Le «Sette Parole» ritrovate di Pergolesi

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Al di là del giallo musicologico che riguarda l’attribuzione a Giovanni Battista Pergolesi dell’oratorio Septem verba a Christo in cruce moriente proloata, c’è comunque una verità inconfutabile; le questioni legate alla paternità della composizione vanno disgiunte da quelle relative alla qualità (elevata) della sua musica.
Scritte con ogni probabilità tra il 1730 e il 1736 (anno di morte del maestro di Iesi), le Sette ultime Parole di Cristo sono tornate alla luce dopo il ritrovamento di alcuni manoscritti settecenteschi archiviati come opera del «Sig. Pergolese»; a bruciare tutti sul tempo e a firmare la prima esecuzione in tempi moderni della partitura è arrivato René Jacobs, che a capo dell’Akademie für Alte Musik di Berlino e di un valente quartetto di cantanti solisti ne ha realizzato anche la prima registrazione assoluta.
Non ci aspetti comunque di ritrovare l’impronta stilistica o la sublime intensità espressiva che marchia a fuoco lo Stabat Mater, il capolavoro con cui Pergolesi si era già presentato al cospetto della Croce del Redentore. Grazie anche all’aura austera conferita dall’intonazione gregoriana delle Parole evangeliche, il clima artistico e spirituale di questo ciclo di sette cantate è infatti maggiormente severo e meditativo, regolato da una grammatica del dolore meno incline alle leggi della retorica drammatica e più vicina a una dimensione morale e apologetica.

Akademie für Alte Musik / R. Jacobs
PERGOLESI
Septem Verba a Christo
Harmonia Mundi / Ducale

Libri / Quaresima: in cammino verso la Pasqua

Schmemann Alexander – Quaresima: in cammino verso la Pasqua – sconto 15% solo online >>>

Possiamo oggi riscoprire la quaresima, farne di nuovo una forza spirituale nella realtà della nostra esistenza? È ciò che si propone questo commento alla quaresima ortodossa, divenuto ormai un classico della spiritualità. L’autore si rivolge a qualsiasi cristiano che aspiri a una più profonda comprensione della tradizione liturgica della chiesa e a una partecipazione più cosciente alla sua vita. Ogni anno, la quaresima si offre a noi quale scuola di pentimento e conversione, quale occasione per approfondire la propria fede e riconsiderare la propria vita, fino a cambiarla, nonché come vero e proprio pellegrinaggio alle sorgenti stesse della fede. (Prefazione di Enzo Lodi)

Quaresima: in cammino verso la Pasqua Titolo Quaresima: in cammino verso la Pasqua
Autore Schmemann Alexander
Prezzo
Sconto 15%
€ 10,62
(Prezzo di copertina € 12,50 Risparmio € 1,88)
Dati 2010, 176 p.

Cultura: frammenti sparsi di una spiritualità al femminile

di ROBERTO CARNERO

Laura Bosio

Laura Bosio è nata a Vercelli nel 1953. Appassionata di musica e teatro, si è affermata come scrittrice nel 1993 con il romanzo I dimenticati. Vive da alcuni anni a Milano (Foto di M. BAZZI/ANSA).

«La spiritualità, e forse, in particolare, quella delle donne, non è sentimentalismo; al contrario, è desiderio di superare, fino a estinguerle, le vicissitudini delle sensazioni e dei sentimenti». Così Laura Bosio sintetizza uno degli aspetti fondanti di una spiritualità al femminile. Tema che indaga nel suo recente volume D’amore e di ragione. Donne e spiritualità (Laterza, pp. 100, H 10), attraverso la lettura e il commento di pagine di filosofe, poetesse, mistiche e scrittrici, dall’antichità a oggi. Laura Bosio ha esordito nella narrativa con I dimenticati (Feltrinelli, 1993, Premio Bagutta Opera prima), seguito da Annunciazione (Mondadori, 1997; nuova edizione Longanesi, 2008), Le ali ai piedi (Mondadori, 2002), Teresina. Storie di un’anima (Mondadori, 2004), Le stagioni dell’acqua (Longanesi, 2007, finalista Premio Strega) e Le notti sembravano di luna (Longanesi, 2011).

