FILOSOFIA Vico più attuale di Hobbes per ritrovare la “polis”

Due volumi analizzano il pensiero politico degli autori e le sue ricadute nel Novecento. Dall’inglese sono venuti i nazionalismi, i totalitarismi e l’idea di guerra di tutti contro tutti. Mentre il napoletano invita a riscoprire l’eredità religiosa

di GIUSEPPE BONVEGNA

Parlare del pensiero politico di Thomas Hobbes potrebbe sembrare quasi scontato oggi, quando l’Europa si trova di nuovo in guerra per la prima volta dai tempi della fine della Seconda Guerra Mondiale: dato che Hobbes è stato il pensatore moderno che ha teorizzato la guerra di tutti contro tutti come aspetto costitutivo della natura umana e l’autorità politica come finalizzata esclusivamente a evitare la guerra e a garantire la pace.

Eppure, il lavoro su >> Hobbes nel Novecento, mandato in stampa quest’anno dall’Istituto per gli studi filosofici di Napoli (a cura di Guido Frilli, pagine 247, euro 23,00), acquista un suo peso specifico se messo a confronto con un’altra operazione simile che Mimesis ha voluto dedicare a un altro autore moderno, successivo a Hobbes, che riveste anche lui un’importanza capitale per la nostra coscienza politica: Giambattista Vico.

Quello che infatti Hobbes, alla metà del Seicento, aveva pensato riguardo alla natura umana e all’autorità politica sarebbe stato solo in minima in parte ripetuto da Vico un secolo dopo, in pieno illuminismo: la natura umana, per Vico, è anche polemos, ma soprattutto polis raggiungibile però, a differenza della città hobbesiana e illuminista, non solo (e non tanto) con mezzi umani ( >>> Polis e polemos. Giambattista Vico e il pensiero politico, a cura di Gennaro Maria Barbuto e Giovanni Scarpato, pagine 360, euro 28,00).

 

Il pensatore napoletano opponeva a Hobbes (e a Cartesio) una visione premoderna «lontana dai sogni sull’età dell’oro e dai vagheggiamenti utopistici» del pensatore inglese che di lì a pochi anni si sarebbero ritrovati e perfezionati in Jean-Jacques Rousseau. Convinto che l’ordine del mondo non derivasse dalla coscienza umana, ma andasse cercato attraverso una Scienza Nuova che individuasse un’altra origine, Vico aveva incontrato la tradizione religiosa, sulla base della quale «il bestione errante » cominciò a uscire dal caos, dando avvio alla storia intesa come Provvidenza: vale a dire cammino non sempre consapevole (ma chiaro nella propria finalità) attraverso il quale l’umanità si protende alla conservazione della vita attraverso il recupero delle Forme ideali nel tempo.

La polis è il momento in cui si realizza la sintesi tra ideale e temporale e Vico, per questo, fu l’iniziatore della filosofia della prassi all’interno del pensiero moderno. Egli intendeva tuttavia la prassi come il tentativo non di rivoluzionare il mondo a partire da un’idea della mente, ma di recuperare un ideale trascendente che non ci appartiene e la cui ricerca dà inevitabilmente luogo a una crisi del pensiero: proprio quando l’ideale sembra essere raggiunto, esso non si lascia catturare e quindi un ciclo della storia si conclude, come se l’umanità, non avendo più ragioni per continuare a perfezionarsi, senta il bisogno di tornare all’immaginazione per salvarsi da quella ‘barbarie della riflessione’ che è l’eccesso di riflessività.

Per questo sguardo rivolto più all’indietro che in avanti, Vico restava una voce inascoltata nell’epoca dell’illuminismo. I filosofi dell’Encyclopédie avrebbero invece fatto della negazione hobbesiana di Dio in nome del pensiero astratto la base di quel progressismo concretizzatosi prima nella Rivoluzione francese e nel nazionalismo ottocentesco e poi nelle rivoluzioni politiche del Novecento (nazionalsocialismo, fascismo e comunismo): le quali si sarebbero presto sviluppate in regimi totalitari, mutuando dal nazionalismo, come ha messo in luce Hannah Arendt nelle Origini del totalitarismo (1951), aspetti importanti come l’antisemitismo. Ma voce, quella di Vico, forse ancora più attuale, rispetto alla hobbesiana, nel nostro tempo: mentre infatti ‘non possiamo non dirci hobbesiani’, perché domina ancora il Leviatano di Hobbes nella prospettiva nazionalista, rivoluzionaria e totalitaria in forme che si estendono (a diversa intensità) dall’Atlantico al Mar Cinese (passando per gli Urali) e che contemplano tutte la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali, non è inutile riscoprire i fondamenti di un mondo diverso e che abbiamo perduto.

