LA CORTE UE Google dovrà rimuovere le informazioni inesatte in Rete

Il diritto all’oblio in caso di notizie false o inesatte deve essere garantito dal motore di ricerca che ha l’obbligo di rimuovere il contenuto contestato, rendendolo invisibile tramite la deindicizzazione. Il richiedente ha il compito di dimostrare l’inesattezza del contenuto ma la prova dell’errore non deve essere legata ad una decisione giudiziaria ottenuta nei confronti dell’editore del sito.

La Corte di Giustizia dell’Unione europea è intervenuta chiarendo alcuni aspetti del diritto alla cancellazione su richiesta di due dirigenti che chiedevano a Google di deindicizzare alcuni articoli che presentavano in modo critico il modello di investimento della società di cui i due sono manager.

La Corte è intervenuta dopo che Google si era rifiutata di cancellare i testi contestati, sostenendo di non sapere se fossero esatti o meno. Il diritto alla protezione dei dati personali non è un diritto assoluto – ha precisato la Corte nella sentenza -, ma deve essere considerato in relazione alla sua funzione sociale e bilanciato con altri diritti fondamentali. Tuttavia il diritto alla libertà d’espressione e di informazione non può essere preso in considerazione se si rivela inesatta una parte delle informazioni incluse nel contenuto indicizzato. Spetta alla persona che chiede la deindicizzazione dimostrare l’inesattezza manifesta delle informazioni, ed è sempre il diretto interessato ad essere tenuto a fornire gli elementi di prova che può ragionevolmente ricercare, non è tenuto a produrre, fin dalla fase precontenziosa, una decisione giurisdizionale ottenuta contro l’editore del sito Internet in questione, fosse pure in forma di decisione adottata in sede di procedimento sommario. Per quanto riguarda, d’altro lato, gli obblighi e le responsabilità incombenti al gestore del motore di ricerca, la Corte considera che quest’ultimo, al fine di verificare, a seguito di una richiesta di deindicizzazione, se un contenuto possa continuare ad essere incluso nell’elenco dei risultati delle ricerche effettuate mediante il suo motore di ricerca, deve fondarsi sull’insieme dei diritti e degli interessi in gioco nonché su tutte le circostanze del caso di specie. Non può essere tenuto a svolgere un ruolo attivo ma è tenuto ad accogliere la domanda di deindicizzazione.

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Due importanti novità nella lotta alle fake news

Sul fatto che esista un grave problema di disinformazione, nel digitale e non solo lì, dovremmo essere tutti d’accordo. In questi anni abbiamo anche imparato che uno dei metodi più efficaci per combattere le fake news sia quello di affidarsi al cosiddetto debunking, cioè – come spiega il vocabolario Treccani – all’«opera di demistificazione e confutazione di notizie o affermazioni false o antiscientifiche». Se Elon Musk ha deciso che Twitter non contrasterà più la disinformazione, per fortuna Google e YouTube hanno annunciato di avere investito 13,2 milioni di dollari per sostenere l’International Fact-Checking Network (Ifcn). L’obiettivo è dare vita nel 2023 al Global Fact Check Fund, a cui attingeranno 135 organizzazioni che combattono la disinformazione in 65 Paesi. Per noi utenti, il Global Fact Check Fund sovvenzionato da Google nel 2023 porterà ad alcune novità. La più importante è che quando faremo una ricerca su Google «verranno evidenziati gli articoli di verifica inerenti alla ricerca dell’utente. Il tutto grazie allo strumento Fact Checker Explorer, che attinge da un database di 150mila fonti attendibili a livello globale». Lo stesso varrà per le ricerche su YouTube. La verifica dei fatti e la demistificazione sono armi importanti. E tutti coloro che lavorano in questa direzione sono da elogiare. Eppure, secondo un gruppo di ricercatori delle università di Cambridge e Bristol, «il debunking (cioè, la verifica dei fatti – ndr) presenta diversi problemi. Questi lavori di demistificazione infatti spesso non riescono a raggiungere le persone che hanno maggiori probabilità di credere alla disinformazione». Per non parlare del fatto che, anche quando le raggiungono, «molte persone li rifiutano, continuando a credere a non verità che però confermano i loro preconcetti». Colpa dei cosiddetti bias cognitivi e dell’effetto Dunning-Kruger (che è una distorsione cognitiva «nella quale individui poco esperti e poco competenti in un campo tendono a sovrastimare la propria preparazione giudicandola, a torto, superiore alla media»). E qui arriva uno studio inglese, firmato dallo stesso gruppo di ricercatori delle università di Cambridge e Bristol, il quale sostiene che si possano “vaccinare” le persone contro la disinformazione prima ancora che la incontrino. E che questo metodo dia ottimi risultati. Lo chiamano pre-bunking
(che potremmo tradurre con “preverifica dei fatti”). Ok, ma come funziona? Spiegano i ricercatori: «Nel nostro esperimento abbiamo inserito negli slot pubblicitari di YouTube, in collaborazione con la piattaforma, dei brevi video di novanta secondi per informare il pubblico sulle più comuni tecniche di manipolazione utilizzate per far passare notizie false o fuorvianti». I risultati, dicono, sono incoraggianti: «Dopo aver guardato questi video informativi, i 5 milioni di partecipanti all’esperimento hanno migliorato del 5% la loro capacità di identificare informazioni false». L’effetto positivo del pre-bunking «è stato registrato su persone con orientamenti politici e livelli di istruzione diversi».
Insomma, i ricercatori inglesi potrebbero davvero avere trovato un “vaccino” contro la disinformazione. La cosa importante è che questo passo avanti nel digitale nasce da qualcosa di molto antico. E cioè dalla capacità di prendersi cura delle persone, informandole
nella maniera più corretta su chi cerca di manipolarle. Tutto questo ci ricorda che, anche nel digitale, servono buoni educatori.

