FILOSOFIA Jullien e l’incontro con l’altro, costitutivo del nostro essere

Esiste ancora l’Occidente inteso come coscienza di una non totale coincidenza della propria identità con quella degli altri. Siamo infatti eredi di una tradizione di pensiero che, grazie a Platone, Aristotele ed Agostino, ha sempre sostenuto che per conoscere sé stessi bisogna conoscere anche l’altro: e che l’amore di sé, se non diventa amore di Dio, scade nel narcisismo e nei suoi molteplici camuffamenti, i quali possono sussistere (e fare danni) anche quando includono forme di relazione e comunicazione reciproca. Parigi permane quindi nel suo ruolo di centro irradiante di una proposta che nel XIII secolo l’aveva resa, nelle aule della Sorbona, la nuova Atene cristiana. Proposta che oggi continua a farsi sentire, ad esempio, tra le recenti pagine di François Jullien, docente all’Université Paris VII-Denis Diderot della capitale francese, pubblicate quest’anno in Italia da Fel- trinelli: L’apparizione dell’altro. Lo scarto e l’incontro (pagine 176, euro 18,00). Quando scrive che «si esiste solo in quanto si può incontrare: se smetto di incontrare, la mia vita si esaurisce». L’incontro con l’altro non è l’incidente di percorso di una vita che dovrebbe magicamente compiersi da sola, ma fa parte della nostra natura: per trovare l’altro basta quindi essere disponibili ad aprire un varco in ciò che troppo superficialmente consideriamo banale e familiare e iniziare a vederlo nella sua vera identità. Per conoscere l’identità dell’altro devo aprire la mia: e viceversa, l’altro deve aprire la propria, se vuole conoscere la mia identità. Parigi e Roma non sono antagoniste, perché l’Illuminismo europeo solo nelle sue correnti più radicali ha corroso la coscienza classico-cristiana dell’altro. Dove, infatti, l’illuminismo non ha rifiutato la radice cristiana (Montesquieu), ha teorizzato il governo rappresentativo della legge attraverso le istituzioni parlamentari modellate sul precedente costituzionalismo inglese, le quali, a loro volta, affondavano le radici almeno nella medioevale Magna Charta del 1215 e nella filosofia politica francescana inglese del XIV secolo (Guglielmo di Occam). La domanda che quindi non possiamo fare a meno di porci, sulla scia di Jürgen Habermas (che ormai dall’inizio del nuovo millennio guarda con favore alla tesi delle radici cristiane dell’Europa), è quanto l’identità cristiana costituisca quella condizione senza della quale non può esserci autentico pensiero della differenza, ma si torna all’anima anti-cristiana dell’illuminismo: il sogno di paradisi terrestri inesistenti o la teoria della democrazia diretta degli eguali di Rousseau, poi tradotta in pratica da Robespierre, Lenin, Mao Tze Tung e Stalin attraverso la dittatura totalitaria del partito prima giacobino e poi comunista.

Una situazione che Paul Ricoeur, nell’ultimo decennio del Novecento, chiamava «pluralismo cattivo », nel quale le differenze diventano indifferenti. Vengono cioè promosse, ma fino al punto di essere rese forzosamente uguali l’una all’altra oppure (e forse anche peggio) a sé stessi: facendo intravedere l’ombra inconfessabile del pensiero unico o, come avrebbe detto Platone, della tirannide.

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FILOSOFIA. Balsamo e la bellezza: una lingua da parlare

Avvenire

Per quanto citata sino a sfiorare l’abuso, l’espressione «La bellezza salverà il mondo», che Fedor Dostoevskij mette in bocca al principe Miškin, il protagonista del celebre romanzo L’idiota, conserva una sua straordinaria potenza, forse anche perché si ricollega a una tradizione assai lunga e feconda, all’origine della quale possiamo collocare Platone, che, nel Fedro, asserisce che fra tutte le sostanze perfette soltanto alla bellezza «toccò il privilegio d’essere la più evidente e la più amabile ». Su questa linea si pone Beatrice Balsamo, della quale è stato da poco pubblicato il denso volume intitolato proprio Nella Bellezza. Quando la parola manca che viene presentato domani, sabato 28 novembre alle ore 19, a Verona, nell’ambito del Festival della Dottrina sociale.