Almeno per incamminarsi, dopo il disincanto weberiano del mondo e la conseguente definizione dello Stato come comunità di uomini che pretende ‘il monopolio dell’uso legittimo della forza fisica’, verso un salutare re-incanto che possa includere, vichianamente, anche un recupero della tradizione religiosa e del suo rapporto con una polis non totalitaria.

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La filosofia? Nacque a Creta nel 2000 a.C.

Per spiegare l’apparente illogicità del titolo del suo ultimo libro, La filosofia prima della filosofia (Scholé, pagine 198, euro 22,00), Luca Grecchi, docente presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca, fa ricorso proprio alla filosofia, e precisamente a quella di Aristotele, il pensatore greco vissuto nel IV secolo a.C. Questi elaborò due fondamentali categorie, l’atto e la potenza, che permettono di spiegare e comprendere i modi in cui può presentarsi un ente. A tale riguardo, un esempio semplice è dato dalla gallina e dall’uovo.

Quest’ultimo rappresenta la potenza destinata a diventare una gallina, ovvero un atto, un ente pienamente realizzato. Lo stesso esempio lo possiamo estendere alla ghianda (potenza) e alla quercia (atto). Come trasferire tutto questo alla storia della filosofia? Secondo Grecchi, prima del VII secolo a.C. non esisteva la filosofia in atto, ma quella in potenza sì. Ciò che chiamiamo filosofia, la cui storia siamo soliti far cominciare nel VIIVI a.C. secolo con Talete che si interroga sull’arché (principio) dell’universo, sarebbe la filosofia in atto, quella che giungerà a completa maturazione con Platone e Aristotele. Dunque – spiega l’autore – esiste una filosofia prima della filosofia, una filosofia in potenza, il cui inizio può essere collocato nel XX secolo a.C. all’epoca della civiltà palaziale cretese, e che si prolungherà fino ai Presocratici, che i nostri manuali scolastici indicano come i primi pensatori greci.

Dunque diventa non soltanto possibile ma anche importante il tentativo di ricostruire la storia della filosofia in potenza, quella che, a giudizio di Grecchi, mise le sue radici nella Creta dei primi Palazzi e si sviluppò successivamente, sino a rendersi chiaramente visibile al tempo delle poleis, le famose cittàstato che caratterizzarono un’epoca gloriosa della storia greca. Appurata l’esistenza di questo percorso, l’autore si impegna a identificarne gli snodi principali e a delinearne le caratteristiche più rilevanti, e il libro accompagna il lettore all’incontro con la civiltà cretese e con quella micenea, per poi giungere sino alla fondazione delle poleis in Magna Grecia e in Sicilia e alla nascita della filosofia che lì ebbe luogo. Si tratta di un cammino, durato lunghi secoli, di cui Grecchi avverte tutto il fascino, senza che ciò gli impedisca di affermare che il compito che si è prefisso presenta un alto tasso di discrezionalità. Ma discrezionalità non significa spalancare le porte alla fantasia: non a caso, nell’Introduzione, Daniela Lefèvre Novaro, docente di Archeologia greca all’Università di Strasburgo, scrive: «Immaginare che la filosofia nasca nella raffinata Creta palaziale, la prima civiltà europea che inventò diverse forme di scrittura, è verosimile… In definitiva non possiamo che sottoscrivere la proposta di Luca Grecchi di instaurare un dialogo fruttuoso tra filosofia, storia e archeologia alla ricerca delle origini della filosofia greca tra la Creta minoica e le poleis magno greche e siceliote, auspicando che questa ricerca possa dare origine ad un ampio dibattito sulle radici della

philosophia ».

