli. La gente ha ragione se ce lo rimprovera. Oggi non funziona e non deve più funzionare. San Francesco ha avuto il coraggio di andare come inerme e povero per parlare di fede e di amore al sultano…

E i giovani?

I giovani trovano difficoltà a capire la loro vocazione. Cercano segni, ma è davvero difficile trovare chi ti aiuti a discernere quali sono i segni di Dio. Serve un accompagnamento individuale perché, ed è un’altra cosa tipica di questo momento, le persone chiedono di essere aiutate individualmente, non collettivamente. E noi non dobbiamo avere paura di essere pochi. Perché la chiesa è iniziata con dodici pescatori, che erano anche ignoranti e quello è il modello. La cultura a volte inorgoglisce. Nel cristianesimo avere pochi mezzi culturali rende tante volte più facile avere un contatto immediato con Dio, senza veli. Per quello che si è. E se non abbiamo maschere con Dio ancora meno ne avremo con gli altri.

Prima parlava di cammino e di compagni di strada. Le icone come si collocano in questa logica?

Certamente sono un cammino, un cammino esigente. Se preghi davanti a un’icona e la preghiera si fa intensa, ti rendi conto che non sei tu che guardi l’ico- na ma è l’icona che guarda te. Tutto il resto è solo in funzione dello sguardo. Quegli occhi sono gli occhi stessi di Dio e questo ti fa fare un cammino spirituale e a un certo punto ti fa scoprire che l’icona sei tu. Che il Cristo sei tu. Che se Dio si è fatto carne è perché la carne che siamo noi diventi Dio.

E il cammino di chi impara a fare icone?

Un corso di iconografia non è un corso di ceramica o di acquerello, non è un corso in cui si imparano delle tecniche. Le persone interessate solo alla tecnica dopo un po’ non vengono più perché loro stesse si rendono conto che se non si fa un cammino di conversione l’icona non acquista la sua pienezza, si possono fare immagini che però non sono icone. È proprio la tecnica iconografica formatasi nei secoli che porta a questo, perché l’icona è fatta nella preghiera per la preghiera; è fatta in funzione della liturgia perché appartiene alla Chiesa non a me che la dipingo: è questa la ragione per cui le icone non si dovrebbero firmare. Tutto ciò richiede un superamento dell’egoismo, dei propri capricci, del ripiegamento su se stessi. Ci sono regole, canoni che fanno sì che un’icona non si possa dipingere come tu vorresti, devi obbedire a leggi che sono della Chiesa. Quindi o entri in questo cammino che è anche di umiltà e obbedienza oppure non lo fai. L’icona chiede umiltà che è la virtù essenziale di chi si avvicina a Dio.

Questo capita a tutti?

Tutti i miei corsi iniziano con la realizzazione di un’icona che rappresenta il volto di Cristo. Agli allievi suggerisco due passaggi del Vangelo: Gv 12, 20-23 con la richiesta di alcuni greci all’apostolo Filippo: «Vogliamo vedere Gesù»; Lc 9, 7-9 in cui Erode «cercava di vedere Gesù ». Quindi ricordo di stare attenti al nostro desiderio di vedere Gesù perché può essere un’esigenza di fede, ma anche un desiderio curioso, sarcastico o cinico. L’esperienza che si fa è che alla fine del percorso, pur partendo dallo stesso soggetto e dagli stessi strumenti, ogni volto di Gesù realizzato è diverso. Il Cristo che dipingi è quello che porti dentro, quello che stai cercando, quello a cui desideri credere. È la dimostrazione che l’icona non è un quadro. La copi, ma se la fai nella preghiera quell’icona non sarà mai uguale alla matrice. Dipingi il volto di Cristo ed emergono tutte le paure e i desideri che abbiamo di Lui, anche le false immagini, i preconcetti. Alla fine, però, dipingere l’icona porta a lasciarsi amare da Dio perché quello sguardo è lo sguardo della sua misericordia.

E quel suo allievo di religione orientale?

