Un «andare» cristiano

di DONATELLA FERRARIO

Si intitola Un giorno devi andare l’ultimo film del regista Giorgio Diritti. Un’altra sofisticata pellicola che racconta il cammino interiore che una giovane donna, colpita da un enorme dolore, compie alla ricerca di sé stessa. Un «andare» fiducioso ma senza garanzie di approdo. Esattamente come il percorso della fede.

Nelle immagini, alcuni fotogrammi della pellicola girata tra il Brasile e il Trentino.

Nelle immagini, alcuni fotogrammi della pellicola girata tra il Brasile e il Trentino.

«Mi ha guardato negli occhi sorridendo, mi ha detto “coraggio”, uno dei suoi saluti abituali, e mi ha abbracciato. Ha infranto subito ogni tipo di barriera strutturale e fisica: il coraggio è una delle cose più belle che puoi donare a una persona, tutti ne abbiamo bisogno. Di coraggio di vivere, certe volte, di coraggio di essere quello che io volevo essere con quest’esperienza: un piccolo seme di riflessione. Lui l’ha sentito e l’ha condiviso». Chi parla è Giorgio Diritti, il regista e anche sceneggiatore, insieme a Fredo Valla e Tania Pedroni, del film Un giorno devi andare, con Jasmine Trinca, presentato in prima mondiale al Sundance Film Festival. Diritti si riferisce a padre Fernando, un missionario gesuita originario delle Canarie che opera in Brasile, a Manaus, dove è in gran parte ambientata la vicenda del film: «Uno degli incontri più belli, un uomo molto semplice, che non ha mai avuto la presunzione di insegnare niente a nessuno: vive il cristianesimo e pensa che il viverlo possa essere un esempio, ma il suo obiettivo non è convertire o “battezzare”». Incontriamo Giorgio Diritti in una giornata limpida di sole, a Bologna, nella sede di Arancia Film. Il regista de Il vento fa il suo giro e de L’uomo che verrà, di cose da dire ne ha tante: «Eccetera, eccetera», ripete spesso nel suo discorrere, e capisci che vorrebbe dire molto di più: un flusso di parole che si ramifica e ti coinvolge con quella che è la sua cifra, l’autenticità. La sua ultima opera, Un giorno devi andare appunto, girato in Brasile e in Trentino, segue il percorso di Augusta (Trinca) che, dopo aver perso il bimbo che aspettava, lascia tutto e cerca di ritrovare sé stessa con un viaggio in Amazzonia – in un alternarsi di speranza e dolore, luce e ombra – prima al fianco di una suora missionaria amica della madre, poi in una favela di Manaus, di cui diviene membro e lievito, finché qualcosa accade e la donna decide di isolarsi, in una totale immersione nella natura. Quale sia poi il suo destino il regista non lo dice espressamente: lo lascia scoprire allo spettatore.

Nelle immagini, alcuni fotogrammi della pellicola girata tra il Brasile e il Trentino.

«Mi auguro che quello che racconto sia un viaggio che possa compiere ogni persona: cerco di toccare temi quali la vita, la priorità delle cose nell’esistenza, anche con uno sguardo verso il cielo, o comunque un interrogarsi rispetto alla dimensione spirituale che è dentro di noi, che rinasce e che viene fuori nella paura e nella voglia di scoprire. Spero che alla fine si senta l’importanza di mettersi in gioco, appunto di andare, dove la parola “andare” riassume forse il significato di non lasciarsi schiacciare dalla malinconia, dal senso di sconfitta, dalla situazione socioeconomica che viviamo, da un’Italia veramente faticosa e imbarazzante, e di ritrovare un percorso personale che ci aiuti a dare spessore alla vita».

Nelle immagini, alcuni fotogrammi della pellicola girata tra il Brasile e il Trentino.