D'amore e di ragione. Donne e spiritualità indaga in profondità la spiritualità delle donne

D’amore e di ragione. Donne e spiritualità indaga in profondità la spiritualità delle donne.

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Laura Bosio, com’è nata l’idea di questo libro?

«Il libro prosegue, ampliandola, una ricerca cominciata nel 1999 con il volume antologico La ricerca dell’impossibile, pubblicato da Oscar Mondadori, su un’idea di Ferruccio Parazzoli, e poi continuata in un intervento al Festival della mente di Sarzana nel 2010. L’intento è quello di raccogliere voci di una spiritualità femminile che non rinvia necessariamente a un credo religioso: frammenti di lettere, autobiografie, trattati, romanzi, poesie, dialoghi, accostati liberamente in una trama di associazioni che trovano punti di contatto inattesi. Mi è piaciuto immaginare che queste voci siano riunite in un “museo”, dove alle pareti non compaiono dipinti ma parole, e ogni voce risuona con la vicina e con quelle delle altre stanze… Voci limpide e concrete di donne come Saffo o Eloisa, Chiara d’Assisi o Ildegarda di Bingen, Jane Austen o Marina Cvetaeva, Juana de la Cruz o Elsa Morante, la sufi Rabi’a o la tibetana Ma gcig. I loro testi sono di per sé importanti, sul piano del linguaggio, dell’invenzione, del pensiero».

Esiste uno specifico femminile in ambito spirituale?

«Spiritualità è un termine ampio. Per circoscrivere il campo e restare a come l’ho inteso in questo libro, lo definirei respiro interiore, spazio dove l’io arriva ad aprirsi. Non credo che esista uno specifico femminile in ambito spirituale, visto che tutti, uomini e donne, siamo fatti dello stesso strano impasto. Sono uomini i primi grandi esseri spirituali della storia che ci è arrivata. Certo, una storia dove le donne non avevano molta voce in capitolo. Verso l’interiorità delle donne si è sempre avuto un qualche rispetto, purché rimanesse nei confini di quel corpo dove la società le aveva segregate, esiliate dentro sé stesse. Ma proprio lì, in quell’interiorità e in quel corpo che la necessità di sopravvivere ha reso plurale, c’era altro da scoprire, e c’è ancora. Dentro e oltre, due parole della spiritualità, sono parole delle donne: dentro come accoglienza e oltre come disponibilità a gettarsi oltre ogni orizzonte. Le ricerche interiori, spirituali, non hanno ricadute soltanto personali, ma sociali, niente affatto intimistiche. Elémire Zolla, controcorrente, diceva che gli esseri spirituali sono candidati a diventare “eroi del nostro tempo”, duttili, leggeri, disposti a spostarsi in altri livelli di esistenza. Né uomini né donne, più di quanto siano bianchi o neri, eterosessuali o omosessuali, vecchi o giovani».

Lei pone una differenza tra spiritualità e religione, nel senso che la prima dimensione non necessariamente trova risposta nella seconda. Vuole spiegare meglio?