La prima sottolineatura la merita il titolo del libro, per il fatto che in esso il termine ‘bellezza’ risulta scritto con la lettera maiuscola. Si tratta di un particolare apparentemente trascurabile ma, in realtà, assai significativo perché fa subito comprendere che l’autrice vuole condurre il lettore verso uno spazio che va oltre la dimensione meramente materiale. Non casualmente, il primo capitolo viene dedicato a un’attenta critica della mentalità, assai diffusa, di coloro che pensano che l’imperativo a cui obbedire sia «Godi, soddisfati», mentre, al contrario, il consiglio migliore è del tutto differente e indica all’uomo una strada ben diversa: «Odi, pensa».

Beatrice Balsamo è convinta che spesso oggi si faccia un uso sciatto e inconsapevole della parola, a volte persino manipolatorio: ciò comporta la perdita di senso. Di fronte a questo fenomeno pericoloso e distruttivo (del quale ancora una volta fu perfettamente consapevole Platone) esiste comunque una via d’uscita, quella della “Bellezza condivisa”. Scrive l’autrice: «La Bellezza, con la sua forza unificante, è pensiero trasformativo verso una ricomposizione dell’esperienza. È rinascita, ma pure giustizia. È funzione vitale, risveglia e approfondisce il senso della vastità e della pienezza che ci riguardano, è giudizio e critica, è capacità di scelta. È slancio, modo di operare, in qualche modo ‘opera d’arte’ sulla materia vivente, è gesto di vita luminoso».

Il campo su cui si gioca la partita decisiva per affermare il valore e il primato della Bellezza è dunque quello della parola. Se la partita sarà vinta, il futuro avrà meno ombre: «Il linguaggio della Bellezza, infatti – afferma con passione la Balsamo – è il linguaggio dell’ascolto integrante, il linguaggio che originariamente è gesto di me attraverso e attraversante l’altro, atto di continua reinvenzione del mondo e di costruzione dell’umanità. La Bellezza è svelatezza e cura».

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Beatrice Balsamo

Nella Bellezza

Quando la parola manca

Mursia. Pagine 142. Euro 16,00

«Così la filosofia ha riscoperto la realtà»


Realtà

«L’antirealismo era mosso spesso da ragioni intellettuali e politiche, però ha esaurito la sua forza propulsiva e spesso porta a risultati, teorici e pratici, che molti ritengono inaccettabili»

Mario De Caro

Mario De Caro

Avvenire

Da Bentornata realtà, antologia da lei curata nel 2012, a semplicemente Realtà di oggi, una agile monografia che non ha bisogno nemmeno di un sottotitolo. Il realismo è dunque tornato protagonista in filosofia e sulla scena culturale? E che cosa significa questo?

Nell’ultimo paio di decenni il tema della realtà è tornato al centro del dibattito filosofico da cui, per varie ragioni, era stato estromesso nel secolo scorso – risponde Mario De Caro, filosofo con cattedra a Roma Tre e alla Tufts University di Boston, esecutore letterario del grande pensatore americano Hilary Putnam e autore dell’appena pubblicato Realtà ( Bollati Boringhieri, pagine 126, euro 13,00) –. Un fattore fondamentale di quella estromissione fu la cosiddetta “svolta linguistica”, che accomunò il mondo analitico (da Frege e Russell sino a Dummett e Davidson) e quello continentale (con lo strutturalismo, ma in un certo senso anche con Heidegger, il quale con audace metafora georgica aveva proclamato che il linguaggio è “il pastore dell’essere”). Se il punto di partenza dell’indagine filosofica è il linguaggio, la questione della realtà arriva molto dopo – se arriva affatto. Un’altra ragione, parzialmente indipendente, dell’oblio filosofico in cui la realtà cadde per parecchi decenni fu l’avversione verso la metafisica di molti filosofi del secolo scorso: e, di nuovo, ciò avvenne sia in ambito analitico (si pensi al positivismo logico o alla tradizione legata alle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, via via sino a Rorty) sia in quello continentale (con il postmoderno, il decostruzionismo, il pensiero debole). Oggi però, appunto, nelle discussioni filosofiche la realtà è tornata in pompa magna: e ciò soprattutto perché l’antirealismo – che pur era mosso spesso da nobili ragioni intellettuali e politiche – ha esaurito la sua forza propulsiva e spesso porta a risultati, teorici e pratici, che molti ritengono inaccettabili.

Viene da chiedersi che cosa sostengono gli anti–realisti e chi sono.