Ha fatto due icone del volto di Cristo. Al- l’inizio con fatica. Il suo è stato un cammino dal panteismo alla concretezza del Volto di Dio. Era difficile per lui concepire un Dio trascendente alla creazione. E poi era stato marxista. Ne abbiamo parlato molto. Ha fatto persino un viaggio in Russia andando nei monasteri, ha letto il Pellegrino russo. Oggi c’è tanta gente che fa cammini complessi di questo tipo. Bisogna saper cogliere il filo rosso che li conduce. Lui è approdato qui perché, mi ha detto, forse sentiva il bisogno di un volto concreto. E il Volto di Cristo gli consente di poter dire che Dio non è astratto e lontano, in tutte le cose ma in fondo inarrivabile. Poi, come tutti, anche lui è in cammino.

Perché le persone sentono questo desiderio del Volto?

Il salmo 33 al versetto 6 dice: «Guardate a lui e sarete raggianti». Nel mondo di oggi è un invito essenziale. Il Volto di Dio se cercato per quello che è davvero, cioè pura misericordia, ti dà leggerezza nella vita, libera dal pessimismo, dagli orizzonti ristretti e ansiogeni: consente di andare oltre i tuoi limiti. Se hai il coraggio di lasciarti guardare dal Dio misericordioso la tua vita cambia si trasforma in speranza anche di fronte a ciò che sembra impossibile, facendoti trovare soluzioni là dove sembra che non ce ne siano.

E fratel Paolo?

A me fa bene pensare al suo Volto di onnipotenza per il quale anche nelle situazioni più brutte sappiamo che Lui sa come volgerle in bene; ma anche pensare che Lui davanti al male sembra impotente, invece lo assume fino in fondo per farne sorgere qualcosa di bello. E poi penso che non bisognerebbe tanto chiamarlo l’Altissimo ma il Bassissimo nel senso che se si è fatto l’ultimo di tutti gli uomini, come diceva Charles de Foucauld non c’è uomo che abbia una condizione talmente bassa che Dio non sia ancora più basso di lui. E questo fa sì che ci siano missionari capaci di portare speranza nelle situazioni più difficili. Ma è anche un Volto che dà fastidio, perché implica che anch’io divenga capace di abbassarmi e non restare sul mio piedistallo.

Il difficile cammino verso l’umiltà…

Nel cammino che si fa con le icone è importante capire che siamo immagine di Dio e che il Volto ci invita ad andare verso la somiglianza. Siamo immagine come creature libere fatte per la relazione e andiamo verso la somiglianza che è diventare figli nel Figlio. Un cammino di preghiera in cui bisogna puntare sulla purezza del cuore, che non significa essere senza peccati, ma è il chiedere in dono di poter vedere e riconoscere la bellezza spirituale in tutta la realtà che ci circonda e questo è il discernimento.

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5. Continua

«L’iconografia invita a un cammino spirituale: attraverso l’immagine ti muovi verso la somiglianza con Dio. Il Volto che dipingi è ciò che già porti dentro, ma col suo sguardo di misericordia ti invita a lasciarti amare». A colloquio col maestro iconografo fratel Paolo, cistercense nel monastero di Pra ’d Mill

Pregare con le icone

Icona e preghiera

È già stato notato da tempo che uno dei mezzi privilegiati della nuova evangelizzazione e della catechesi sarà quello dei prodotti artistici, in tutte le loro varianti, moderna Biblia pauperum.

L’autore di questo testo, laico sposato e membro dal 1980 del Cammino neocatecumenale, percorre l’Italia predicando esercizi spirituali commentando alcune icone. Nell’icona è presente la Parola incarnata nella bellezza ed “entrare” in essa significa trovare la luce che la genera dall’interno.

Dopo una breve introduzione sul significato spirituale delle icone, Vaccarella traccia l’itinerario di ogni seduta degli esercizi spirituali da lui proposti. Dopo la preghiera iniziale, segue una breve presentazione storica generale dell’icona da contemplare e l’ascolto della Parola, dal momento che l’icona è strettamente legata alla sacra Scrittura. La meditazione che segue si sofferma sui vari particolari dell’icona, facendone emergere i significati teologici sottesi.