«A me pare che le Chiese, le istituzioni, con i loro dogmatismi, le loro sordità, gli arroccamenti in difesa di tradizioni o privilegi indifendibili, sono spesso il contrario della spiritualità, di quello spazio interiore di cui si diceva: di quel respiro che ci sottrae all’asfissia e permette che l’incontro con l’altro, o l’Altro, diventi un’occasione che dà senso al nostro vivere. Prendiamo un’esperienza radicale come quella mistica. Le Chiese, pur accogliendola nella loro tradizione più alta, si sono sempre mostrate caute: il rapporto tra dogmatica e mistica è stato teso e sofferto, e in molti casi ha prevalso la reciproca incomprensione. Chi cerca il divino secondo il modo della libertà mal sopporta i limiti di un’ortodossia rigida e capziosa. Gli stessi santi hanno seguito vie diverse, tutte impervie. Alcuni si sono fatti idioti e hanno abbracciato la strada della controcultura; altri si sono fatti maleducati, per manifestare la loro avversione al potere; altri bambini, sbeffeggiatori della gravità e del decoro; altri ancora, acrobati, giullari. Prendo a prestito parole di Rabi’a, vissuta nell’Iraq dell’VIII secolo in totale povertà, dispensatrice di sapienza ai grandi del suo tempo, considerata la madre del sufismo, la linea mistica più illuminata dell’islam: “Rendi il tuo cuore vigile”, si legge nei Detti. “Se sarà vigile, vedrai con gli occhi del cuore il cammino, e ti sarà facile raggiungere la dimora”. Aggiungo due versi di Else Lasker-Schüler, berlinese, ebrea, morta a Gerusalemme nel 1945, autrice di opere messe al rogo dai nazisti: “Vogliamo conciliarci la notte / se ci abbracciamo non moriamo”».

«Il rapporto tra dogmatica e mistica è stato teso e sofferto, e in molti casi ha prevalso la reciproca incomprensione. Chi cerca il divino secondo il modo della libertà mal sopporta i limiti di un'ortodossia rigida e capziosa»

«Il rapporto tra dogmatica e mistica è stato teso e sofferto, e in molti casi ha prevalso la reciproca incomprensione. Chi cerca il divino secondo il modo della libertà mal sopporta i limiti di un’ortodossia rigida e capziosa» (Foto di M. MAGLIANI/ARCHIVI ALINARI).

Come ha affrontato personalmente il problema della fede?

«Proprio su Jesus, qualche anno fa, era uscita una “Lettera al mio Dio” di alcuni scrittori. In quella che avevo immaginato, mi ponevo queste domande. Mi chiedevo: chi è il non credente? E rispondevo: è un uomo che non crede a un’immagine. Chi è il credente? È un uomo che si rivolge a un “tu”. Concludevo riconoscendo che io mi sentivo entrambi. Ecco, è così che mi sento ancora. Parlo al Dio della religione che ci ospita: a quella parte di Dio che è scesa e si è incarnata. A un “tu” che non è onnipotente, ma conosce il male e lotta insieme a me, o almeno con quella parte di me che si apre faticosamente al rapporto con gli altri, contro la sofferenza sterile. E lo sento indulgente verso il piacere che ci libera temporaneamente dall’angoscia. Se il “regno dell’amore” verrà, sarà forse grazie a quell’abbassamento, che eliminando la distanza ci consente di amare, e non di odiare, come a volte si sarebbe tentati, il mondo e noi stessi. E che mi porta a non inseguire salvezze in misteriose anime universali o in astratte armonie cosmiche, ma qui, sulla terra, luogo della crudeltà e dell’idiozia, ma anche della bellezza e del silenzio. È certo che la dimensione verticale, verso l’alto e verso il basso, è entrata nel mio orizzonte».

Una figura di cui parla è quella di Teresa d’Avila. Che cosa l’affascina di lei?

«È un’esperienza seguirla nella sua vita, nella Spagna dorata e insanguinata del Cinquecento dove è vissuta, ha combattuto, ha costruito. E scoprire nella sua scrittura e nella sua estasi amorosa, scolpita per sempre da Bernini (foto in alto a sinistra, ndr), una rivoluzionaria coscienza di sé. È come se la “guerriera di Avila” sfuggisse al suo mondo, alla sua epoca, e ci raggiungesse in questo terzo millennio. In vari passi del Castello interiore richiama all’autoeducazione necessaria per raggiungere il “cuore fermo”, la condizione che aiuta il pensiero nel suo lavoro più oneroso: cercare aperture di senso quando ogni misura del vivere sembra mancare, progettare ritmi e direzioni dell’esistere anche quando il disorientamento prevale e c’è il rischio di lasciarsi muovere in maniera cieca e sorda dall’esterno».