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Creta: Cnosso

Filosofia per la vita di ogni giorno

Tra i grandi eventi che l’Italia ospiterà nei prossimi anni, ce n’è uno di cui si parla poco. Ci riferiamo al 25° Congresso mondiale di filosofia, che la città di Roma accoglierà nell’estate del 2024 e il cui programma principale è stato messo a punto proprio in questi giorni. Forse se ne parla poco perché ci appare lontano, o forse la filosofia non desta più l’interesse di un tempo. Eppure, si tratta della maggior opportunità di riflettere pubblicamente sul futuro delle società europee nella storia recente del nostro Paese. Un Congresso mondiale non è né un festival, né un convegno accademico. In esso non si parla solo di filosofia. Esso riunisce invece figure della cultura di tutte le aree del pianeta per interrogarsi sul destino sociale, economico, politico, tecnologico e culturale del mondo di oggi. In Italia, e più in generale in Europa, questa funzione critica della filosofia è in parte andata perduta. Proprio nella situazione di crisi che stiamo attraversando, però, è più che mai necessario capire quali possano essere i modelli di sviluppo delle nostre società. Ci andiamo ormai rendendo conto che la lunga emergenza legata alla pandemia non è solo una crisi sanitaria. Il mondo di prima, con il suo stile di vita, le abitudini, anche la leggerezza che ci ha spesso accompagnato, non tornerà più. Forse stiamo realizzando di aver vissuto per troppo tempo in una bolla di relativo benessere, e ci chiediamo cosa ci attende e cosa attende i nostri figli. Il timore, che temo sia fondato, è che le diseguaglianze economiche e sociali crescano in misura drammatica e, con esse, il processo di polarizzazione già in corso su scala planetaria. Da tempo vediamo – e spesso abbiamo scelto di non vedere – gli effetti di questa polarizzazione, di questa esclusione. Li osserviamo nelle periferie delle megalopoli contemporanee, nelle zone rurali più disagiate del pianeta, nelle innumerevoli bidonville che costellano il nostro mondo ma anche nel Mediterraneo ridotto a cimitero di donne, uomini e bambini, nelle migliaia di esseri umani di ogni genere ed età accampati nel gelo dei confini europei, la cui umanità viene costantemente violata dall’indifferenza, dall’apatia con cui le nostre società continuano a far finta di non vedere, di non sapere. Riflettere su quest’umanità, anzi su questa disuma- nità che è anche la nostra, non è un vuoto, retorico esercizio di morale. Si tratta invece di indagarne le ragioni profonde, anche chiedendosi se questo destino di esclusione, a lungo considerato estraneo all’occidente, non stia già investendo anche le nostre società, mettendole di fronte non a una pur grave crisi economica ma a un ben più drammatico rischio sistemico di asservimento economico e, in prospettiva, di subalternità civile. È proprio per comprendere in profondità la portata di queste trasformazioni, e per non ritrovarsi ad accettarle passivamente, che occorre calare la riflessione filosofica nella concreta realtà sociale e storica del nostro tempo. Non illudiamoci di farlo da soli. Per affrontare i principali nodi sociali, etici, politici, spirituali e religiosi del mondo di oggi, il pensiero deve aprirsi a idee e sistemi di valori di ogni regione del mondo, mettere a confronto sensibilità religiose e spirituali diverse, accettare insomma, anzi decidere di rendersi consapevolmente vulnerabile ai punti di vista degli altri: abbandonando l’idea di un immaginario primato dell’occidente e impegnandosi invece a conoscere meglio le altre tradizioni di cultura. Per questo il Congresso mondiale di Roma sarà davvero un grande evento. Intellettuali del mondo intero discuteranno, anzi stanno già discutendo, di relazioni interculturali e interreligiose, di diseguaglianze sociali ed economiche, di democrazia, di accesso all’educazione, di sostenibilità, biodiversità, fratellanza e accoglienza, di problemi legati alla crescente longevità… Eventi di questa portata consentono, come ha mostrato in altro ambito l’Expo di Milano, di ridisegnare il luogo che li ospita. Il Congresso mondiale si iscrive in questo processo di ripensamento, di “ricostruzione” di un tessuto sociale, che in questo caso non investirà uno spazio urbano e architettonico ma il vasto spazio intellettuale nel quale l’umanità dovrà pensare se stessa, al di là delle barriere, dei muri e dei confini che si è essa stessa data.

Quest’impegno è destinato in primo luogo alle generazioni più giovani. Fare il nostro mestiere di filosofi, di educatori, significa in primo luogo aver presente il senso che le culture delle diverse aree del mondo hanno attribuito al processo di civilizzazione e di formazione della persona: un’azione plastica su noi stessi che ci aiuti ad aprirci allo straniero, a capire e accettare nel nostro mondo lo strano, l’anormale, così da espandere i confini della nostra esperienza e accrescere la nostra capacità di comprendere la realtà. In mancanza di tale disposizione a cambiare, a convertirsi, in mancanza di questa generosità o carità che non è un mero valore morale ma un fondamentale dispositivo di comprensione del mondo, nessuna interazione sarà possibile: si avranno allora conflitti di vissuti, di sistemi etici, di civiltà. La duplice via della mente e del cuore, che i filosofi medievali chiamavano itinerarium e gli autori cinesi dao, esprime questa funzione educatrice della filosofia in quanto esercizio che insegna a superare la propria finitudine e a vivere nel mondo attraverso una soggettività più vasta del nostro io particolare. Nell’incontro con studiose e studiosi affermati, e ancor più con coetanei di altre regioni del mondo, studentesse e studenti di differenti età potranno confrontarsi con idee, punti di vista e stili di pensiero spesso lontanissimi dai loro: abituandosi a considerare sempre più il mondo intero come casa propria, ad abitarlo comprendendo le ragioni degli altri, i loro punti di vista, le tradizioni, i costumi. Mai come oggi la combinazione di competenze tecniche e formazione umanistica appare determinante per assicurare piena e informata libertà di scelta, piena cittadinanza, alle nostre figlie e ai nostri figli.