Nella successiva contemplazione, l’esercitante sosta su qualche particolare che l’ha colpito, chiedendo allo Spirito di essere introdotto nella luce dell’icona e di poter vedere i misteri come li vedono il Signore, Maria e i santi, per poi riuscire a viverli nella pratica. Una preghiera interrompe il silenzio. Ad essa seguiranno circa 30 minuti di riflessione personale, che viene aiutata da varie domande predisposte dal predicatore.

Le risonanze personali esposte con libertà e semplicità in gruppo avviano alla conclusione della sessione, costituita dalla preghiera conclusiva proposta (spesso un breve brano patristico), dalla benedizione finale e da un canto.

Nel volume sono illustrate 18 icone, presentate nell’ordine in cui viene celebrato il loro mistero nel corso dell’anno liturgico. Dalla Madre di Dio della Tenerezza si passa all’icona della Natività, della Teofania nel Battesimo di Gesù a quella della Presentazione del Signore al tempio e a quella dell’Annunciazione.

Segue l’illustrazione delle altre icone: Risurrezione di Lazzaro, Ingresso di Gesù in Gerusalemme, Ultima Cena, Crocifissione, Discesa agli inferi, Le donne mirofore al sepolcro del Signore, L’Ascensione, la discesa dello Spirito Santo, la Santa Trinità, la Natività di Giovanni Battista, la Trasfigurazione e, infine, l’icona del Salvatore tra le potenze.

Nelle tavole che chiudono il volume vengono riportate le fotografie degli originali delle icone russe analizzate e pregate nel testo.

Un corso di esercizi spirituali originale e valido, esito di una lunga pratica che si è trovata evidentemente efficace.

Angelo Vaccarella, Icona e preghiera. Esercizi spirituali con la Parola dipinta(Bibbia e catechesi – Nuova serie s.n.), EDB, Bologna 2018, pp. 182 + 17 tavv.9788810107133

settimananews

In mostra cinquanta icone copte e oggetti della tradizione religiosa d’Egitto

Un esempio di icona copta (immagine d'archivio)

Un esempio di icona copta (immagine d’archivio)

Cinquanta icone sacre e una trentina di altri oggetti provenienti dalla tradizione religiosa cristiano copta d’Egitto: è questo il tesoro che arriva in mostra a Viterbo grazie alla collaborazione fra Curia di Viterbo, Fondazione Caffeina Cultura, Fondazione Cultura e Arte e Fondazione S.I.B. Italiana di Beneficenza – Fondazione Benedetti, l’ente che porta il cognome del fondatore dell’ospedale italiano al Cairo. L’esposizione aprirà i battenti domani, domenica 24 giugno, alla presenza della ministra della cultura egiziana Ines Abdel-Dayem, dell’ambasciatore d’Egitto in Italia Hisham Mohamed Badr, del sottosegretario alla Cultura del governo italianoLucia Bergonzoni, del vescovo di Viterbo monsignor Lino Fumagalli di ritorno dal pellegrinaggio che la diocesi del capoluogo della Tuscia sta conducendo nelle terre del Sinai, sulle orme della Sacra Famiglia, a cementare un rapporto fra Italia ed Egitto sempre più stretto.

Pellegrinaggio in cui, ha dichiarato il vicario generale della diocesi di Viterbo don Luigi Fabbri, «per la prima volta nella storia un
vescovo cattolico ha potuto celebrare una messa di rito cattolico all’interno di un monastero ortodosso, alla presenza dei monaci stessi. Un momento di grande importanza nel dialogo interreligioso». Quanto alla mostra, il vicario generale ne ha sottolineato il rilevante valore sacrale e liturgico: «Attraverso l’icona il credente è nelle condizioni di avere la concretezza di una presenza altra: Dio, i santi, la Madonna. Parliamo di un veicolo della fede molto potente, al centro delle riflessioni del mondo cristiano fin dai tempi della questione iconoclastica».