Diritti lo afferma con passione: «La vita è una cosa straordinariamente affascinante e bella e il più grande peccato che possiamo commettere è il non viverla, non rischiare, accettare le regole senza rielaborarle, diventare persone “che svolgono un compito”, quando invece nella vita abbiamo, e lo dico anche laicamente, una vocazione, che però va partecipata, nel creare comunità. Che per chi crede è comunità di figli di Dio, mentre, da un punto di vista laico, è comunità sociale, di fratellanza». L’andare della protagonista del film è in Amazzonia, una terra che non può lasciare indifferenti per la natura, la vastità degli orizzonti, i contrasti: «Credo che il rapporto con l’ambiente e la natura ti svegli, ti prenda per le orecchie – anche se sei stanco, perso, cieco – e ti dica: “Ooohhh? Guarda che c’è qualcosa: senti questi odori, quest’aria!”. E all’improvviso ti accorgi che tu sei lì, che tu sei quello, e nel momento in cui la natura ti affascina e ti percepisci parte di essa, capisci la tua dimensione relativa, quanto sei piccolo, e in questo piccolo ti guardi intorno e senti la voglia di capire, innanzitutto il senso del tuo essere piccolo. Nasce da lì, secondo me, la spiritualità. Tanto più siamo umili e piccoli, tanto più la nostra apertura verso Dio è inevitabile e urgente».

Il regista Giorgio Diritti in una favela di Manaus durante le riprese di Un giorno devi

Il regista Giorgio Diritti in una favela di Manaus durante le riprese di Un giorno devi
andare
(foto A. DI LORENZO).

Enoi che viviamo in una dimensione frenetica, lontana dallo spettacolo della natura, come possiamo fare? «Bisogna avere il coraggio di andare: andare a passeggio, anche in città, piuttosto che stare davanti alla televisione. Credo che le persone siano spesso angosciate proprio perché non hanno la forza di uscire dalla “scatola” in cui vivono: gli è stato dato uno schema, il consumismo, il grande mostro che ci suggerisce sempre come dobbiamo essere e cosa dobbiamo fare, ma gran parte di questi suggerimenti creano un senso di frustrazione, non ci sentiamo fighi e giusti se non possediamo certe cose… Ma poi non siamo felici lo stesso. Allora credo che, citando Dostoevskij, solo la bellezza ci salverà, quella che io chiamo anche natura, cioè il rapporto con l’autenticità di ciò che siamo, la scommessa e la possibilità di sopravvivenza dell’uomo sulla terra. I villaggi indios che ho visitato in fondo sono sintesi, attraverso le loro difficoltà, di una vita in cui le priorità sono chiare. Gli affetti, il mangiare, il vestire: avere il giusto, il necessario. Tutto il Sud del mondo ci dà questa indicazione ma noi spesso non la accogliamo: in ogni minuto della nostra quotidianità abbiamo un messaggio pubblicitario alla radio, alla televisione, su internet, che ci dice devi essere così, prendi questo, prendi quest’altro. Dobbiamo spogliarci un po’ di queste cose, penso».

In queste immagini: alcune scene del film Un giorno devi andare, con la giovane protagonista Jasmine Trinca (foto C. IANNONE).

In queste immagini: alcune scene del film Un giorno devi andare, con la giovane protagonista Jasmine Trinca (foto C. IANNONE).

La protagonista del film a un certo punto subisce un altro dolore grande e si isola: «La dimensione dell’abbandono, dello scoramento e dell’isolamento è un’altra tappa fondamentale per ritrovare se stessi. La meditazione è una cosa di cui c’è bisogno. È un altro modo per aprirsi e per far sì che le cose vengano a galla. C’è anche un’elaborazione del dolore nell’isolamento. Augusta prova il dolore dello smarrimento: non è un dolore diretto a lei, ma a questa gente già così povera, ridotta a condizioni di vita minimali, su cui si abbatte una tragedia. Il fatto che succeda anche questo è una violenza interrogativa, in un certo senso, e ti viene voglia di gridare a Dio “perché tutto questo?”. Di fronte a tutti i bambini che muoiono ogni giorno ti rimane quel dubbio del perché. Se tu vai in un ospedale oncologico e vedi i bambini, hai voglia ad avere fede e Spirito Santo che ti aiutano. Poi io, in un mio personale percorso, paradossalmente penso di poter dire che proprio la relatività del tempo della vita e la nostra condizione esistenziale diano una plausibilità molto più ampia a una possibilità dell’aldilà, nel senso che tanto più sentiamo che questa cosa è relativa nella durata, tanto più è perché probabilmente c’è un altro Altrove, insomma. Facendo un paragone molto banale è come essere all’antipasto: sai che ci sarà qualcosa d’altro. Se mi portano solo una carota e mi hanno invitato a pranzo, penso che mi aspetti qualcos’altro. Almeno mi viene istintivamente questo desiderio, questa tensione».

Il regista Giorgio Diritti (foto A. DI LORENZO).

Il regista Giorgio Diritti (foto A. DI LORENZO).