Premessa: ogni filosofo serio è realista su alcune questioni e antirealista su altre. Una filosofia integralmente realista sarebbe trivialmente onnivora, priva di ogni punto di vista; mentre una filosofia integralmente antirealista sarebbe l’equivalente filosofico della pagina bianca di Mallarmé. Ciò detto, con il termine “antirealismo” oggi in genere si intendono le concezioni che, da una parte, rifiutano di considerare l’idea della realtà nel suo complesso come una nozione sensata e, dall’altra, non ritengono che la scienza offra un punto di vista rilevante per le discussioni filosofiche. Queste concezioni hanno avuto una funzione propulsiva e antidogmatica, ma oggi tendono a ripetere stancamente tesi sviluppate nel secolo scorso. E questo è il migliore dei casi, perché nel peggiore l’antirealismo produce forme di irrazionalismo francamente velleitarie e talora pericolose. Spesso, per esempio, il negazionismo rispetto alle questioni sanitarie è prodotto da questo humus filosofico.

La posizione realista non mette tutto a posto. Ci sono domande chiave che il libro affronta. Per esempio: meglio affidarsi ai sensi o alla scienza per indagare la realtà? Che dobbiamo fare con le proprietà qualitative – colori, suoni, odori – che Galileo aveva escluso dalla scienza? Le entità collettive, come le multinazionali, per non parlare di quelle non materiali, come i numeri, che statuto hanno? E i giudizi morali su che cosa si basano?

Un momento cruciale per la discussione su quale sia il migliore realismo filosofico si ebbe tra fine Cinquecento e inizio Seicento, quando l’Italia era ancora il centro della cultura europea (bei tempi). Si sviluppò allora una vivacissima discussione tra un partito culturale di matrice aristotelica e uno di matrice platonica (a cui apparteneva Galileo). Quella discussione riguardava il modo in cui si deve intendere l’idea di realtà naturale. Per i platonici il mondo vero era solo quello delle entità matematizzate di cui ci parlava la nuova fisica: un mondo in cui c’era posto per entità inosservabili (come gli atomi) ma non per le cosiddette “qualità secondarie” (colori, odori, sapori) che sono un prodotto della nostra mente. Questa discussione – con i dovuti aggiornamenti – è viva ancora oggi.

E infatti, in realtà – il gioco di parole è voluto – anche oggi esistono diversi realismi. Definiamo in breve quello ordinario e quello scientifico.

Secondo il realismo ordinario (che è erede del partito aristotelico di cui abbiamo parlato) il mondo reale è sostanzialmente quello che esperiamo con la percezione, mentre la scienza naturale – soprattutto quando fa riferimento a entità inosservabili, come i buchi neri e gli atomi – è un utile strumento di previsione, ma non ci parla veramente del mondo così com’è. Questa opinione è propria della fenomenologia a partire da Husserl e di molta parte della filosofia continentale, ma è anche difesa da uno dei maggiori filosofi della scienza contemporanei come Bas van Fraassen. Il realismo scientifico (difeso, per esempio, da Quine e da Searle) assume il punto di vista opposto. Secondo questa concezione, è la scienza naturale a descrivere il mondo così com’è, mentre la percezione ci mostra un mondo che è nulla più di un’approssimazione di quello reale, perché il mondo reale non è colorato, non ha suoni né odori. Inoltre, mentre oggi i realisti ordinari tendono ad accettare come legittime le pretese oggettive della morale (in fondo, noi percepiamo la sofferenza delle persone e per questo sappiamo che dovremmo aiutarle), molti realisti scientifici sono scettici sull’oggettività dei giudizi morali.

Il più nuovo e interessante è il realismo pluralistico (o naturalismo liberalizzato). Come nasce, che cosa sostiene e come può mettere d’accordo (quasi) tutti?

L’idea fondamentale del naturalismo liberalizzato è che tanto il realismo ordinario quanto quello scientifico sono plausibili nelle rispettive tesi positive ma le accompagnano con tesi negative molto recise e unilaterali. Questa duplice unilateralità dipende da una tendenza intellettuale molto diffusa, ma spesso fuorviante: quella alla semplificazione. La realtà però non è semplice, ma estremamente variegata. Assumendo questa prospettiva, il naturalismo liberalizzato è caratterizzato da un costitutivo pluralismo, sia sul piano ontologico sia su quello epistemologico: accetta, cioè, che sia la percezione sia la scienza parlino della realtà. Ovviamente, è una posizione complessa: ma di soluzioni semplici, nella storia del pensiero, ne abbiamo avute sin troppe.