«Siamo onorati, come fondazione Caffeina Cultura, di fare la nostra parte per favorire e rinsaldare il dialogo ecumenico e l’unità dei
cristiani», il commento invece Giacomo Barelli a nome della Fondazione Caffeina Cultura, co-promotrice della mostra: «Parliamo di un tema cruciale per la nostra epoca, oltre che al centro dei pensieri del pontificato di Papa Francesco. In particolare la relazione con i paesi del Vicino Oriente come l’Egitto è sempre più cruciale e fra le priorità del governo appena insediatosi».

Fondazione Caffeina Cultura si augura infatti che i giorni del festival, della mostra delle icone e della mostra dei tesori di Tutankhamon possano essere soprattutto un’occasione di dialogo, di scambio e di amicizia fra confessioni religiose, popoli e paesi del Mediterraneo, visto che accanto agli elementi dell’arte sacra cristiana troveranno spazio nell’esposizione anche 17 pezzi iconografici di arte islamica a testimoniare lo spirito integralmente ecumenico della proposta.

da Avvenire

Athos l’ultima repubblica monastica

L’arte, specialmente l’icona e il canto, sono l’alleanza di rigore e bellezza, ascesi e sontuosità: così, imperturbabili, i padri continuano a prepararsi alla fine del mondo. Cantano e dipingono nella forma della «parusia» del Regno di Dio, sempre da venire e tuttavia fin d’ora presente testo

di Jean-François Colosimo – foto di Manolo Mylonas

Athos Tatàm, tatàm, tatatatàm…. Nella notte fonda il martelletto picchia, rimbalza sul legno della simandra. È così, dice la tradizione, che Noè convocò gli animali nell’arca. È così, prescrive la regola, che i frati sono chiamati a riunirsi in chiesa. Con le prime luci dell’alba si leveranno gli inni di celebrazione. Ma ora a rompere l’oscurità sono solo lo sciabordio delle onde e la ronda silenziosa dei monaci che prende a prestito dagli angeli la loro geometria sacra. I padri, a capo coperto, mantello svolazzante e rosario in mano, vengono a inchinarsi davanti alle icone, che l’oscillare delle lampade a olio sembra animare. Volute d’incenso, aeree salmodie. Alla clessidra mistica del deserto sono le otto, le tre all’orologio meccanico del mondo. Ovunque, altrove, si dorme. L’Athos veglia e prega che, alla fine, sorga nell’uomo il sole che non tramonta. Il mondo l’ho abbandonato dietro di me, lasciando Uranopoli, la ‘città del cielo’, il posto di frontiera dove malinconicamente va a finire la Grecia moderna. Davanti riempie l’orizzonte il blu insondabile, cobalto del mare o azzurro del cielo. Più lontano il profilo di un’isola, o quasi, Aghion Oros , la ‘Santa Montagna’. L’ultima repubblica monastica occupa una penisola della Calcidica, sulla strada fra Salonicco e Istanbul. L’Egeo le fa da baluardo. Si arriva solo dal mare, muniti di un lasciapassare dal nome bizantino, timbrato con sigilli medievali. E sfilano rapidi, in dolce litania, Dochiariou, Xenophontos, San Panteleimon, i primi grandi monasteri sulla costa, ieratici. Nell’attesa di Dafni, con il suo vortice caotico di tonache, clacson e bagagli.