Un’altra Teresa che cita è Teresa di Lisieux. Ce ne vuole parlare?

«È stata un’autentica avventura per me incrociare la “piccola Teresa”, spinta di nuovo da Parazzoli. Avevo letto la Storia di un’anima, senza esserne particolarmente attirata: mi infastidivano i suoi diminutivi tardo-ottocenteschi, babbino, mammina, uccellino, fiorellino, li sentivo distanti, anche respingenti. Ma poi, sollecitata, ho provato a rileggerla senza filtri e il suo pensiero d’amore mi ha conquistata. I diminutivi si sono capovolti in accrescitivi, la patina ottocentesca è svanita, e mi è arrivata la sua forza, il suo coraggio, anche la sua bizzarria. La stessa priora del convento di Lisieux la trovava “un poco comica, un poco mistica”. Nel suo libro più eccentrico, e forse più provocatorio, Ortodossia, Chesterton mette a segno uno dei suoi paradossi. Durante la permanenza sulla terra, osserva, Gesù non ha mai nascosto né le lacrime né la collera: ha pianto con gli uomini, si è indignato per l’ingiustizia delle leggi, ha patito con loro e come loro. Però ha sempre coperto qualcosa. Qualcosa di troppo grande perché potesse mostrarcelo mentre camminava veloce in mezzo a noi: “La sua allegrezza”. È come se Teresina, mirando dritta al cuore dei Vangeli, quella allegrezza l’avesse trovata».

A un certo punto lei scrive che «lo humour è un tratto e una spia di ogni ricerca spirituale autentica». Perché?

«Per molti spiritualità e umorismo non vanno insieme, ma a me sembra che sia vero il contrario. Umorismo e umiltà, verso la quale tendono gli esseri spirituali, hanno una curiosa vicinanza, non solo di grafia e di suono. Entrambe le parole rimandano a un elemento acquoso e fertile, l’umorismo a umor, l’umidità, e l’umiltà a humus, la terra. Sembra quasi che lo humour sia il nome laico dell’umiltà. Il loro effetto è lo stesso: rovesciando la prospettiva, tutti e due impediscono di prendersi troppo sul serio».

Da quali altri personaggi femminili ha imparato in campo spirituale?

«Etty Hillesum, ad esempio, o María Zambrano, o Emily Dickinson, che ha scritto versi come questi, con un riso dolce e impertinente: “Che grande noia essere qualcuno! / Quanto volgare dire il tuo nome / per tutto giugno – come fa la rana – / a un pantano che ti ammira”».

jesus ottobre 2012

Stampa e potere

Forno Mauro – Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano / >>> scheda libro online

Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano Titolo Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano
Autore Forno Mauro
Prezzo
Sconto 15%
€ 18,70
(Prezzo di copertina € 22,00 Risparmio € 3,30)

Forno studia gli ultimi 150 anni di storia italiana, analizzando le maggiori questioni che hanno attraversato il giornalismo, stampa ed editoria, fino all’avvento della televisione e dell’informazione on-line.