La fede di Giorgio Diritti va nella direzione indicata da Cristo, che è andato tra gli umili e gli ultimi. «Sono in cammino», dice. «Ogni tanto dubito e la paura e il deserto arrivano: ma credo che sia bello nella vita essere in cammino. Quello che sento un po’ con disagio è quando incontro persone che sono o totalmente chiuse o totalmente sicure. Sono convinto che ci debba essere un percorso di movimento nella fede, che non può essere statica, deve essere ricca di pensiero, di contraddizione, di disagio. Non è mai tranquilla, ma questo è il suo bello. Peraltro, quando ho pensato al film, una delle attenzioni che ho cercato di avere era di posizionarmi un po’ sul confine, non andando né di qua né di là: vicino a quel momento in cui una persona che non crede comunque ha, dai segni della vita, dei momenti in cui dubita, e vicino al credente che, in certi momenti della vita, si trova in situazioni in cui la sua fede o crolla o addirittura svanisce. Rispetto alla Chiesa cosiddetta ufficiale sono dell’idea che ci sia davvero da fare un bagno di umiltà e povertà: la sensazione è quella, che si debba trovare di nuovo l’autenticità. E invece si costruiscono le barricate su temi e valori che non c’entrano niente. Spesso si sentono dichiarazioni che danno delle legnate e definiscono dogmi delle cose che poi, dopo, uno cerca sul Vangelo da tutte le parti e non trova. Quindi questo mi interroga e mi fa anche dire: cerchiamo di essere attenti e di aiutare le persone a ritrovare il senso vero del loro percorso». «Nel film cerco di rappresentare due Chiese, una che riprende la logica figlia del “colonialismo dell’uomo bianco”: ci sono delle persone in gambissima e altre che, pur essendo in gamba, non si rendono conto che quanto stanno facendo è fuori dal rapporto autentico di valorizzazione ed evangelizzazione, diventa una colonizzazione dell’uomo bianco che con la croce in mano sappiamo quanti disastri ha fatto e continua a fare. Con la scusa della croce – mamma mia! – abbiamo veramente violentato il mondo, e in questo, purtroppo, la Chiesa ha sovente accettato il rifiuto ai compromessi difficili: per fortuna nella storia della Chiesa ci sono anche san Francesco, madre Teresa di Calcutta, padre Alex Zanotelli, don Ciotti, eccetera, persone che, al di là delle logiche strutturali, hanno ben chiaro e tengono ben diretta la nave verso la dimensione della semplicità, dell’umiltà, cioè verso il Vangelo. A me il Vangelo sembra la più straordinaria opportunità di riflessione per capire la vita, ed è anche straordinariamente semplice l’approccio con cui seguirlo. Troppo spesso mi sembra che nel mondo della Chiesa le regole, la morale, gli obblighi siano pesanti».

foto A. NOVELLI

foto A. NOVELLI

Il cattolico Giorgio Diritti come ha accolto le dimissioni di Benedetto XVI? «All’inizio mi ha provocato un senso di disagio: mi sembrava fuori dalla logica delle cose e per certi aspetti questa sensazione un po’ persiste dentro di me. Ma contemporaneamente mi sembra un segno interessante perché sento forte in lui una motivazione di umiltà, che è l’umiltà di un uomo che rispetto a qualche cosa che gli è stato dato da Dio ne riconosce il valore e, insieme, riconosce il suo limite, che può essere fisico ma può essere anche pastorale di fronte alla necessità di dare una svolta alla Chiesa, per responsabilizzarla, per darle un’energia maggiore. Se si guarda la cosa da questo punto di vista, è un segno molto importante. In fondo il più grande gesto di umiltà che può fare un uomo è quando, sentendosi totalmente smarrito, si rivolge a Dio e dice “ho bisogno del Tuo aiuto”. In questo, dunque, lo trovo cristiano nel senso più bello del termine: ci deve insegnare qualcosa. Così come ho amato straordinariamente l’ultima parte del pontificato di Wojtyla, che era l’icona del dolore e della sofferenza e ha dato dignità enorme a una dimensione che invece il mondo attuale tende a nascondere, cancellare, colpevolizzare. Una dignità che dovremmo ritrovare nella malattia, che è vissuta sempre con vergogna, e invece dovrebbe essere vissuta come occasione di vicinanza».

foto C. IANNONE

foto C. IANNONE

Donatella Ferrario – jesus aprile 2013