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Dalla parrocchia alla Rete per qualche spicciolo di click

Se Google non mente, sono state tre le fonti digitali che hanno riportato questa notizia. Il quotidiano online ‘PrimaMonza’ ( bit.ly/3bPncwa ), il 31 ottobre, l’ha intitolata «Niente monetine a Gesù ma offerte più adeguate: ‘bacchettati’ i fedeli», prendendo le parti di questi ultimi e ottenendo, sulla propria pagina Facebook, il consenso di una trentina di follower. Il sito del ‘Corriere di Milano’ ( bit.ly/2ZZxMP8 ), il 3 novembre, è rimasto più neutro: «Il bollettino del parroco: ‘Basta spiccioli per le offerte, fedeli siate più generosi’», dando poi, nel pezzo, la parola a don Sergio Steven, responsabile della Comunità pastorale interessata, quella di San Paolo a Giussano (Brianza). ‘Aleteia’, il 4 novembre ( bit.ly/2ZX72yJ ), si è spostato ancor più verso il sacerdote: «Offerte con banconote e non con monetine. Il parroco: sono stato frainteso», mentre sulla pagina Facebook gli utenti gli hanno comunque dato ragione. Il fatto all’origine della notizia è un riquadro di 9 righe alla pagina 3 del bollettino ‘Pietre vive’ della parrocchia, edizione del 17 ottobre ( bit.ly/3mSJYK9 ), mirato a valorizzare l’offertorio durante la Messa. Consultando i precedenti bollettini, si scopre che il riquadro in questione è un appuntamento fisso, intitolato ‘Pillole liturgiche’ e costruito ogni volta con lo stesso schema: introdotti da un «Ricordiamo…», si vuole evidenziare ciò che ciascun momento della Messa significa e che tendiamo, invece, a dimenticare. La ‘pillola’ di cui i tre siti hanno riferito, dunque, non poneva in assoluto il problema dell’entità dell’offerta ma quello del suo significato. Ricercando online il trinomio ‘offerte Chiesa monetine’ si scopre anche che in effetti un paio di sacerdoti, in passato, hanno criticato pubblicamente quella che evidentemente è una cattiva abitudine, con vari siti che non hanno perso l’occasione, anche in quei casi, per romanzarci sopra. Pur di guadagnare qualche spicciolo di click.

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On line. La nuova «App Cei»: notizie e approfondimenti su smartphone e tablet

La nuova «App Cei»: notizie e approfondimenti su smartphone e tablet

In occasione della Festa di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti e della stampa cattolica, è stata pubblicata la nuova App della Conferenza episcopale italiana: “App CEI“. L’applicazione è composta da sette sezioni con una navigazione aiutata da un’interfaccia semplice, funzionale per chi usa lo smartphone ma anche il tablet. L’App è caratterizzata da una grafica che non appesantisce la navigazione dell’utente e da una top bar stilizzata.

La prima delle sette sezioni è “CEInews” a cui l’utente approda una volta avviata l’app. Qui è possibile leggere le informazioni del portale www.ceinews.it on line da maggio 2018 con i rilanci ai media collegati alla Conferenza Episcopale Italiana (Avvenire, Agenzia Sir, Tv2000, inBlu Radio) grazie alle “card” a scorrimento orizzontale.

Nella sezione MyCei è possibile selezionare gli argomenti preferiti per leggere le ultime notizie grazie a canali tematici, come giovani o bioetica, oppure associazioni… La sezione “Chiesa Cattolica” attinge le notizie dal sito chiesacattolica.it. La sezione “Agenda” riprende i contenunti presenti sul sito chiesacattolica.it. In più la sezione offre la possibilità di navigare sugli appuntamenti della settimana, presentandoli sotto forma di timeline.

La sezione “Nomine” è caratterizzata dall’elenco di tutte le nomine dei vescovi, con riferimento al giorno e al luogo mentre la sezione “catalogo App” aggrega tutte le App della CEI con l’opportunità di accedere direttamente al relativo store. La sezione “impostazioni” offre all’utente la possibilità di personalizzare tipi di fonte e grandezza del testo, ma anche la luminosità dello schermo.

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