Mauro Forno affida a Walter Lippman – giornalista statunitense, vincitore di due premi Pulitzer – la chiusura del suo ultimo volume Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano, edito a marzo di quest’anno da Laterza (pp. 298, euro 22,00).
«La qualità dell’informazione in una società moderna è un indice della sua organizzazione sociale», scrisse Lippman quasi un secolo fa, proseguendo: «Quanto migliori sono le istituzioni, tanto più facilmente gli interessi relativi sono formalmente rappresentati, tanto più questioni vengono dipanate, tanto più obiettivi sono i criteri adottati, tanto più perfettamente si può presentare come notizia una vicenda. Nella sua espressione migliore la stampa è serva e custode delle istituzioni; nella sua espressione peggiore è un mezzo mediante il quale alcuni sfruttano la disorganizzazione sociale ai propri fini particolari».
Che Forno, docente di storia del giornalismo e della comunicazione politica e storia dei media all’università di Torino, collaboratore di Vita Pastorale da svariati anni, citi Lippman in un momento di profonda trasformazione – a livello tecnologico, ma non solo – dell’universo mediatico, non appare un caso. Il giornalista americano non si piegò al sensazionalismo e ai gusti del “grande pubblico”, mantenendo sempre il distacco dell’osservatore.
Allo stesso modo, prendendo in esame gli ultimi centocinquant’anni di storia italiana, Forno analizza le maggiori questioni che hanno attraversato il giornalismo del nostro Paese, dall’era dei periodici d’informazione allo sviluppo dell’on-line, senza indulgere nel descrivere il rapporto tra potere politico, economico e finanziario e informazione, troppo spesso vittima della «malcelata aspirazione di entrare a far parte di quella oligarchia, in una logica di non alterazione – e anzi spesso di salvaguardia – dei rapporti di potere».
Per citare ancora Forno, infatti, «al di fuori di particolari fasi storiche o di casi molto specifici, quasi mai i giornalisti italiani sono riusciti a rivendicare concrete forme d’indipendenza o controllo sulle testate in cui lavoravano. E anche quando hanno ottenuto – sotto il fascismo – l’istituzione dell’albo (vale a dire di uno status di professionalizzazione e quindi di autonomia teoricamente elevato, al pari di quello di un medico o di un avvocato), hanno poi dovuto pagare il prezzo della perdita di qualsiasi pretesa d’indipendenza, ponendosi al servizio degli interessi politici del regime».
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Rosarno, 7 gennaio: immigrati alla manifestazione a un anno dalla rivolta del 2010.
Foto di (VITTORIANO RASTELLI / CORBIS)

C’è chi ha sostenuto – Elizabeth Eisenstein – che la nascita del capitalismo vada collegata a quella della stampa. È d’accordo, professor Forno?
«Si tratta di una tesi avanzata dalla studiosa americana in una ricerca pubblicata nel 1979 dal titolo The printing press as an agent of change. Eisenstein vi sosteneva che la storiografia tradizionale non aveva mai colto appieno la portata della scoperta di Gutenberg (la stampa a “caratteri mobili”), a cui si doveva un contributo essenziale nella diffusione del sapere e della conoscenza e nella promozione di un maggiore spirito critico rispetto allo stesso concetto di autorità. Insomma, semplificando molto il discorso, secondo Eisenstein gli editori del XVI e del XVII secolo – ben più, ad esempio, della Riforma protestante o della lotta di classe – avevano favorito la nascita del moderno capitalismo. Evidentemente anche quella della Eisenstein, come altre tesi, presenta aspetti persuasivi e punti di debolezza. Appare in ogni caso impossibile non rilevare la fortissima influenza esercitata dall’invenzione di Gutenberg sulla trasformazione di strumenti di analisi e riflessione come i libri – e, in prospettiva, i giornali – in beni accessibili a un pubblico straordinariamente più ampio».