L’Athos è una terra di contraddizioni. Un Oriente, ma confitto nel cuore dell’Europa. Una teocrazia, ma che fiuta l’anarchia. Un luogo di santificazione, dove la santità si nasconde. Mille anni dopo la sua fondazione, il ‘giardino della Madre di Dio’ resta vietato alle donne. E i pellegrini che sognano miracoli ripartono ingozzati di lokum da appartati asceti. Perché le vere frontiere dell’Athos sono immateriali. Si chiamano umiltà, follia. E poi dogma, ortodossia. L’ospitalità del cuore qui è pari solo all’intransigenza della fede. Dove andare? A nord, a Chilandari il serbo, devastato dalle fiamme come le chiese del Kosovo? Al centro, a Zografou il bulgaro, quasi addormentato nel cuore della foresta? A est, a Stavronikita, in riva al mare, dove si trova l’icona di san Nicola dalla conchiglia, arenatasi sulla sabbia? A ovest, allo skita di Sant’Anna, più imponente e turbolento di certi conventi? A sud, alla Grande Laura, come una magnifica città, dove tutto è cominciato? O a Karulia, a picco delle falesie che danno riparo ad anonimi reclusi? Ci sono tanti Athos quanti atoniti, oggi quasi duemila, ma il pellegrinaggio si compie solo nell’incontro. Salto su un caicco, destinazione gli skita e gli eremi del sud, rifugio di cantori e di iconografi. Vertiginosa contemplazione. Visti dal basso, dal sentiero lastricato che faticosamente serpeggia attraverso bosco ceduo e arbusti, quei rifugi sembrano spuntare dalla roccia, sfuggire alla pesantezza, giocare ai venti per partire all’assalto del cielo, come fari spirituali.

Calore. Sudore. Poi, all’ombra dei muri, il rito del caffè, alla turca e corretto col raki. Più che conservarli, l’ascesi trasfigura gli atoniti. Li rende somiglianti a quelle immagini senza tempo degli apostoli, dei martiri, dei padri del deserto che ornano gli affreschi, e che sono chiamate a ripetersi di generazione in generazione. Gli skita sono gruppi di una dozzina di monaci riuniti attorno a un maestro detto ‘l’Anziano’, gerondas in greco, starec in russo. Adempiendo l’obbligo di un lavoro rigoroso per temperare i fervori contemplativi, alcuni monaci hanno scelto l’arte sacra, specialmente l’icona e il canto. Stupefacente spettacolo di alleanza tra rigore e bellezza, ascesi e sontuosità. L’Athos, testamento vivente della spiritualità ortodossa, fa parte dell’eredità di Bisanzio, dei suoi tesori e dei suoi splendori. Iscritto nel Patrimonio dell’Umanità, museo che conserva oltre cinquantamila icone rare e dodicimila manoscritti antichi, la Santa Montagna, scuola di preghiera, vuole essere anche una scuola di estetica sacra. Assieme all’icona, teologia a colori, è tutta la civiltà del cristianesimo orientale a materializzarsi. Per Costantinopoli, seconda Roma, l’arte è stata una catechesi di bellezza inscindibile dal sogno politico di una società santificata.

La cultura scaturisce dal culto e la città, anche quella monastica, dal tempio. Immagine del cosmo restaurato, anticipo del paradiso, essa è il luogo dove l’umanità si rende permeabile alla luce della divinità. Il mondo, in essa, è trasfigurato. La pittura sacra riassume le gesta della salvezza, il passaggio dalla creazione alla redenzione, dalla caduta alla grazia. Ma lo stesso vale per il canto, monodico, condotto all’unisono, detto ‘asmatico’, legato al soffio, altro nome dello Spirito Santo, il Paraclito che libera. La tradizione, che vuol dire trasmissione, si apprende dunque nella sottomissione alle forme ereditate dove, ciascuno, in un percorso a ritroso dall’individuo atomizzato, si scopre persona in comunione, dotata di un autentico nome proprio, non cedibile. «Da’ il tuo sangue per ricevere l’Eterno». Guardo questi giovani monaci intenti ai tratteggi e alle pennellate, ai segni musicali. Come Maria, la sorella di Marta, hanno la parte migliore, quella contemplativa. Non li invidio, mi rallegro della loro esistenza. Imperturbabili, i padri dell’Athos continuano a prepararsi alla fine del mondo. Cantano e dipingono nella forma della parusia . Quella del Regno di Dio, sempre da venire, e tuttavia fin d’ora presente. (traduzione di Anna Maria Brogi) – avvenire.it 15 agosto 2010