Libro: «Il Dio dei senza Dio»

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14 novembre 2020 – Osservatore Romano

Piuttosto che di essere recensito, il libro di Franz Coriasco, Il Dio dei senza Dio. Riflessioni agnostiche sul più paradossale degli dèi (Cinisello Balsamo, San Paolo, 2020, pagine 224, euro 18) chiede di essere raccontato, perché le vicende di un animo e le esperienze interiori non possono essere passate al vaglio della critica, come accade nel caso di un saggio o di un romanzo. Tanto più se ciò deve avvenire nello spazio, necessariamente limitato, di una recensione. Certo, nel volume sono presenti non poche argomentazioni e affermazioni di carattere teologico e filosofico, ma tutto questo viene filtrato dal protagonista e rielaborato all’interno di un racconto autobiografico, una specie di originale diario intimo. E un diario non è recensibile.

La prima fondamentale informazione che l’autore dà al lettore riguarda il suo ateismo: da trent’anni Franz Coriasco ha perso la fede; non crede più in Dio, ma nello stesso tempo ritiene che il suo confronto con l’Altissimo non sia concluso: per questo motivo si presenta come un agnostico che, pur non credendo, non esclude che Dio possa esistere e, dunque, continua a domandare di Lui, perché questo enigmatico Signore gli si propone come una presenza (o una assenza) problematica. A quale Dio si riferisce Coriasco? A quello, ricordato nei Vangeli di Matteo e di Marco, a cui si rivolge il Crocifisso gridando «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Fu Chiara Lubich a far riflettere a fondo Franz su quell’urlo straziante: anche lei aveva incontrato Gesù abbandonato e ne aveva fatto il centro della propria vita, identificandolo con gli ultimi, i poveri, i senza speranza, con tutto il dolore del mondo; un Gesù da amare, amando gli abbandonati.

Fu, per Coriasco, allora adolescente, una testimonianza decisiva. Ma verso la fine degli anni ’80 del Novecento, la fede svanisce. In quel periodo tanto complicato un evento si impone: l’incontro con Chiara “Luce” Badano, che morirà giovanissima e che nel 2010 è stata elevata agli onori degli altari. Coriasco ha una certezza: «Gesù Abbandonato è stato indubbiamente il Dio di Chiara Luce». Ma la fede non torna. Improvvisamente, nell’oscurità di una vita sempre più cupa e intristita, irrompe l’amore. Franz si sposa, ma dopo poco il matrimonio fallisce e si conclude con il divorzio, che lo lascia nello smarrimento, incapace di trovare alcuna consolazione, neppure in quel “Gesù Abbandonato” che una volta gli era sembrato il rifugio più rassicurante. D’altra parte, in quale altro modo porsi di fronte a un Dio il cui Figlio muore inchiodato a una Croce, sperimentando l’abisso della solitudine e del nulla? Potrebbe essere questo Dio «azzerato» — si chiede ancora Coriasco — a offrire la risposta decisiva?

Ad aiutare Franz nell’ approfondimento di questi temi davvero brucianti fu Giuseppe Zanghì, anima eletta e amico di una vita, che il nostro autore ricorda costantemente con gratitudine: insieme discutono del dolore e dell’amore, dell’uomo e di Dio, della Trinità e del demonio, della fede e dell’ateismo, di tutto ciò che, insomma, interessa drammaticamente Coriasco e che poi è rifluito nel libro, soprattutto nella seconda parte, occupata da quelle «riflessioni agnostiche» che ne caratterizzano il contenuto.

In questo contesto, l’autore colloca varie considerazioni sul ruolo della fede cristiana e della Chiesa, che ai suoi occhi sembrano aver perso lo smalto sanamente provocatorio che dovrebbero contraddistinguerle. La crisi religiosa appare una parte della più generale crisi che sconquassa il mondo e, in particolare, l’Occidente una volta cristiano. Soltanto l’Abbandonato mostra la capacità di non finire travolto dallo sfacelo, che Coriasco giudica imminente.

Su tutto, incombe la tragedia del male che da sempre interroga e angoscia l’umanità e trafigge il cuore dei credenti. Ancora una volta per l’autore la sola presenza plausibile appare quella del Crocifisso, dell’Abbandonato: l’unico cristianesimo in grado di resistere alla tempesta della contemporaneità è quello che ha al centro il Dio che per amore si spoglia di ogni sua prerogativa, quello che Chiara Lubich definiva il Dio degli atei e, dunque, anche il Dio di Franz Coriasco.

Il libro non si conclude con un colpo di scena e l’autore conferma fino all’ultima pagina il proprio agnosticismo. La sua storia e le sue riflessioni, che ho cercato di sintetizzare, offrono infiniti spunti per pensare e meditare. Spero che a Coriasco non dispiacerà se, per concludere questa mia “non-recensione”, mi affido al celebre pensiero di Blaise Pascal in cui Gesù dice all’uomo: «Consolati, tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato».

di Maurizio Schoepflin