L’Inghilterra come culla dell’informazione corretta, con i fatti separati dalle opinioni e la citazione delle fonti: era il XVII secolo e il governo inglese non rinnovò il Licensing Act, la censura preventiva, dando il via a un nuovo modo d’interpretare i rapporti tra stampa e potere. Come giudica si siano evoluti questi rapporti in Europa e in Italia, da quel momento fino a oggi?
«In Italia – ma anche in altri Paesi dell’Europa meridionale – la stampa “d’informazione”, così come l’intendiamo oggi, assunse sin dai suoi albori caratteri piuttosto particolari, legandosi molto di più, rispetto al mondo anglosassone, “al potere” e “ai poteri”. Si trattava del resto di Paesi spesso caratterizzati da una bassa percentuale di lettori (anche per l’elevato tasso di analfabetismo) e quindi da scarse prospettive di radicamento di una stampa veramente “popolare” (a tutto favore di una stampa di carattere prevalentemente “politico”, rivolta a un limitato pubblico di notabili).
Queste e altre circostanze resero – sin dalle origini – i giornali italiani dei soggetti economicamente assai poco redditizi. E sappiamo che proprio l’autonomia finanziaria rappresenta un presupposto indispensabile per garantirsi indipendenza dai governi o dai potenti di turno».

Rosarno, 7 gennaio: immigrati alla manifestazione a un anno dalla rivolta del 2010.

La prima “sfida” editoriale cattolica prese vita agli albori del ‘900 per opera del conte Giovanni Grosoli, uno dei fondatori del quotidiano L’Avvenire, il quale costituì un trust editoriale, non direttamente dipendente dalle gerarchie e in grado di competere con la grande stampa liberale del tempo. L’avventura non ebbe vita facile. Comesi è poi articolato l’impegno del giornalismo cattolico? E quale ruolo può ancora giocare in questo momento storico?
«Probabilmente la Chiesa di inizio secolo non era ancora pronta per sostenere sino in fondo un’impresa come quella di Grosoli. Il che non significa affatto negare la notevole fase di sviluppo avviata, proprio a partire da quel periodo, dalla stampa cattolica. Per giunta essa fu l’unica a sopravvivere – se pur con pesanti limitazioni – nel ventennio fascista, riuscendo poi a riproporsi – con ruoli nuovi e articolati – anche nel secondo dopoguerra. Più che l’esperienza dei giornali quotidiani, settore in cui, tutto sommato, la stampa cattolica non ha mai raccolto particolari fortune (se si esclude l’esperienza dell’Osservatore Romano, che peraltro a partire dal 1929 divenne un quotidiano “estero”), degna di particolare attenzione appare a mio giudizio la proposta cattolica nel campo dei periodici. Oltre al caso rilevante di Famiglia Cristiana, credo che a partire dal XX secolo un fenomeno d’indubbio rilievo sia stato rappresentato dai settimanali diocesani, attraverso cui le Chiese locali si sono dimostrate capaci di modellare il proprio messaggio attorno ai bisogni e alle esigenze dei singoli contesti territoriali».

Dai fondi segreti alle veline il fascismo in Italia fu un periodo buio anche per l’informazione. Quali influenze sono rintracciabili di quel periodo nel modo odierno di fare giornalismo nel nostro Paese?
«Nel passaggio dal fascismo al postfascismo si è nel complesso verificata – nell’ambito del controllo sull’informazione – una certa continuità di uomini e di metodi. Per fare un esempio, nell’Italia del dopoguerra la tradizione dei finanziamenti governativi ai giornali “amici” (che affondava le sue radici nella stessa storia pre e postunitaria) fu mantenuta. Anche gli esecutivi repubblicani continuarono insomma a finanziare le testate che meglio sembravano in grado di contrapporsi alla propaganda delle opposizioni. La tradizione italica di una certa stampa, formalmente di informazione ma di fatto funzionale ai governi di turno, non venne dunque sradicata nemmeno col passaggio dal fascismo alla democrazia, come del resto avvenne per molti istituti introdotti dal fascismo: a partire dall’albo dei giornalisti, dall’Istituto nazionale di previdenza, dall’Ente nazionale cellulosa e carta (costituito nel giugno 1935 per garantire un prezzo politico alla materia prima per la fabbricazione dei giornali)».