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Con la definizione del programma è iniziato il cammino verso il 25° Congresso mondiale di filosofia, che Roma accoglierà nell’estate del 2024 Non è un festival né un convegno, ma riunisce intellettuali di tutto il pianeta per interrogarsi sul futuro sociale, economico, politico, tecnologico e culturale Mai come oggi la combinazione di competenze tecniche e formazione umanistica appare determinante per assicurare piena e informata libertà di scelta, e quindi piena cittadinanza, alle nostre figlie e ai nostri figli

Festivalfilosofia 2021 mette a tema la libertà

EUGENIO GIANNETTA

«Libertà» è il tema della 21ª edizione di Festivalfilosofia , che si terrà da venerdì 17 a domenica 19 settembre in 40 luoghi e tre città: Modena, Carpi e Sassuolo. Saranno quasi 200 gli appuntamenti in programma tra mostre, spettacoli, iniziative per i giovani, cene filosofiche e oltre 45 lectio magistrali, per una manifestazione che nei suoi 20 anni ha superato i due milioni di presenze e continua a proporre voci nuove in un continuo rinnovamento, soprattutto di pensatori internazionali. L’edizione 2021 – studiata per riflettere sul tema della libertà dopo un difficile anno e mezzo di necessarie restrizioni – è stata presentata ieri a Modena in conferenza stampa, anticipando alcuni dei temi: essere liberi e da cosa, dopo aver provato cosa significhi essere privati della libertà individuale, ma anche libertà in un’accezione collettiva, all’interno dei nostri sistemi politici, passando per abitudini e neuroscienze, cercando di capire come possono influire sulla nostra mente e se rischiano di limitare le libertà.

«Ripartiamo dalle 70 mila presenze dello scorso anno – spiega Gian Carlo Muzzarelli, sindaco di Modena – mettendo in moto la città. Si parlerà di libertà economica, di temi relativi la tutela sanitaria, internet, le libertà individuali. La libertà è una conquista, non cade dal cielo». All’intervento del sindaco sono seguite le parole di Michelina Borsari, membro del Comitato scientifico del Consorzio per il Festivalfilosofia: «La sospensione di alcune libertà individuali è come se avesse irritato un nervo sopito. Abbiamo messo in atto una gerarchia di valori, subordinando – giustamente – la libertà alla salute. Tra i temi che affronteremo anche il concetto di decisione: dalla modernità in poi siamo stati costretti a prendere decisioni in continuazione. Tra le sfide che la filosofia deve affrettarsi ad affrontare, nuovi saperi come le scienze, le neuroscienze e le scienze cognitive. I membri di una società non sono liberi quando ciascuno prende le proprie decisioni, ma quando le libertà dell’uno e dell’altro hanno fini solidali. Il mestiere del festival è alzare il livello di consapevolezza».

La scelta del tema della libertà porta a riflettere su parole di senso comune, cercando di fornire un inventario sul presente e declinando il tema alla luce dell’esperienza sociale e politica. Tra i blocchi tematici che saranno affrontati anche il libero arbitrio, l’addomesticamento, l’abitudine, ma anche il capitalismo digitale: macchine, algoritmi, entità che influenzano la nostra scelta e che, come spiega Barbara Carnevali, membro del Comitato scientifico, danno la sensazione di un «eccesso apparente di libertà che può trasformarsi nell’effetto contrario». A dare una visione a tutto tondo del programma è Daniele Francesconi, direttore del festival: «La questione dell’abitudine, che affronteremo, è per molti versi anche la questione di come riappropriarsi di queste forme di cultura dopo un’interruzione come quella vissuta. Tra gli ospiti, farà il suo esordio Luciano Floridi e interverrà, tra gli altri, Maurizio Ferraris». A concludere gli interventi è Massimo Cacciari, sul concetto di maschera sociale e sincerità: «Non si nasce liberi. La libertà si costruisce e lo si fa sulla base di potenti condizionamenti. La nostra libertà e le scelte che compiamo sono in continua costruzione».

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