Quale ruolo ha svolto nel mondo dell’informazione l’affermazione dell’impero editoriale di Silvio Berlusconi? A suo avviso l’ex premier ha tratto vantaggio per la sua ascesa politica dai mezzi che ha avuto a disposizione?
«Oggi molti studiosi dei media tendono ad attribuire un notevole peso al potenziale “democratico” di nuovi strumenti, come ad esempio i blog e i social network, e alla loro capacità di ritagliarsi spazi anche “informativi”, riuscendo a bypassare l’influenza egemone di canali più ufficiali e tradizionali, come la televisione e i giornali. Sostanzialmente, anch’io tendo a collocarmi in questo fronte. Devo tuttavia dire che rimango sempre poco persuaso dalle analisi di chi tende a enfatizzare i presunti ridottissimi influssi oggi esercitabili sull’opinione pubblica dagli strumenti tradizionali. Per venire alla sua domanda, l’ascesa politica di un imprenditore come Silvio Berlusconi fu di certo agevolata dall’ampio ricorso al mezzo televisivo (al momento della sua “entrata in campo”, i nuovi media si trovavano del resto ancora in uno stadio molto basso di diffusione e lo sono ancora oggi tra larghe fette di popolazione) e non credo che la sua successiva perdita di consensi sia stata causata in misura significativa dalla sua potenza mediatica. Insomma, non penso – come invece sostengono altri – che l’eccesso di esposizione televisiva di un leader politico rappresenti oggi – in quanto tale – un “problema”, nel senso di provocare “perdita di consenso”. Resto convinto che a fare la differenza siano i contenuti espressi attraverso il mezzo televisivo. Se io fossi un uomo politico come Berlusconi, mi terrei ben strette le mie televisioni».

Quale sarà il destino della carta stampata? La rete la fagociterà oppure i due strumenti potranno camminare “appaiati”?
«Che l’editoria “classica” – i giornali stampati, nella fattispecie – sia in uno stato di grave crisi, mi pare un dato innegabile. Ma sarei cauto a profetizzare la definitiva scomparsa dell’informazione tradizionale a vantaggio di altre proposte, a partire da quelle on-line. Raramente un nuovo media (o un nuovo strumento informativo) ha saputo soppiantarne totalmente uno vecchio, mentre spesso si sono manifestati processi di adattamento di quest’ultimo alle nuove esigenze. Credo che quotidiani e periodici cambieranno, si adatteranno, ma non scompariranno. Forse – come talvolta avviene nei momenti di difficoltà – riusciranno persino a “migliorare”».

I criteri alla base dell’informazione mutano o restano i medesimi sia che si parli in tv, sulla carta oppure on-line?
«Le rapide innovazioni tecnologiche, a iniziare da quelle collegate allo sviluppo di Internet (capace di porre per la prima volta simultaneamente in collegamento i giornalisti di tutto il mondo, consentendo ai medesimi di condividere un unico patrimonio di informazioni) hanno indubbiamente prodotto una certa omogeneizzazione nell’impostazione del giornalismo, specie di quello proposto dalle nuove generazioni di professionisti. Nel contempo, i programmi televisivi e il materiale prodotto nella rete hanno ormai finito per influenzare profondamente i contenuti dei giornali, che da tempo hanno dovuto ripensare il proprio linguaggio e il proprio aspetto.
«Ritengo che l’informazione cartacea potrà ancora conservare un ruolo importante se si dimostrerà capace di distinguersi nell’analisi e nell’approfondimento. All’interno della pioggia ininterrotta di news proposte dalla rete (difficilmente valutabili e verificabili per un utente medio) la figura del bravo giornalista potrebbe insomma rivelarsi preziosa, soprattutto per consentire al pubblico di interpretare una realtà sempre più complessa e difficilmente riconducibile a un quadro coerente».

Tre giornali dell’editoria cattolica. In alto a sinistra: l’ascesa politica di un imprenditore come Berlusconi fu di certo agevolata dall’ampio ricorso al mezzo televisivo.

Maria Grazia Olivero / vita pastorale ottobre 2012